" E i ragazzi, come vivevano, come trascorrevano le giornate? Era una vita magra anche per loro, vita di rinunce, di insoddisfazioni. I più lavoravano nella campagna coi loro padri, o facevano i garzoni, i braccianti, e nelle ore libere o nei giorni festivi, bighellonavano per il paese, passeggiando nelle strade, sali e scendi, dalla Matrice a S. Anna, a S. Rosalia; e a sera si ritiravano stanchi e insoddisfatti, annoiati al punto che non vedevano l'ora che venisse notte e spuntasse l'alba per tornare a lavorare in campagna. Gli svaghi? Ben misera cosa: il gioco del cerchio di ferro, la “strùmmula" - trottola- , il gioco delle mazze e qualche altro gioco come vedremo meglio più avanti.
Il gioco del cerchio consisteva nel far girare, appunto, il cerchio per le strade, guidato mediante una mazza, di ferro anch'essa, avente l'estremità a uncino che consentiva di mantenere il cerchio in equilibrio; impresa piuttosto ardua in quelle impervie è tortuose strade. Per cui bisognava ricorrere a certi contorcimenti delle gambe e delle braccia che, francamente, era più la fatica che la soddisfazione e il divertimento.
Il gioco della “strùmmula" era meno faticoso e in qualche modo più gratificante, sebbene fosse un gioco impegnato,che richiedeva fantasia, abilità e una certa eleganza di stile. All' abilità di lanciare con perizia lo strumento attorcigliato garbatamente con una cordicella, si accoppiava il modello fantasioso della “strùmmula" che spesso veniva adornata con colori vivaci, ad immagine dell'arcobaleno, accendendo nei ragazzi fantasia, entusiasmo e, perché no, orgoglio. Ciò che attirava la maggiore attenzione era soprattutto l'abilità nel far durare il più a lungo possibile la danza della
"strummula"; e questo dipendeva in larga misura dal modo di lanciarla con quel laccio che doveva essere bene arrotolato, aderente allo strumento - per ottenere tale effetto qualche volta si inumidiva la cordicella -.
E si scatenavano delle vere e proprie gare che coinvolgevano non solo i ragazzi protagonisti del gioco, ma altresì coloro che assistevano e che tifavano ora per l'uno ora per l'altro concorrente.
Non c'era alcun premio per i vincitori, ma si passava il tempo, e c'era la soddisfazione di essere i migliori; e questo contava molto!
Altro gioco preferito dai ragazzi era quello delle “mazze", un gioco semplice che aveva però i suoi appassionati e il suo pubblico di giovani, naturalmente. Consisteva nel far volare il più lontano possibile un piccolo legnetto dalle estremità appuntite, posato per terra, sulla strada, che con un colpo di “mazza" di legno, un po' robusto, ma ben dritto, e levigato veniva fatto saltare prima in aria e poi, con una accelerata e simmetrica azione, nuovamente colpito con forza e con misura per imprimergli una netta spinta che lo lanciasse lontano: vinceva chi riusciva a proiettare il legnetto a più lunga distanza dalla postazione di tiro.
Qualche volta ci andava di mezzo il vetro di qualche finestra, alla cui rovina seguiva un fuggi fuggi dei ragazzi, per non essere responsabilizzati dal padrone della finestra.
Anche questo gioco, come quello della “strummula" , si svolgeva a gruppi di ragazzi. Erano giochi, svaghi semplici che bastavano però a una gioventù che non conosceva altre consolazioni della vita, ma che non si riteneva infelice per questo. Oggigiorno i ragazzi non giocano più così semplicemente: anzi, la semplicità è diventata un segno di debolezza. La moderna società non offre giochi, ma vizi che fanno ammuffire la gioventù. O fa peggio!
I ragazzi più grandi, si dedicavano a vere e proprie gare di abilità, di forza che richiedevano una buona dose d'orgoglio, di prestigio e, naturalmente, una buona dose di muscoli. Erano gare che ci riportano, in un certo senso, un po' lontano nel tempo, sino alle antiche civiltà greco-romane: il lancio del giavellotto, del disco, del peso, la lotta greco-romana. Bene, qualcosa di simile, almeno nello spirito, facevano i giovani del tempo di cui parlo. Non proprio quei giochi che ho citato, ma erano ugualmente gare che mettevano a fuoco la loro forza, la loro abilità che, come in quei tempi antichi, divenivano virtù esaltanti. Erano giovani che si riunivano magari in una “pagliera" - specie nei mesi invernali - o in una casa di campagna o anche, nei mesi estivi, in aperta campagna, fra l'erba, a gareggiare in quelle loro virtù di forza, di abilità, di intelligenza e di esperienza, anche.
Una di queste gare, per esempio, consisteva nella capacità di alzare da terra un uomo a “peso morto", seguendo certe regole e modalità che, se applicate rigorosamente, rendevano difficile l'impresa; e qualche volta persino impossibile. Alzare un corpo come fosse morto, da terra, e riuscire a caricarselo sulle spalle, usando solo le braccia e senza appoggiarlo al proprio corpo, richiedeva forza e abilità, doti non riscontrabili in chiunque.
Altra gara era quella di caricarsi sulle spalle, con l'uso di un solo braccio - l'altro veniva legato dietro la schiena - una bisaccia piena di grano, ossia quattro tumoli, corrispondenti a cinquantasei chilogrammi. Un peso non indifferente che riesce difficile sollevare da terra e caricarselo, se si tiene conto che, a cose normali, un'operazione del genere richiede non solo l'uso di due braccia, ma spesso anche l'aiuto di un secondo uomo.
Infine, per citare un altro modo dei giovani di passare il tempo: alzare una sedia impugnandola ad una sola “gamba" con una mano che doveva rasentare il pavimento;
altro esercizio era quello di alzarla orizzontalmente, prendendola dalla spalliera, sempre con una sola mano.
Ma poi c'erano anche le gare da corsa coi cavalli cavalcati a dorso... E inutile dire la soddisfazione e l'orgoglio dei vincitori, e l'ammirazione che suscitavano fra gli astanti, divenendo poi oggetto di gran parlare fra gli amici e i paesani che ne apprezzavano l'abilità e le qualità fisiche.
Certo i giovanotti di quel tempo stavano anche dietro alle ragazze: era una gara anche quella, un po' più difficile d'oggi, magari. C'erano anche in quel caso concorrenti, rivali, gelosie e altresì invidie, e quanta altra arte adatta alla conquista di ciò che più si desiderava. Un gioco di società anche quello, che richiedeva però la massima cautela e riservatezza. Altri svaghi o maniere di impiegare quello che oggi si chiama “tempo libero", non c'era. Non c'era, per esempio, il cinema - il teatro non si sapeva cosa fosse! -. Ricordo che. dopo qualche mese che era stata installata la luce elettrica nel paese - un avvenimento di cui parlerò appresso - ci fu un tentativo di mettere su una sala cinematografica, situata in un locale sulla strada del “parco". Davano film muti, sorretti da musica gracchiante: le comiche di Ridolini e qualche film sdolcinato d'amore che provocavano urli, fischi e irrisione. Ma era più quel che non si vedeva che il divertimento, perché spesso la pellicola si rompeva e la serata finiva presto. Ma anche questo “divertimento" durò poco: la sala fu chiusa.
Poi il sarto Privitèra, che era anche componente della banda musicale paesana, mise su una scuola di musica: insegnava ai ragazzi a suonare vari strumenti. Un paio di volte a solfeggiare ci andai pure io chè volevo imparare a suonare il clarinetto. Ai ragazzi e specie alle ragazze piaceva cantare le canzoni allora in voga: “Parlami d'’amore Mariù", “Tango argentino" e, naturalmente, le vecchie canzoni napoletane. Quei motivi veleggiavano nell' aria e facevano sognare. La radio la possedevano in pochi, quante le dita di una mano.
Così passavano i giorni, i mesi e gli anni della giovinezza, attraverso il lungo tunnel della noia e delle inutili illusioni, per diventare uomini, sposarsi e diventare capi di famiglia; meglio se accompagnati da un buon pezzo di terreno da cui trarre il pane per i propri figli. La giovinezza, insomma, non faceva parte del tempo da segnare nel libro mastro della vita: era fatta di brevi e vaghe annotazioni, vergate su poche pagine che ingiallivano presto. Si diventava uomini prima di accorgersi di essere giovani.
E le bimbe, le ragazze?.. Ah, quelle imparavano a diventare donne, e per questo erano più castigate e dovevano più obbedienza dei maschietti: giocavano intanto a fare le mamme! "
tratto da Giorni vissuti come se fossero anni di Liborio Guccione