Alcuni
ripetono, con convinzione, che rievocare il passato sia una
manifestazione nostalgica per un vissuto che non può ritornare; si, non
può, anzi non deve. Però, rievocando, non si auspica il ripetersi di
ciò che è stato, ma di prendere coscienza di un segmento temporale che
ha inciso sulla psiche degli uomini che c’erano e sull’ordinamento
della società; infatti, il loro modo di vivere e di operare fu
condizionato ed orientato da quella esperienza, contribuendo a
confezionare una nuova e diversa mentalità
individuale e collettiva.
Noi,
quindi, siamo soggetti derivati e conseguenti, e le nostre
modificazioni, a sua volta, determinano la formazione della futura
coscienza e la base per il successivo sviluppo. Pertanto, conoscere
il vivere di ieri è imprescindibile in quanto ci induce a dirigere
le nostre azioni e ad agire in seno alla “cosa pubblica” in senso
migliorativo.
Da
tale riflessione discende la ineludibile conclusione che volere
costruire il domani ignorando quanto accaduto, equivale a costruire
un edificio senza avere prima gettato le fondamenta.
Per
rafforzare il concetto, che sembra essere opinione diffusa fra gli
uomini di buonsenso, desidero illustrare una similitudine che
appartiene alla contemporaneità.
Ci
siamo dimenticati o non vogliamo accettare che il lavoratore della
terra ha assicurato la sopravvivenza all’Umanità e che l'artigiano
con la sua creatività ha inventato arnesi su cui è stata
strutturata la tecnologia.
Questa
mancanza di memoria ha causato l'abbandono delle campagne, con
relativo dissesto geologico, e disastrose tensioni sociali, sino ad
ora non arginate, tanto da compromettere il rifornimento degli
alimenti di sostentamento e da causare il depauperamento degli
addetti e l'estinzione di attività artistiche. Per contro, si è
incrementata una pletora di aspiranti ad un lavoro semplice, leggero
o assente, e ad una remunerazione a volte inversamente proporzionale
ai risultati conseguiti.
Se,
invece, si fosse meditato e modificato, in armonia con l'evoluzione
dei tempi, la concezione e la struttura del sistema, si sarebbe data
dignità a ta1i tipologie dì lavoro e garantita l' operosità dei
lavoratori; inoltre, si sarebbe intuito di riconoscere, questi,
meritevoli di attenzione e di considerazione, nel senso dì
rapportarsi con loro come con le altre “categorie di lavoratori”,
reputate rispettabili.
Del
duro lavoro manuale era necessario valorizzare la laboriosità, l'
ingegnosità e le capacità fisiche e intellettive degli operatori.
Rinnegare
è un atteggiamento esecrabile verso i nostri antenati i qua1i
esercitando tali umili mestieri ci hanno preparato l'agiatezza del
presente. Una miopia va1utativa, la nostra, che crea contrasti,
lutti, rabbia, dolore, pazzia, la cui mancata soluzione potrà essere
fatale per tutti.
E
la 'ncantina, che per centoott'anni è stata parte integrante della
vita lercarese ed ha coabitato con il complicato mondo delle miniere
di zolfo, ha assunto una connotazione
antropologica che è doveroso
consegnare alle generazioni a venire.
Una
nuova attività commerciale “A 'ncantina“
Nei
centri della Sicilia in cui furono scoperti giacimenti di zolfo
sorsero dei locali aperti al pubblico, aventi una propria tipicità,
frequentati principalmente dai lavoratori delle miniere. Si trattava
delle cosiddette “'ncantine”, assimilabili all'osteria, e alle
“Putii di vinu”.
Il
temine 'ncantina è mutuato da “cantina”, vano di conservazione
delle botte di vino; nella fattispecie, è associato al commercio e,
per estensione, alla consumazione di alimenti che, a motivo
dell'aggiunta di taluni ingredienti, sollecitavano la richiesta di
vino.
Non
esponevano alcuna insegna scritta, essendo riconoscibili da due
simboli: un tamo di alloro ed una lampada, posizionati sopra la porta
d'ingresso. La lampada - in passato lantema ad olio - rappresentava
un elemento di attrazione, dell'alloro non è stata tramandata la
didascalia. Il suo significato simbolico è “gloria, vittoria”,
che non sembra avere riscontro né con il vino, né con le pietanze,
mentre trovo appropriato il riferimento al suo uso nei riti
propiziatori e divinatori, quale “apportatore di bei sogni”.
Non
vi è dubbio che per averlo preferito vi fu una specifica
motivazione; non è improbabile che si volesse dare il messaggio che
l'infuso di alloro avrebbe facilitato la digestione dei cibi
abbondantemente aromatizzati.
Venivano
offerte saporite pietanze, a base di interiora, condite con pepe:
quarume “trippa” (stomaco di bovini), brodo di carcagnola (polpa
delle gambe di animali), sangunazzu (sangue), zirenu (intestino
grasso), stigghiola (budella di capretto, agnello e castrato,
attorcigliate all'omento, parte peritoneale, e alla cipolla);
inoltre, ceci, fave, fagioli, uova sode, olive, lumachine, polpette,
broccoletti.
Le
interiora si acquistavano al mattatoio, situato in periferia, nei
giorni della settimana in cui si praticava la macellazione dei
bovini.
Aggiungo
una nota di costume. Sino all’inizio degli anni quaranta del secolo
scorso, la credenza popolare attribuiva effetti curativi al sangue
bovino. Per questo motivo, persone affette da anemia lo bevevano
nell’istante in cui sgorgava dall’animale.
Le
‘ncantine si sviluppavano a pianoterra, in un ampio vano o in più
vani piccoli, con cucina o “angolo cottura”.
Nella
stanza di accesso erano collocate delle botti, il bancone per la
vendita e tavoli con relative panche, che occupavano coloro che
chiedevano soltanto da bere; in questo caso, al vino si
accompagnavano noci e mandorle. Quelli che compravano il prodotto
cotto da mangiare a casa, per il trasporto utilizzavano appositi
contenitori di alluminio: porta-mangiare o porta-pranzu.
Gli
altri ambienti contenevano lunghi tavoli dove gli avventori
banchettavano. Il vino e il passito si somministravano a tutte le
ore, le vivande dal pomeriggio e sino alle ventitré.
Erano
frequentate dagli zolfatai, e non da tutti, e in numero esiguo da
altri lavoratori, essendo ritenuto un luogo scadente e gli avventori
considerati di temperamento instabile e facilmente irascibili.
Un
giudizio errato, constatato che la maggior parte di loro dimostrava
sensibilità e carattere tranquillo; le penose condizioni di lavoro
li esacerbavano, facendoli inveire contro il Cielo e contro gli
uomini.
Il
minatore, dopo avere trascorso molte ore nelle buie gallerie del
sottosuolo e respirato aria esautorata di umidità e di pulviscolo,
dopo avere disidratato il corpo con l’emissione di sudore (in
passato si nutriva anche di carrube), a motivo del faticoso lavoro e
della elevata temperatura che raggiungeva i 40 gradi, sentiva
l'esigenza di rifocillarsi e, soprattutto, di non pensare.
Si
intratteneva, quindi, nella ’ncantina per dimenticare la propria
esistenza, frustrata sino nel profondo dei sentimenti. Consumava
alimenti poveri, come ceci, fagioli e fave che, però, garantivano un
certo apporto di proteine in sostituzione di quelle della carne, e
una varietà di cibi dal sapore piccante che, inevitabilmente,
richiamavano vino.
Il
rosso vino delle ubertose contrade lercaresi, coltivate a vigneti sin
dal sorgere del paese, che dispensava euforia,vigore fisico ed una
sensazione di potenza.
Dava
sfogo alla sua tristezza cantando e ripetendo versi attinenti la vita
lavorativa. Una illusoria ed effimera parentesi di oblio e di
grandezza.
Arrivannu
dda sutta lu fussuni/ mi mettu a carriari/
e
si nun fazzu dudici vauna lu capumatru nun mi f'acchianari.
(Giunto
là sotto nel fossato (galleria) / inizio a lavorare
e
se non riempio dodici vagoni / il capomastro non mi fa risalire).
A
volte esprimeva risentimento verso il compagno di lavoro
Mi
partu la matina di bon' ura
cchiù
di mezz’ura pi scinniri la scala,
pigghiu
lu vauni e cuminciu a caminari . . .
Ma,
a lu nummaru cincu scarrozzu
e
nun pozzu passari, picchì...
(pronunciava
il nome del compagno)
nun
lu voli aggiustari.
(Parto
la mattina di buon’ora,
impiegando
più di mezz’ora per scendere la scala,
ma,
giunto al numero cinque, slitto (il vagone slitta)
e
non posso transitare perché (il mio compagno...)
non
eff ettua la riparazione).
Per
comprendere il suo stato d’animo è bastevole conoscere lo
svolgimento di un incontro con un minatore. Nel 1989 raccoglievo
testimonianze da includere in un mio libro su Lercara, attraverso la
memoria popolare, e, a tale scopo mi recai alla locale sezione dei
“Combattenti e Reduci” per intervistare un vecchio zolfataio.
Alla
mia domanda si irrigidì e si pose in posizione di difesa; mi guardò
negli occhi e muovendo il braccio destro dall'alto in basso, con il
pollice che toccava con forza l’indice, puntualizzò: “Non posso
dirle nulla della vita nelle miniere di zolfo perché io non voglio
ricordare... e se ricordo, impazzisco ”. Seguì un lungo silenzio
molto eloquente, interrotto solamente dal mio “Mi scusi... la
saluto”.
Provai
tenerezza e condivisione per quest'uomo il quale aveva dato un taglio
netto al passato, tanto triste da non potersi nemmeno pensare.
A
volte, i componenti della comitiva, che si intrattenevano nella
‘ncantìna, si deridevano reciprocamente
e ordivano scherzi ai danni del compagno. Uno degli scherzi prevedeva
che tutti gli avventori seduti uno accanto all’ altro, tranne colui
della parte estrema, si alzassero improvvisa-mente, cosicché
questultimo, ignaro dell’intenzione dei compagni, precipitava
pesantemente a terra, proiettando il vino in ogni parte qualora
avesse avuto il bicchiere in mano.
Di
solito, gli effetti della furbata sfumavano fra risate, pacche sulla
spalla e frasi concilianti, ma potevano seguire scomposte discussioni
e zuffe che assumevano una certa gravità se il malcapitato accusava
danni fisici.
Poiché
i fumi dell’alcool provocavano forti ubriacature, che sfociavano in
imprecazioni e in atti inconsulti, il gestore, assillato dalle
continue pretese e a nulla essendo valsi i suoi rifiuti, per ridurre
le implicazioni “allungava” il vino con acqua, sperando che il
raggiro non venisse percepito.
Se
il cliente non aveva denaro, il gestore esigeva che la domenica
successiva,
giorno di paga, saldasse il debito.
Frattanto,
lo zolfataio sprecava denaro e le pulsioni di Bacco potevano dare
luogo a gesti di intolleranza in famiglia. Sostanzialmente, un
misterioso meccanismo psicologico si impadroniva della sua volontà;
forse il subcosciente lo stimolava ad affermare la sua autorità e
dimostrare a sé stesso e agli altri di essere qualcuno.
Questo
fenomeno, fortunatamente molto contenuto, determinava nelle altre
categorie di lavoratori la perdita di stima ed una palese avversione e,
benché logisticamente i minatori vivessero in maggioranza nei
quartieri di confine o vicino alle zolfare, persisteva un senso di
idiosincrasia da parte della restante popolazione,
la quale ne evitava il contatto.
Questa
repulsione, accentuata negli agricoltori, trovava pratica ed
eclatante conferma quando uno zolfataio aspirava a fidanzarsi con la
figlia di un agricoltore.
Vi
sono ricordi popolari ancora molto vivi.
Uno
dei segni per manifestare il “no” categorico al pretendente
consisteva nella “chiusura in faccia” dello sportello della
finestra, la cosiddetta “purtiddata”.
Analogo trattamento
riservava lo zolfataio-gerente alla figlia dell’agricoltore.
Nondimeno, non era raro il caso che il contadino, il cui raccolto era
andato in malora, vedendo preclusa la possibilità di risollevarsi,
vendesse quanto posseduto e preferisse il salario della miniera.
Si
racconta che un giovane, volendo sposare la figlia di un facoltoso
esercente di zolfare, ricevette il rifiuto da parte del padre, il
quale desiderava che sposasse uno zolfataio.
Ebbene,
il giovane spasimante non ci pensò due volte e pur di coronare il
sogno d’amore, abbandonò la campagna e si pose alle dipendenze del
futuro suocero.
Alla
‘ncantina si recavano operai comuni per un frugale pranzo dal costo
abbastanza modesto. In un certo periodo fu luogo di ritrovo dei
sensali, cioè, dei mediatori per la vendita di mobili e immobili.
Assidui
clienti erano i carritteri di passaggio, i quali alloggiavano nei
fondaci, e alcuni residenti a Lercara, dove se ne contavano
moltissimi, impegnati nel trasporto del minerale, poiché la scoperta
dello zolfo, “come un nuovo Eldorado” aveva allettato questi
lavoratori di ogni parte della Sicilia.
Sino
al 1912 lo trasportavano al porto marittimo di Termini Imerese; dopo
quella data, essendo stata estesa la linea ferrata, alla stazione di
Lercara Bassa. Una lunga fila di carretti che attraversava il paese
seguendo il medesimo itinerario.
Mangiando
e bevendo raccontavano le loro esperienze e, soprattutto, non
cessavano di vantare la bravura e la forza del proprio cavallo, e
stornellavano:
A
l'acchianata di Musulumeli
si
rumpi ‘u suttapanza e pitturale.
(Alla
salita di Misilmeri
si
rompe il sottopancia e il pettorale).
E
nun lu fazzu cchiù lu carritteri
cà
lu cavaddu non voli acchianari
(E
non svolgo più il mestiere di carrettiere
perché
il cavallo non vuole andare avanti).
Caccia
cavaddu, caccia e camina
cà
a Palermu accattu la capizza.
(Cammina
cavallo, vai avanti e cammina
perché
a Palermo ti compro la cavezza).
N
un cantu ne’ p’amuri, ne’ p’amante
ma
cantu sulu pi sfuarimi la menti.
(Non
canto per amore, né per amante
ma
canto per alleggerirmi la testa).
Aiu
‘n carrettu ca pari ‘na navi
aiu
‘n cavaddu ca pari un papuri.
(Ho
un carretto che sembra una nave
ho
un cavallo che pare un bastimento).
Accorda
‘sta canzuna paisanu.
Vidi
chi vita fa lu carritteri
ca
cerca di rinnuvari lu misteri,
cu
cavaddu e carrettu / pi mettisi a travagliari.
Lu
cavaddu nun voli tirari
e
lu pezzu nun lu fa girari,
pi
lu surfaru macinari.
Quannu
iddu non voli tirari/ cu la carina l’è frustari
cà
lu pani amma scuttari/ siddu voli campari.
(Accompagna
questa canzone, paesano. (modo di dire)
Vedi
che vita conduce il carrettiere
il
quale vuole rinnovare il mestiere,
con
cavallo e carretto / per potere lavorare.
Il
cavallo non vuole camminare
e
non fa girare la mola
per
raffinare lo zolfo.
Se
lui non vuole andare avanti
sono
costretto a frustarlo con la catena
perché
dobbiamo guadagnare
se
lui vuole vivere).
Mi
nni scinnu a la marina pi vidiri passari genti assà
e
vidiri passsari lu re mpirsuna
ca
di la figghia sò minnamuravu,
la
manu ci vasavu ca nda lu mari la truvavu.
(Scende
alla marina
per
vedere transitare molta gente
e
passare il Re in persona
perché
sono innamorato di sua figlia,
le
ho baciato la mano / avendola trovata nel mare).
Nel
momento in cui il pensiero volava alla loro “Bella”, ”attaccavano”
: Quannu
passa di cca, passu cantannu
vaiu
cantannu canzuni d’amuri.
(Quando
transito di qua, passo cantando
vado cantando canzoni
d'amore).
Rita
bedda cadì malata p’amuri
chiama
prestu lu dutturi pi vinilla a visitari.
.
.. ma pi l'amuri nun c’è midicinali.
(La
bella Rita si è ammalata per amore
chiama
presto il dottore per venirla a visitare
....ma
per l’amore non vi è una valida medicina).
In
quel tempo le distanze richiedevano molto ore di cammino; basti
pensare che da Lercara a Palermo ne occorrevano quindici e suoi
compagni di viaggio erano il cavallo, la
strada, la fantasia e il canto.
In
seguito allo sbarco delle Forze Armate degli Stati Uniti d’America,
a Lercara stazionarono soldati e ufficiali, alcuni dei quali
dichiararono di essere figli di emigrati italiani e provavano a
parlare la nostra lingua. Oltre a ciò, lercaresi che avevano
soggiornato in America invitavano i soldati ad entrare nelle case,
offrendo una accoglienza calorosa che culminava con battimani,
abbracci e baci, e con la tavola imbandita di uova, olive, formaggio,
pane e l’immancabile vino.
Nella
circostanza scoprivano che alcuni nelle loro città avevano rapporti
di amicizia con figli di lercaresi emigrati tra la fine
dell’Ottocento e l’inizio del Novecento, che casualmente
risultavano parenti con famiglie residenti a Lercara.
Tuttavia,
alcuni militari, ai quali il vino ricevuto non era soddisfacente, lo
integravano con quello della ‘ncantina.
Mangiavano
lautamente e ne tracannavano parecchio, parlavano ad alta voce e
cantavano a squarciagola; cantavano...e non si decidevano ad
andarsene.
La
loro presenza incuteva timore per il portamento autoritario, la
corpulenza e i gesti imprevedibili. Una situazione difficile da
governare e, in casi estremi, il titolare con discrezione li spingeva
garbatamente fuori dal locale. Non si reggevano in piedi e avanzavano
per la via oscillando sino a quando, stremati, si sdraiavano per
terra, respirando affannosamente.
E
se vedevano una donna, le si avventavano addosso in modo sconnesso e
pericoloso, perciò, i ragazzini che giocavano per strada segnalavano
anticipatamente il loro arrivo.
Un
modo particolare di bere allegramente con gli amici si basava su un
“gioco”, denominato “’u toccu”,
(tocco, toccamento).
Quattro
o più persone decidevano di giocarsi un quarto di vino a testa per
ciascun giro, e, preliminarmente, procedevano all’assegnazione
della bottiglia, affidandola alla sorte.
Di
comune accordo la fase iniziale veniva demandata al più anziano o al
più giovane.
I
partecipanti si disponevano a cerchio, alzavano di propria volontà
uno o più dita e il conduttore, iniziando da sé, faceva cadere la
sorte su chi terminava la conta (con un tocco), secondo il totale
delle dita alzate.
Il
designato ne beveva un bicchiere prelevandolo dalla bottiglia e
nominava un padrone, e un Sotto-padrone, i quali proseguivano la
conduzione del gioco. Il Padrone teneva la bottiglia e gli altri i
bicchieri vuoti, uno dei quali veniva invitato a bere.
Accadeva
che il Padrone, invitato dal Sotto a indicare la persona, lasciava
tutti all’asciutto, dicendo al Sotto: “La
mè è vostra”,
cioè a dire, “o bevi tu (tutta
la bottiglia), oppure la bevo io”.
In questa evenienza, uno dei due beveva tutto il contenuto, tenendo
il bicchiere in bocca e versando il vino in continuazione.
Se
il Sotto non si opponeva alla designazione, il prescelto beveva il
vino che si versava lui stesso, oppure lo rifiutava, rimettendolo in
gioco. Il Sotto, opponendosi, indicava altri partecipanti a bere.
Colui che veniva chiamato dal Padrone e dal Sotto, doveva bere in
unica soluzione il contenuto della bottiglia. Se non riusciva a
tracannarlo, pagava il costo e subiva la derisione di tutti per la
sua incapacità.
Era
frequente che il Padrone, invitata una prima e una seconda volta la
medesima persona, ricevesse il dissenso del Sotto il quale preferiva
un altro individuo. Quando ciò accadeva per la terza volta, il Sotto
poteva lasciare a bocca asciutta - urmu
- il designato e tutti gli altri - lassari
urmi -
purché bevesse la parte restante della bottiglia con le modalità su
riportate. Questo modo di procedere del Sotto si chiamava “rottura
”, cioè,
“interruzione del gioco”.
A
volte, alcuni della comitiva, presi accordi preventivamente,
riuscivano a bere soltanto loro, oppure, a fare ubriacare uno degli
esclusi.
Quando
si effettuava più di un giro di “tocco”, i componenti accusavano
vistosamente gli effetti dell’alcool con conseguenze deleterie,
prossime alla rissa. Onde evitare che nessuno pagasse il conto,
“l'incantineri”
pretendeva che venisse corrisposto da tutti i partecipanti e in parti
uguali, prima d’iniziare il gioco.
Alcuni
modi di preparare le pietanze.
Brodo
di carcagnola -
Gamba di animale bollita con pepe, sale e limone.
Ceci
- In
ammollo per 6-7 ore in acqua tiepida (calore del latte); si
aggiungono un cucchiaio di bicarbonato e uno di sale; a fine cottura
olio e pepe.
Fave
- A bagno
per 12-14 ore. Si cuociono con giri (bietole), aglio e 2 bucce di
limone.
Fagioli
- Si tengono in acqua per 6-7 ore, poi, si miscelano con giri,
carote, sedano e un cucchiaino di bicarbonato. Cuocere nella medesima
acqua. Condire con olio.
Uova
sode, con
patate, sale, pepe e olio. Sostituivano la trippa.
Olive,
con sarde salate in olio, aceto e origano.
Lumachine
- Dopo
Pammollo vengono lavate e cotte a fuoco lento sino alla bollitura,
condite con olio, aglio, pepe, sale e prezzemolo.
Lumache
- Cottura a fuoco lento sino alla bollitura. A parte si prepara la
salsa (concentrato di pomodoro in latta, più salsa fatta in casa),
con olio, aglio, pepe, sale. Le
lumache si immergono in questa salsa e si cuociono per un’ora.
Polpette
- Un chilo
e mezzo di tritato di vitello di secondo taglio, grammi 300 di
mollica, 250 gr. di formaggio pecorino, una testa di aglio, una
cipolla spezzettata, sale, pepe, menta, uova (14 o 16). Realizzare
delle palline con il composto e friggerle. Per ultimo,
affondare le polpette nella salsa preparata come per le lumachine.
Sangunazzu
- Sangue di
vitello, mezzo litro di acqua, spezie, aglio, sale, pepe. Si cuoce a
fuoco lento. Infine, la poltiglia viene insaccata in budelli.
Stigghiole
- Arrostite o fritte.
Trippa- Con spezie e
sale.
Aneddoti
La
memoria popolare tramanda molti aneddoti; ne ho raccolti alcuni che
riporto di seguito:
Un
venticinquenne, uscito dalla ‘ncantina di via Giuseppe Verdi,
barcollando raggiunse i gradini di accesso della casa accanto. Tirato
un profondo respiro, iniziò a parlare fissando lo sguardo a terra;
gesticolava con la mano destra, il cui indice formava variegati
disegni in una continuità di movimenti.
Il
giovane, con voce sommessa e convincente, direi affabile, colloquiava
con qualcuno in modo sconclusionato e incomprensibile. Ad un certo
punto aumentò il ritmo e il tono e con espressione indignata alzò
di scatto le braccia al cielo... e, abbassandole, si strinse la testa
fra le mani, vistosamente reclinata... e tacque.
*
* * * * * * * * * * * * * *
Un
uomo, G. P., percorreva in salita il corso Giulio Sartorio al centro
alla strada, stringendo un’anguria con il braccio sinistro; piegava
le gambe e si muoveva a dritta e a manca, avanti e indietro, per
mantenere l’equilibro. Nel contempo, parlava con l’ anguria e il
colloquio, dapprima pacato, divenne incalzante tanto da fargli
puntare ripetutamente l’indice della mano destra.
Appariva
evidente la sua collera per la mancata risposta alle sue
argomentazioni. Non sopportando più l'affronto, alzò la voce e con
espressione di rabbia scaraventò energicamente l'anguria a terra,
frantumandola. Poi, volendola punire ulteriormente, con movimenti
scomposti e imprecando, schiacciò con i piedi i vari pezzi,
rendendoli tanto liquidi da provocargli la caduta a gambe per aria,
facendogli percorrere qualche metro. Fermatosi, rimase a testa bassa
e a braccia penzoloni.
*
* * * * * * * * * * * * * *
Due
compari, dopo avere mangiato e bevuto, si alzarono per rientrare a
casa. Uno di loro barcollò e l’altro gli disse: “Ti sostengo io,
tu sei ubriaco”. Fecero qualche passo, e, oscillando, furono sul
punto di stramazzare a terra se non si i fossero aggrappati ad un
tavolo e a una sedia.
Allora,
il primo, biascicando rispose “Tu vuoi aiutare me? non lo capisci
che non sei capace di stare in piedi! Vieni , appoggiati a me”.
Partirono
all’unisono, e costretti a sostenersi reciprocamente, si
abbracciarono cozzando le teste. “Hai visto cosa hai fatto, compà?
(compare) . . . sei veramente ubriaco”.
Dichiarando
entrambi di volersi sorreggere e appoggiandosi uno all’altro,
lentamente e dondolando come canne al vento guadagnarono la strada
che li condusse all’abitazione
di
uno dei due. Si sedettero sulla panca in pietra situata accanto alla
porta d’ingresso, “ghittena ” e si addormentarono.
*
* * * * * * * * * * * * * *
Nel
tardo pomeriggio uno zolfataio leggermente ubriaco, camminava andando
avanti e indietro. Nel modo di guardarsi attorno sembrava che non
volesse fare intendere ai passanti di non essere sobrio e si
adoperava di mostrarlo muovendosi soltanto in assenza di persone e
aggrappandosi velocemente a qualsiasi sostegno: lo stipite di un
ingresso, la ringhiera che costeggia il lato superiore del corso
principale, un'autovettura.
Muovendosi,
volteggiava, disegnava delle linee a zig zag, si abbassava
pericolosamente. Trovato un punto di appoggio, meditava sul
successivo tratto da percorrere, e attraverso questo stratagemma
raggiungeva casa.
*
* * * * * * * * * * * * * *
Siamo
in periodo pre-bellico, in via Sant’Alfonso, nel mese di agosto,
all’imbrunire. Tre uomini un po’ brilli camminavano muovendosi
sinuosamente e nel contempo si schernivano. Dalle parole lecite
degenerarono sino alle ingiurie; infine, uno di loro estrasse un
coltello dalla tasca.
A
causa del caldo le persone si intrattenevano all’aperto; tra
questi, un finanziere appoggiato alla ringhiera del balcone con la
sigaretta in mano, il quale, si rese immediatamente conto che
qualcosa di grosso stesse per accadere.
Agevolato
dalla posizione del balcone, ad appena due metri di altezza, scavalcò
l'inferriata, ponendosi davanti ai tre e con mossa fulminea, grazie
alla sua giovane età e agli addestramenti militari, disarmò l’uomo.
La prontezza del militare evito uno spargimento di sangue; di contro,
subì un lieve taglio al naso.
*
* * * * * * * * * * * * * *
Primi
anni Quaranta.
A
tarda sera un ubriaco, “fradicio”, percorreva via Vespri - intesa
“Malampo” - cercando di guadagnare qualche metro per rientrare a
casa. Si appoggiava al muro delle case per una breve sosta e
ripartiva velocemente sperando di riappoggiarsi.
Una
di queste brevi e veloci uscite gli procurò seri danni fisici.
Sfortuna volle che in quella via vi fossero in corso lavori edili e
rasente al muro si trovasse un bidone in cui i muratori avevano
sciolto la quacina (calce).
Poiché
in quel segmento di strada non esisteva alcuna illuminazione, andando
veloce e a piccoli passi, urtò violentemente il bidone all’altezza
della pancia e, per effetto della forza
centrifuga, la parte superiore del corpo si piegò entrando nel
contenitore.
La
calce brucia, perciò, si ustionò seriamente. Le sue urla fecero
accorrere i vicini che in gran fretta lo condussero allo
“Spedaletto”, un presidio sorto per assistere gli infortunati sul
lavoro.
*
* * * * * * * * * * * * * *
Nei
decenni scorsi nevicava tanto da formare uno spessore di cinquanta
centimetri e oltre di neve. In un pomeriggio di febbraio uno
zolfataio si soffermò nella ‘ncantina per alcune ore e quando
decise di rientrare a casa, vuoi per il crepuscolo incipiente, vuoi
per le dense nuvole che oscuravano il cielo, le strade si
presentavano pressoché deserte.
Dopo
circa cinquanta metri giunse in piazza Duomo e tentò di percorrerla
diagonalmente. Giunto nel secondo riquadro, che è leggermente in
salita, il suo incerto equilibrio si accentuò spostandolo per alcuni
metri e stramazzandolo a terra in posizione supina. Scornparve in
mezzo alla neve.
Dopo
un’ora circa transitò un individuo il quale spinto dal forte vento
si allontanò dalla diagonale e inciampò in qualcosa. A tentoni
cercò di capire e scoprì trattarsi di una persona
ubriaca. Bussò
ad una porta, chiese soccorso e riuscì a sollevare il malcapitato
che constatò essere suo vicino di casa. Lo presero sottobraccio e
pian piano lo condussero a casa. Quel provvidenziale incontro gli
salvò la vita; infatti, se fosse rimasto tutta la notte
all’addiaccio probabilmente sarebbe morto assiderato.
1969:
chiusura delle miniere
Anche
questi locali chiusero i battenti. Ne rimase un modico numero che
assunsero una diversa visibilità, nel senso che chiunque vi accedeva
e comitive vi trascorrevano la serata per gustare, festosamente,
prodotti genuini; poi, ne rimasero soltanto due: una gestita da
Carmela Pellitteri in via Sant’Anna n. 56, l’altra da Francesco
Lo Bue in via Alfonso Giordano, n. 50.
Nel
1999 la prima venne trasformata in trattoria, assumendo la
denominazione di “La Tavernetta”, mentre, la seconda rimase
attiva sino al 2010.
Relativamente
alla prima, la signora Carmela Pellitteri riferisce:
“Nel
1963 io e mio marito Vincenzo rilevammo la licenza intestata a
Domenica Vicari, sposata Pietro Sferlazza, dando continuità all
’esercizio ubicato in via Regina Margherita. Nel 1966 trasferimmo
l'attività nella via Sant'Anna, n. 56, nei locali già utilizzati a
‘ncantina da Gioacchino Romano.
La
definitiva chiusura delle miniere ridusse la frequentazione degli
zolfatai, sostituiti da altre categorie di lavoratori, alle quali si
aggiunsero i carrettieri che si riversavano a Lercara in occasione
delle sfilate di carretti per le feste.
Provenivano
da Termini lmerese, Casteltermini, Palazzo Adriano, Cammarata, San
Giovanni Gemini, e trascorrevano la serata a mangiare, a bere e a
intonare stornellate.
Ricordo
un anziano carrettiere che di tanto in tanto si presentava a bordo di
un taxi, e si intratteneva per qualche ora. Non
conosco il paese di origine, ma è indimenticabile la sua espressione
di gioia e di appagamento. Benché
la Tavernetta svolga la funzione di “ristorante”, in determinati
giorni della settimana continua a fornire le specialità della
‘ncantina
In
un certo senso antico luogo di ristoro sopravvive, tuttavia, non
ricrea l'insostituibile atmosfera della “vecchia” ‘ncantina".
Desidero
storicizzare due avvenimenti che si sono svolti in questo locale.
Con
l’arrivo dei mezzi di trasporto a motore, i carrettieri si
trasformarono in autotrasportatori, ma in loro rimase lo “spirito”
del mestiere svolto per decenni. E proprio la nostalgia, nel novembre
1987, stimolò Giovanni Di Liberto di Francesco a radunare un gruppo
di carrettieri del territorio.
Un
incontro caloroso e commovente, condito con ricordi, esperienze e
imprese conseguite, nutrito con vari piatti e ammorbidito con il
vino. E tra un bicchiere e l’altro, intonarono le più belle
stornellate, arricchite dalle peculiari variazioni di ciascun paese,
che segnarono l’apoteosi dei Canti di questa categoria.
Caratteristica
la posizione che assumeva il cantore di turno: la mano destra sulla
guancia vicino alla bocca e la testa reclinata. In questo modo
rievocarono il lavoro, il cavallo, la propria esistenza, la donna del
cuore.
Gli
stornelli, ormai standardizzati, negli incontri venivano
improvvisati. I partecipanti intervenivano in sequenza e a turno
rispondevano al compagno che li precedeva continuando a trattare il
tema impostato dal primo cantore.
Di
questo “storico” raduno rimane una fotografia e una
musicassetta, che può ritenersi un reperto antropologico in quanto
esprime i sentimenti più segreti dell’uomo, dell’uomo che ama il
lavoro, che lotta per vivere, che è felice con poco, che subisce i
patimenti della natura umana.
Si
tratta di cantilene che riportano ad un mondo ancestrale, un
frammisto di preghiera e di lamento; l’invocazione di chi vive in
solitudine in un microscopico pianeta, avvolto da uno spazio
siderale, che sgorga potente dalla viscere e pur se espressa con un
fil di voce si innalza sino a congiungersi al Creatore.
L'altro,
molto significativo, si verificò il 10 agosto 2004,giorno nel
quale l’Amministrazione comunale organizzò un convegno per
ricordare la radiosa figura dello scienziato Alfonso Giordano, il
“padre” degli zolfatai, il quale scoprì in loro e curò una
letale malattia, istituì degli organismi di assistenza, determinò
la formulazione della legge per la tuteladei ragazzi (carusi)
e delle donne.
Al
termine del convegno, un ristretto numero di amministratori, oratori,
il nipote Alfonso Giordano, magistrato, vari pronipoti, convenuti da
ogni parte d’ltalia, e il direttore del Giornale di Sicilia di
Palermo, dottor Antonio Ardizzone con la Consorte, vi cenammo seduti
a due lunghi tavoli. In
quella gioiosa atmosfera, carica di cultura e di commozione, aleggiò
certamente “il grande spirito” del Giordano e per poche ore
quell'ex ‘ncantina odorò di zolfo.
Per
la seconda, Francesco (detto Franco) Lo Bue, racconta:
“Sono
nato nel 1940 e, terminata la frequenza scolastica, all’età di 14
anni iniziai a lavorare, come “collaboratore ” nella ‘ncantina
di mia zia Concetta Lo Bue, situata da vent’anni nella via Abramo
Lincoln in un grande vano terrano che dal lato opposto si affacciava
sulla via Arciprete Gaspare Giglio.
Nel
1957 ci trasferimmo in via Alfonso Giordano, numero 39, dove vi si
rimase sino al 1957, anno in cui mia Zia comprò dei vani terrani con
relative stanze al primo piano. Questi locali sono parte del
complesso abitativo appartenuto allo scienziato Alfonso Giordano. Si
tratta di una porzione pari a poco meno della metà. Nel 1969 divenni
titolare dell' esercizio.
La
licenza indicava il locale come “bettola con cucina e gioco lecito
a carte ”, prevedeva la somministrazione di vino sino a 21 gradi e
di alcolici in bottiglia,‘ rimaneva aperta
sino
alle ore ventiquattro.
Durante
il funzionamento delle miniere il commercio era molto vivace. Basti
pensare che a volte si preparavano 100 uova a sera. Fave e trippa
erano pronte alle ore 14.
Mi
è capitato di accompagnare a casa gli ultimi avventori, i quali,
essendo molto sbronzi, non si decidevano ad alzarsi dalla tavola.
Nel
periodo estivo ritornavano gli emigrati i quali rivivevano il passato
e manifestavano il proprio apprezzamento.
Alla
definitiva cessazione dell ‘attività mineraria, la clientela si
ridusse in maniera rilevante. Fortunatamente, iniziarono ad
avvicinarsi altre persone e comitive. Di tanto in
tanto
ricevevo telefonate dai paesi viciniori, preannunciandomi la venuta
di gruppi di persone; ciò accadeva a fine settimana. Tra questi,
professionisti di Palazzo Adriano.
La
preparazione delle pietanze venne limitata ad alcuni giorni della
settimana e per compensare la diminuzione dell'attività, iniziai la
preparazione di polli allo spiedo, che avveniva ciclicamente il
sabato e la domenica.
Da
appassionato lettore tenevo a disposizione il Giornale di Sicilia e
nell ’ultimo periodo i clienti fissi lo consultavano tutte le
mattine.
Prossimo
al pensionamento, speravo di passare la mano e a tale fine ritenevo
necessario procedereall ‘ammodernamento dei locali per
adeguarli alle sopraggiunte esigenze;
purtroppo,
non ho trovato disponibilità. E così, il 30 settembre del 2010 ho
chiuso l'esercizio.
Ora,
tutte le mattine, mi intrattengo nei locali per leggere il giornale,
lasciando la porta aperta, che richiama amici e conoscenti ad entrare
e ad intrattenersi in piacevole conversazione.
Certamente
dovrò liberare i locali dalle suppellettili, e non so perché rinvio
l'esecuzione.”
Considerazione
finale
Delle
‘ncantine rimane solamente vivo ricordo negli anziani che hanno
conosciuto questo “mondo”, e tramandano fatti e circostanze
divertenti, legati alla natura dell’ambiente; un ambiente amato
dagli zolfatai, prima, successivamente frequentato da tutti, e, sul
finire, ricercato, benché da parecchio tempo non presentasse più
il suo “biglietto da visita”: la fronda di alloro e la lampada.
La
loro scomparsa ha cancellato un settore della vita lavorativa che per
oltre centoquarant’ anni caratterizzò la storia di Lercara e, come
accade per tutto ciò che finisce, si decanta la prelibatezza del
cibo e la professionalità dei gestori.
Rimane
la memoria popolare, che col trascorrere degli anni vanifica. Ebbene,
accanto a questa memoria potremmo fare sopravvivere l'ultima
‘ncantina, - quella di Francesco Lo Bue - quale tangibile
testimonianza di un’epoca, facendone un Museo, che meglio di
qualsiasi racconto, attraverso il suo silenzio, parlerebbe alle
future generazioni.
Chissà
che dalle ceneri possa sorgere un nuovo soggetto!
Rimangono
eccellenti testimonianze.
Sicuramente
vi si sono fermati viaggiatori in transito e tra questi l'inglese
Jessie White, giornalista e scrittrice, vedova del garibaldino
Mario, che negli anni 1890-91 visitò la Sicilia. Giunse alla
stazione di Lercara Bassa da dove, con la carrozza, “la posta”,
salì al paese.
Scrive
“Si fece colazione all'osteria del luogo, con formaggio
indigeno, assai migliore del cosiddetto svizzero, mele, vino leggiero
e saporito, ma torbido come lo è in generale il vino originario
della Sicilia”
E
Carlo Levi, venuto a Lercara nel 1951, durante uno sciopero degli
zolfatai, annota: “Ci eravamo fermati, per caso, proprio davanti
all ’unica osteria, un ’osteria senza insegna e, a quell’ora,
senza avventori. Non c’era, del resto, nulla da mangiare, se non
del formaggio e delle uova”.
In
verità, la White fa riferimento “all ’osteria del luogo ”
.
Levi
precisa “all ’unica osteria”; quella di Levi si può
identificare, però, a me piace immaginare che siano ‘ncantine.
Il
carrettiere
Mi
sembra doveroso parlare di questa categoria di lavoratori, ormai
scomparsa, dal passato glorioso, che vive soltanto nei ricordi degli
anziani. Il carretto è stato un valido mezzo di trasporto e
possedere un cavallo ed un carretto era segno di autonomia lavorativa
e di buona condizione socio- economica.
Per
esercitare il mestiere occorreva munirsi del libretto di
circolazione rilasciato dal Comune che prevedeva le caratteristiche
del carretto al quale veniva assegnata una targa di identificazione.
Il
suo utilizzo si sviluppò a cominciare dalla metà dell’Ottocento e
subito assunse un carattere folkloristico, essendo invalso l’uso di
dipingere tutte le sue parti, dagli artistici bassorilievi alle
sponde. Suggestive le scene delle fiancate in cui sono raffigurati
episodi dei “Paladini di Francia”, dei Vespri Siciliani, di
Giuseppe Garibaldi, della Cavalleria Rusticana e immagini della
Vergine e di Santi.
Sgargianti
le decorazioni pittoriche predominanti il rosso, il verde e
l’azzurro - e i colori dei finimenti del cavallo: pennacchi,
piume, pettorali, lustrini, sonagli, guarnizioni di borchie,
lustrini, fiocchetti, specchietti, pettorali e sottopancia di lana e
seta.
Una
“casa ambulante” in miniatura, il carretto. Infatti, sotto il
pianale di carico, dove veniva sistemata la merce, pendeva una rete
di corda - detta rituni - che accoglieva il fiasco di acqua,
la colazione, oggetti personali, attrezzi per la manutenzione,
stivali di cuoio, crusca ed altro; ad un apposito gancio si ancorava
la coffa, contenitore di foglie di palma selvatica, per la
conservazione della biada, e ad un altro la lanterna a petrolio,
dondolante a seconda dell’andatura, la cui fiamma illuminava la
strada e segnalava la presenza alle autovetture; furono installati
persino dei catari-frangenti. Un telone copriva la merce, un mantella
cerata preservava il conducente dalle intemperie.
A
seconda della consistenza del fondo stradale, agli zoccoli del
cavallo venivano applicati ferri con chiodi oppure delle scarpe di
gomma alla gamba anteriore e a quella posteriore diametralmente
opposta.
Il
passo era costante nella zone pianeggianti e lento nell' affrontare
la salita; per contenere la discesa si immobilizzavano le ruote con
robuste corde. Fra l’altro, a seconda della pendenza, il carico
veniva spostato in avanti o nella parte posteriore. Problematiche le
pozzanghere del fondo stradale che affossavano le ruote. Un fatica
immane per il cavallo e per il conducente.
La
tipologia del lavoro portava il carrettiere a percorrere le vie della
Sicilia, solitarie e talvolta sinistre, sotto il torrido sole e le
avversità atmosferiche. Essendo costantemente esposto all’azione
dei ladri, quando possibile viaggiava in comitiva e per evitare di
essere derubato del denaro incassato trasferiva la somma a mezzo
Ufficio Postale.
In
vista della notte raggiungeva il più vicino paese per trovare
rifugio nel Fondaco e mettersi in sicurezza con il cavallo e il
carretto; tuttavia, nel fondaco si verificavano furti, per cui non si
toglieva le scarpe e per cuscino utilizzava la sacca contenente la
crusca.
E
poiché non tutti i gestori dei fondaci preparavano da mangiare,
spesso consegnava della pasta da cuocere, oppure si recava nelle
bettole; nei centri minerari “ ‘ncantina’.
Sorse,
così, il modo di cuocere la pasta, “a la carrittera”: con
aglio, olio, pomodoro, basilico e sale. Chi poteva permetterselo
conduceva con sé un giovane aiutante e altro cavallo, detto
“balancino”,
che sosteneva il cavallo a superare le asperità della strada e,
guidato dal giovane raggiungeva in anticipo il paese più prossimo
per accaparrarsi il posto al fondaco. Quando richiesto, intervenivano
dei carrettieri della zona a sostenere il collega in difficoltà;
ovviamente, dietro compenso.
Non
viaggiava mai privo di merce. Per esempio: se all’andata
raggiungeva Alcamo o Partinico portandovi zolfo, grano, formaggio o
fieno, al ritorno caricava vino per integrare quello prodotto a
Lercara.
Durante
questi lunghi tragitti alleggeriva la pesantezza della monotonia e la
solitudine improvvisando
stornelli incentrati sul proprio lavoro o sulla propria ragazza.
A
Lercara carretti se ne contavano moltissimi, impegnati nel trasporto
dello zolfo fuso, e del frumento e della farina del mulino
Bongiovanni, situato in fondo alla via Mulino. Transitavano per le
vie uno dietro l’altro come in processione.
Terminata
la giornata di lavoro, il carrettiere si recava all' abbeveratoio o
alle fontane per rinfrescare le gambe del cavallo e il carretto con
gettiti d’ acqua prelevata con una bacinella di rame, detta
“scutiddaru” e inumidiva il fieno destinato al cavallo.
Ritornato
a casa “spaiava”, cioè, staccava il cavallo dal carretto
e provvedeva ad ancorarlo accostandolo al muro della propria
abitazione, con le aste alzate e, se necessario, bloccando le ruote
con grosse pietre.
La
presenza di tanti carretti diede vita a nuove botteghe di artigiani:
“carrozzieri” per la riparazione dei carretti, e “sellai” per
la confezione dei finimenti e delle bardature, collaborati da giovani
apprendisti.
La
possibilità di ingenti incassi, indusse persone facoltose a fornire
il carretto a chi non riusciva ad acquistarlo e ad approntare il
cavallo “al guadagno”, cioè, con la compartecipazione all’utile.
Accanto
a questa “industria”, sorsero cooperative di carrettieri che si
aggiudicavano delle grosse commesse, e “imprese” individuali; una
di queste la gestivano i coniugi Giuseppe Tinnirello e Giovanna Di
Salvo i quali disponevano di circa dieci carretti che affidavano a
giovani, assegnando loro le destinazioni e la merce da trasportare e
commerciare. In cambio ricevevano il salario di una giornata.
Questo
modo di operare era facilitato dal fatto di disporre di un ampio
complesso abitativo che consentiva il ricovero dei carretti,
l’alloggio degli animali, la conservazione della biada e la
fornitura dell’acqua e del vino. Il tutto supportato da un
contabile.
Il
carretto divenne obsoleto quando si divulgarono i mezzi di trasporto
merci a motore a tre ruote (Ape e Moto-Ape) e a quattro ruote, per
cui il carrettiere si trasformò in autista e trasferì nel nuovo
mezzo il fascino della coloritura e alcuni finimenti.
Ai
nostri giorni il carretto fa parte di sfilate folkloristiche nelle
feste patronali e si presenta sempre più coreografico; i colori
vivaci e l'originalità delle raffigurazioni continuano ad
interessare precipuamente le nuove generazioni.
Desidero
concludere questo escursus, riportando una calorosa testimonianza di
Carmela Di Liberto, figlia di Giuseppe, carrettiere.
“Mio
padre era Giuseppe Di Liberto, conosciuto come “Peppe Ricotta ”,
il quale con questo lavoro è riuscito a mantenere la numerosa
famiglia, composta dalla moglie e da nove figli. Un lavoro pesante e
molto pericoloso essendo esposto al sole, alla pioggia e ai
malintenzionati.
Ci
raccontava che per raggiungere Castellammare o Menfi impiegava
parecchi giorni. Qui, vendeva zolfo e generi alimentari (cereali,
olive, mandorle). Andava a dormire nei Fondaci e di solito mangiava
pasta condita con aglio, olio e sarde salate, mentre il cavallo
veniva alimentato con crusca, avena o paglia; il suo letto era
costituito da un sacco di paglia.
Alloggiare
nei fondaci, anziché per strada, dava sicurezza, perché con la fame
che allora imperava, vi era il pericolo di essere derubato e la
probabilità di ritornare a casa a piedi e senza denaro. Mio padre
“adorava ” il suo carretto e il suo cavallo e ne era orgoglioso.
A quei tempi, possedere un cavallo di buona razza ed un carretto
significava stare bene economicamente.
Purtroppo
questo tipo di lavoro costringeva mio padre a stare poco tempo con la
famiglia, ma doveva lavorare tanto per mantenerla. Successivamente ha
sostituito il carretto con una “Moto Ape a tre ruote”, che per
noi piccoli è stata una festa e una gioia immensa, come se avesse
comprato un Tir.
Comunque,
continuò ad avere sempre la passione per il cavallo, infatti,
commerciava asinelli di razza e a volte li cedeva in affitto a
venditori ambulanti di frutta e pesce. Questa sua passione e
dedizione l’ ha trasmesso in famiglia, tant’è che ancora oggi
conserviamo gelosamente il suo carretto, considerandolo qualcosa di
prezioso perché ci ricorda il passato e non vogliamo fare sparire la
memoria.
Mio
padre è stato un grande lavoratore, ci ha insegnato a lavorare
facendoci capire che il lavoro dà dignità all’ uomo e noi figli,
seguendo il suo insegnamento, ci dedichiamo al commercio e
trasmettiamo ai nostri figli la passione per il carretto e per i
cavalli”.
Versi
diFelice Dolcimascolodedicati alle trattorie
risorte laddove erano le vecchie 'ncantine e il cui menu,
pur
memore delle frugalità tipiche di un tempo, si arricchisce di nuove
voci adatte alla contemporaneità:
Saluti
a tutti
a
cu è assittatu, e a cu è a l'additta
saluti
a tutti... di Totò Cacaladditta.
Stigghiola
e quarumi putiti truvari
manciari
carni e pisci di mari
li
grossi crastuna e l'attuppateddi.
La
trippa è bianca o cunzata cu 'u sucu
la
centupeddi stricata cu 'u Sali
attaccatu
a la carni c'è l'ossubbucu
e
manciannu dù sardi vi sintiti a mari.
Costi
d'agneddu fatti arrustuti
pi
ccu ci piaci aju li favi vugghiuti,
lu
sangunazzu fazzu vugghenti
l'arricriari
all'amici e parenti.
Li
mulinciani ni pozzu parrari
a'
parmigiana li sacciu cunzari
sucu
di casa cu agghia cunzata
e
cu 'a ricotta salata po' cummigghiata
Cu
rispettu li sarbietti di pezza vi portu
pi
stujarivi 'u sivu du pedi du porcu,
cu
trasi nni mia cu pedi cuntenti
un
nnesci di cà cu 'i panzi vacanti.
Un
sarbu nenti du manciari d'aeri
chistu
vù giura Totò Pillitteri
si
restano cosi Totò po' li etta
picchì
si mancia friscu a “LaTavernetta”.
Cunzati
cu 'a menta aju li purpetti
e
picurinu quantu cinnè,
cu
mancia 'na vota nni Cacaladditta
chistu
vi giuro... ci torna arrè.
Nzalati
virdi e cu la cipudda
accussì
virdi ca pari sudda
accia
e finocchi pi sgrasciu cà c'è
vinu
bbonu e passitu a tinchitè.
Sambuca
e Marsala l'arriala la ditta
di
Salvatore Cacaladditta.
Si
ringrazia l'Autore per la gentile concessione alla pubblicazione della
sua Opera in questo sito