Quando l'orologio
della Matrice
avrebbe suonato l'ora nona la nonna materna, armata di sarmento
contro i miscredenti, fermava bruscamente i nostri giuochi, che si
svolgevano, senza posa, nel cortile Genco, e, archiannu,
come Cristo nel tempio: Cuomu, cu' lu Signiruzzu muortu,
vuliti, ancora, jucari?... Da quell'ora sino alla
Resurrezione le campane sarebbero state messe a tacere da lu zì
Minicu, e si sarebbero sentiti, nell'aria, soltanto lo
strepitare di li truòcculi
e il battere, lento e sordo, sulla pelle d'asino del tamburo, coperto
dal drappo nero di lutto. Il cielo, compreso del doloroso mistero e per
l'imminenza del plenilunio, appariva turbato e segnato da nuvole, che,
coprendo e scoprendo il sole, provocavano reiterati ed effimeri
eclissi, simulanti, alla paesana, il grandioso eclissi totale, ab hora
sexta ad nonam, del 33 d. C..
Fermavamo i giuochi, lasciando il campo ai coinquilini del cortile,
reduci dalla campagna, dov'erano andati a
dari arienzia a l'armali, in tiempu pi' la pricissioni; lu zì Tanu, di
la Urfa, con la sua salmeria, la za Pitridda, di Tirdinari, assittata
supra la scecca, cu'na manu a la vardedda e l'autra a la riètina,
col suo fascio d'erba, da cui sfilavamo un filo d'avena o di sulla, che
portavamo in bocca per sentirne il sapore dolciastro.
Le bestie non digiunavano e anche noi, più volte, spezzavamo il
digiuno, con un'anga di pane di Cena, dalla bianca
marmorata, o con un consistente frammento di piecuru di
zuccaru, misteriosamente incrinatosi, prima della Pasqua, o cu'
un piezzu di pupu cu' l'uovu, rifilati dal vicino, nisciutu
apuostulu, e, il dì prima, seduto sul banco per la Lavanda
dei piedi.
In prossimità della Pasqua, Piero, Eugenio e Didaco, dopo aver fatto,
qua e là, incetta di zucchero, si recavano dalla Cubaitara,
che avèa casa e laboratorio vicino alla Matrice, perché convertisse la
partita di dolci grani di cristallo in una strippata di
picurieddi, che, poi, ci apparivano troppo pochi e minuti,
alla consegna... C'è sfidu! si scusava la buona
donna. La cara zia Mannina, poi, era, anche, brava a fare li
picurieddi
di pasta di mandorle, la cui preparazione durava più giorni, come la
Creazione: schiacciava, sbollentava, mondava, macinava, impastava e,
infine, plasmava, col bianco stampo di gesso.
Interrotti i giuochi e spezzato il digiuno, visitavamo il Santo
Sepolcro, cunsatu nella cappella di lu
Sagramientu, dall'aria grave e raccolta, discretamente
illeggiadrita dalla messe di laurieddu, tenero e
biondo, per carenza di fotosintesi clorofilliana, ma così ricco di
significati.
Nel tardo pomeriggio, sfilava il corteo col Nazareno, supino, nell'urna
di l'angiuliddi, portato a spalla, sulla vara,
lungo la strada di la pricissioni, fina lu Cravaniu,
presidiato da la za Billonia.
Sul sagrato della chiesa di S. Giuseppe, attende, affranta, la Madre
Addolorata, che a Lui si unisce. Precedono, confrati, con scapolare e
torcia, chierichetti e prelati, cu' sulu rubbuni;
seguono, musicanti, autorità e il gran popolo.
Il panegirista è già sul terrazzo, "come torre che non crolla per
soffiar di venti", in quel crocevia di correnti d'aria ca è
lu cravaniu, tantu ca l'antichi ci facìanu l'arii, appunto...
Sotto la folla fa testuggine contro la Cifalutana.
Lontano, l'ampio arco occidentale dell'orizzonte, che ha in Busambra il
suo referente, dove la luce del giorno tarda a morire. Il dotto
reverendo dà buona prova di commovente oratoria su tema obbligato, e di
resistenza al freddo...Mancu chissu pì lu Signiruzzu?...
Didacus
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pubblicato nel Periodico parrocchiale di Alia "LA VOCE", nr. 1/97, pag.5