Il
siciliano
di nonna Rosa scorreva limaccioso ed esotico come il Mississippi
River,
dalle cui foci l'ava proveniva, e suonava forestiero non solo a chi,
come me, era nuovo alla vita e alle frequentazioni, ma, anche, a chi
aveva, con lei, lunga dimestichezza.
Il suo ”cockney”,
frutto di personale elaborazione, non era più gestito nell'ampio spazio
di percezione delle campane della sua americana Saint Mary, bensì in
quello, più limitato, del suono della campanella dei Sacri Cuori, che
la chiamava alla Messa Cattolica di ”Patri ‘Ucciuni”.
Il suo era un ”cocktail”di parlate neo latine,
anglosassoni e creole, centellinato con lo stesso amore con cui
delibava il vino maritale della vigna di ”Li Timpi”.
Era l'impasto di uova, petrosino, cipolla, cacio, carne o pesce,
peperoncino, pronto, nel ”lemmo”,
per essere trasformato in polpette, nel quale, affondavo tre ditini
congiunti, a mo' di gancio, per riempirmi la bocca, lasciando
trasecolata la gatta rosciana di nonna.
Il suo farraginoso e
composito eloquio aveva un forte potere evocativo. Una folla di
persone, senza tempo, veniva fuori dalle sue parole, prendendo corpo e
muovendosi, a guisa di elisie anime: il padre, Giò Purpera, padrone di
pescherecci a Tusa e, ”boss”, in Louisiana, la
sempre invocata, madre, Maddalena Greco, il fratello maggiore, Vicienzu,
le due sorelle, Francis e Sara, spose dei loro primi cugini Cefalù;
Margherita, sorella del cuore, in corrispondenza epistolare con nonna,
in una lingua transnazionale, ma di chiara origine occidentale, dall'
ossimoro di una calligrafia ”a peri di jaddina”,
dacché il
figlio Giò, di soli sedici anni, era fuggito per l'America, riparando
dalla zia, nell'ancestrale New Roads; il fratello più piccolo, Charly,
coetaneo e compagno di giuochi di papà e di zio, tirato su, si può
dire, da nonna, assieme ai figli, sino a pochi momenti prima del
traumatico distacco della sorella, della figlia, della cugina, della
nipote, dal già consistente numero di membri della patriarcale famiglia
dei Purpera, per seguire, novella Creusa, il marito, in un ritorno, se
si vuole, paradossale e controcorrente, se non fosse avvenuto il quale,
però, bene o male, non saremmo qui a scrivere.
La sua lingua,
barocca, come la sua cucina, ma piena di principi attivi, mi ha
sostenuto nel periodo della fanciullezza e della lunga e inquieta
adolescenza, e nel momento, per me critico, del freddo transito dal dì
alla notte dei pomeriggi invernali, quando, avvicinandomi al braciere,
in cerca di calore, lei, dolcemente mi preveniva nel sinestetico,
rituale, atto di ”arriminari lu luci”, e mi
mostrava come la ”tassùra” facesse appiccicare la
cenere alla paletta.
L'involontario riaffiorare di parole come ”dense-Milk”,
“cciànza” - chance -, ”burcetta”, “giannetta”,
di locuzioni come " 'un essiri grieviu", “Chi nick e nack",
“Si vesti comu 'na nunna", di topònimi, come ”Niùrùd"
- New Roads -, ”Novalenza" - New Orleans, ”Pittinèu",
Pèttini Russult" - Baton Rouge - “Bàciala"-
Batchelor -, Morganza, Roccaurci "-
raccourci -, ricorrenti nel suo discorso, mi fanno trasalire e mi
riportano, vicino a lei al calduccio del braciere, io di sessanta e
nonna di centoventi.
Il suo dialetto era una squisita e composita ”fruit salade",
dagli effetti inebrianti. Era il bel piatto di patate fritte, condito
con sale e aceto, alla maniera ariscia, ma senza pesce, o con lo
zucchero di canna, alla cajun, o con zucchero di barbabietola,
all'alisa, per rimediare alla lamentata mancanza delle patate americane.
La
lingua di nonna era il suo fumante minestrone che faceva prudere il
naso a papà, che, dopo novant' anni, della fanciullezza, a Pointe
Coupee, ricorda il solo zio Charly, per aver litigato, con lui, per una
“rumariddina", sino a pochi minuti prima di
partire.
Era il
suo odoroso brodo di carne, dai cento elementi vegetali e animali;
forse il più qualificato simbolo della sua ibrida e sostanziosa lingua.
E mentre digito, tentando un atterraggio all'americana, per concludere
questo breve viaggio nella memoria affettiva, invano cerco di
ricordarmi di una “fruit salade" infantile, con cui
l'allusiva
e paziente ava rispondeva alla nostra richiesta di monetine da cinque e
da dieci, di cui eravamo alla continua ricerca, in quello scorcio di
tempo tra i '40 e '50. Di essa, però, non mi sfugge l'inizio: “E
papa ghive nickell - E mama ghive nine - E nona dòn un pìccì...",
la cui esegesi sarebbe difficile a chi non avesse la minima idea, del
crogiuolo di razze e di lingue che era la Louisiana, a cavallo tra l'8
e il 900.
Didacus
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pubblicato nel Periodico parrocchiale di Alia "LA VOCE" nr.3/03/04,
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