Forse
pochi di voi
ricorderanno e molti altri forse non conosceranno
affatto la figura di "lu urdinaru". Lu urdinaru era chiamato così
proprio perchè il suo compito fondamentale era quello di ordinare, o
meglio, coordinare le "riètine" dei muli che, in estate dovevano
trasportare i prodotti della terra dagli appezzamenti dei ricchi
possidenti - nobili o borghesi - ai magazzini degli stess; in
inverno, invece, trasportavano le sementi.
I muli - che ovviamente non appartenevano agli "urdinara " ma ai loro
padroni - procedevano in fila indiana legati uno dietro l'altro con una
grossa corda, da qui il nome "riètina". Ogni "riètina" era composta da
circa 9 muli di cui otto erano adibiti al trasporto dei frutti della
terra - grano, orzo, fave, ecc..- , che venivano posti in grosse
"visazze" e "visazzotte" e queste a loro volta, sulla schiena dei muli;
il nono mulo, invece, detto "caporìetina", trasportava "lu urdinaru".
Il mestiere dell' "turdinaru" era molto duro: si soleva dire che "s
'avia 'a susiri di stidda in stidda", infatti si metteva in cammino
appena "affacciava la puddara" - il piccolo carro - e si ritirava alla
"stidda di l'Avi Maria". In verità non dormiva quasi mai . A sera,
fatti rientrare i muli nella stalla, doveva pensare prima al loro
pasto, poi al suo. Cominciava, quindi, a sistemare la paglia nelle
mangiatoie e finalmente poteva assaporare il suo tanto atteso piatto di
pasta, non senza un sorso di buon vino.
A questo punto, illuminato da una candela ad "arsolio" - petrolio - , e
seduto sul suo morbido letto ..., che altro non era se non "la
ghiuttena" - una panca fatta di pietra ricoperta di pelle di pecora -,
prima di concedersi il meritato riposo, doveva riparare le "visazze" e
le "visazzotte " che, essendo fatte di "lona" - canapa -, potevano
anche strapparsi. Per fare questa rammendatura, utilizzava "a
zzaccurafa" - un ago molto lungo e grosso - e lo spago.
Finalmente era l'ora del sonno, muli permettendo!
Infatti, quelle docili bestioline avevano la simpatica abitudine di
cominciare a "trippare", a litigare e a scalciare, finchè "l' urdinaru"
era costretto ad alzarsi per "arrifriscare" loro la paglia, cioè dare
una mescolata alla paglia aggiungendone di nuova.
Una volta al mese, " l' urdinaru" aveva la "vicenna" , un giorno in cui
gli era concesso di tornare a casa, anche per cambiare i propri, ormai,
sudici abiti.
La sua retribuzione era "lu partutu" che consisteva in un tot di olio,
frumento, pane, formaggio, vino e anche un pò di denaro.
"Li urdinara" più ambiziosi "armavano" i muli con "cianciani" ,
"lanigghi" e "fruntala ", ossia con campanelle. pon-pon di lana
variopinta e con cordelle colorate che servivano per adornarne la
fronte. Le spese per questi abbellimenti erano tutte a carico dell'
"urdinaru " e qualora non le avesse sostenute sarebbe stato giudicato
"udinaru tintu ".
La gente poteva percepire da lontano l'arrivo delle "riètine" a causa
del rumore delle campanelle e poteva anche distinguere il suono di una
"riètina" da quello di un' altra: lo squillante tintinnio delle
"riètine" del Cavaliere Guccione - che ne possedeva otto o più - , era
facilmente distinguibile da quello più pacato della "riètina" di donna
Nina Guccione.
A questo punto avrete certo capito quanto fosse sacrificato il
nostro urdinaru , era però rassegnato e la durezza del lavoro
nell'atmosfera bucolica dei nostri monti, non poteva che trasformarsi
in poesia:
"Guarda chi vita
fa lu urdinaru, 'ca notti e jornu
camina a lu
scuru, metti a pigghiari
capizzi di li
mura, e la so vita è
sempri china di
dulura". Laura Seragusa
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pubblicato nel Periodico parrocchiale di Alia "LA
VOCE" , nr.1/96, pag. 6