Ho ancora ricordi di me piccolissima, quando non c’era l’elettricità e ci si rischiarava prima con il lucignolo per risparmiare e poi con il lume a petrolio, ma quello si doveva comperare. Per fortuna si andava tutti a letto molto presto, soprattutto in inverno, anche perché era un modo economico per stare caldi. Però quante serate attorno alla bracera con la coperta sulle gambe per non disperderne il calore, ascoltando i grandi raccontare di truvature, di fuitine, di morti ammazzati.
Erano racconti misteriosi e qualche volta paurosi che venivano ingigantiti dalla mia fantasia. Mi rendevo conto che erano avvenimenti reali, diverse dalle favole raccontate da mamma, di quelle, alla fine del racconto, ne avevo spiegata la morale e poi finivano sempre bene.
In estate spesso dormivo con mia sorella in solaio da dove, attraverso le fessure tra una tegola e l’altra, si intravedeva il cielo stellato, e già allora mi sentivo un essere infinitesimale sotto quello scuro manto stellato.
Mentre in inverno, durante i temporali, la mia fervida immaginazione pensava che i tuoni fossero causati da giganti che correndo sulle tegole delle case rotolassero enormi botti. In quei momenti mi rannicchiavo di più verso mia sorella, anche se durante la giornata non avevamo fatto altro che litigare per la disperazione della mamma.
La mamma teneva dietro la porta di casa un bastone di ferla, con cui minacciava di darcele di santa ragione (mai fatto) ogni volta che litigavamo. Di solito prendevamo sottogamba questa minaccia, ma quando la vedevamo esasperata socchiudere la porta per prendere il bastone, immediatamente smettevamo di litigare e solidali scappavamo mano nella mano a gambe levate lontano dalla minaccia.
Era bella la vita per noi bambini, il Paese era tutto nostro, perché gli uomini erano in campagna e le donne indaffarate a casa, e noi si stava sempre per strada senza che i grandi si preoccupassero. C’erano tante Zie che ci riprendevano o ci coccolavano in base ai nostri comportamenti, ed eravamo sempre sicure e protette.
Io avevo tanti IMPEGNI: giocavo con le mazze, a saltarello, a palla, a nascondino, facevo qualche commissione; andavo da Mastro Ciccio, il calzolaio sotto casa a raddrizzare chiodi e in cambio ricevevo la colla, quando mi serviva. Poi andavo alla Matrice ad aiutare lu Zi Minicu, il sacrestano; andavo a buttare i fiori secchi fuori dalla porta fausa e mettevo le sedie a posto. Senza che lo chiedessi, ogni volta mi regalava i ritagli delle ostie, ed ero felice, perché, non avendo l’età per la comunione, quegli spezzoni e quel sapore mi facevano sentire grande.
Poi alla Matrice non potevo non fare la mia solita sciddicalora. Seduta sul piccolo bordo di marmo dove poggiava la ringhiera della scalinata, mi lasciavo andare giù. La mamma, anche lei una maschiaccia, mi diceva che era un gioco, a sua memoria, che facevano tutti i bambini.. A testimonianza, il marmo aveva un incavo ad indicare le scivolate negli anni di tutti i piccoli.
Sul sagrato invece si giocava a tocca ferro. Ma, a causa di una dispersione elettrica che ci faceva prendere la scossa, non ci piaceva molto. Mi piaceva andare al Calvario ed arrivare fino alla brivatura. In primavera era bellissimo, c’era un’esplosione di fiori e di colori: il profumo era inebriante. Ancora mi arriva alle narici il ricordo dell’odore delle ginestre, del mentastro e della terra bagnata dall’acqua che ne fuoriusciva. Lontanissimi ricordi di donne vocianti e ridanciane che facevano il bucato e stendevano sull’erba le lenzuola di tela cruda per sbiancarle.
Spesso con le amiche con la scusa di raccogliere i gelsi bianchi lungo la strada del cimitero, me le portavo fino al cancello, cercando di vincere le loro paure. Ma una volta arrivate al cancello urlavo che i morti stavano venendo a prenderle per i capelli e, ridendo come una matta, scappavo mollandole là. Ma chissà come, dopo un po’ ci ricascavano.
Dopo tanto girovagare ogni giorno per il paese, tornavo a casa per la fame. Se ero fortunata mi toccava pane con una petra di zucchero, altrimenti pane e cipolla con il sale, ed era un rito. Poi arrivava l’AVE MARIA, e gli uomini tornavano dai campi. Per le strade si sentiva l’odore della legna, che bruciava nelle cucine, e gli zoccoli dei cavalli che camminavano lentamente, sia per il carico sia perché la strada in salita era faticosa.
A questi si univano le mandrie di capre che tornavano all’ovile, tenute a bada dai cani e dal pastore che li richiamava per non farli disperdere. Si sentivano le voci degli uomini che si salutavano tra loro o salutavano con rispetto i vecchi che stavano seduti davanti alle case, con la coppola in testa, il mento poggiato sul bastone e la pipa in bocca. La loro schiena era curva, deformata da anni di servilismo verso quella terra che così avara era stata con loro.
Quella curva, un segno di sottomissione verso la terra, ma anche un segno di rispetto per quello che aveva dato. Forse in quel pacato sonnecchiare il pensiero andava alla loro gioventù quando erano loro a tenere i cavalli per le redini e il sangue giovane che scorreva nelle vene dava loro la forza di superare ogni avversità. C’erano anche le voci di noi bambini che andavamo incontro ai Papà chiedendo cosa ci avessero portato di buono, e di lasciarci montare sulle bestie, per l’ultimo tratto. Il Paese insomma si rianimava, prendeva vita, anche perché a quell’ora suonavano le campane dell’Ave Maria che ci affratellava nella preghiera. Io a quell’ora ero stanchissima, come un uomo che avesse lavorato nei campi, per cui, dopo cena, preghiera della notte e a nanna.
Ma se per caso mi fosse caduto un dentino, quella era una notte insonne, perché speravo di vedere arrivare San Nicola. Cercavo di stare sveglia focalizzando uno dei tanti buchi della parete dove avevo cacciato il dentino, e dove avrei trovato forse cinque lire o una caramella. Ma il sonno traditore non mi ha mai permesso di fare questo incontro.
Ogni tanto Papà, al ritorno dai campi, preparava un panaru con frutta o verdura che io portavo a Mastru Tanu. Era il droghiere, la sua bottega vicino la Matrice era piccola e cupa, ma quanti barattoli di caramelle. Io gli dicevo: questi li manda Papà, e Lui prendeva un quadernetto unto e con la penna cancellava qualcosa; scambio in natura. A Lui si portavano i quaderni vecchi, brutti e tristi, con quella copertina nera: gli servivano per avvolgere la merce e noi, in cambio, ricavavamo caramelle o castagne secche che noi bambini preferivamo, perché erano dolci e in bocca duravano di più.
Quando compii 4 anni arrivò la seconda sorella, Lucia. La mamma ci aveva preparato a questo nuovo arrivo. Ma la cosa non mi toccava più di tanto. A me interessava la promessa della mamma che avrebbe trattenuto la cicogna per farmela vedere. Per cui grande fu la delusione quando mi disse che sì l’aveva presa, legata bene e messa sotto il letto ma che si era liberata ed era scappata via, e, dato che lei non diceva mai bugie, io le credetti. La piccola Lucia mi veniva affidata spesso, nonostante fossi anch’io piccola. La mamma me l’avvolgeva stretta al corpo con uno scialle e io andavo lo stesso a giocare.
(In Africa e in Asia ho visto tante bambine piccolissime, che, come me, portavano in giro i fratelli infagottati nelle sciarpe). Però, quante cadute! Infatti, con la bambina davanti, non vedevo dove mettevo i piedi a causa anche della pavimentazione delle strade, che era fatta con grosse pietre di diversa forma e dimensione incassate a terra che non permettevano certo una camminata sciolta, ma come se fossimo fatte di gomma mi rialzavo come se niente fosse.
Mi toccava anche l’annacata per farla dormire, stando seduta su una sedia, appoggiavo i piedi su un’altra davanti per darmi la spinta, e così sistemata mi dondolavo con dei contraccolpi tremendi, che, però dopo un po’ forse per sfinimento, ottenevano il risultato di farla addormentare.
Ma il momento che preferivo era quello della pappa. Rimaneva sempre del semolino nella ciotola, ed era così buono l’odore unito all’olio, che ancora ci penso. Ovviamente ero bravissima a ripulire tutto.
Non so perchè questo regalo di avere ricordi così lontani nel tempo. Ricordi e immagini stampati nella mente di quando a malapena camminavo.
Forse è stato un trauma staccarmi a 7 anni dal Paese, allontanarmi da quelle che fino ad allora erano le mie certezze. Uno psicologo sicuramente troverebbe una spiegazione. A me sembra di aver fatto involontariamente tanti anni fa un lavoro di ipnosi per rimpossessarmi di sprazzi di vita vissuta, conservarli gelosamente e tuffarmi in essi quando la vita non mi era particolarmente amica.