Entrare in un salone di barbiere era sempre una sorpresa. Dietro quella tendina in alluminio che si agitava sospinta da qualche folata di vento e con un rumore caratteristico simile al cozzare di conchiglie non sapevi mai chi trovavi. Il barbiere era un punto di ritrovo, un posto dove potevi disquisire di tutto un po'.
La clientela variava e al variare di essa variava la conversazione. Il contadino che da alcuni giorni non era in paese, prima di tutto parlava dei lavoro ai campi, degli attrezzi, della terra e del tempo; il maestro, l'avvocato, il medico a turno leggevano il giornale e lo commentavano; il consigliere e il sindaco avevano da ridire sulla politica locale e nazionale; il maniscalco e il veterinario parlavano sempre di asini, muli e cavalli, ne sapevano più di ogni altro, ma contrastavano sull'idea di medicina moderna e di antichi rimedi empirici.
Il barbiere difficilmente si faceva prendere dai discorsi. Con la sua casacca bianca o azzurrina, sistemava la mantellina attorno al collo del cliente, l'aggiustava sulle gambe e con il classico ticchettio delle forbici iniziava a sfoltire i capelli. Il pettine saliva veloce e altrettanto cadevano le ciocche sul pavimento. L'insaponatura per la rasatura era lasciata all'apprendista che doveva ammorbidire la barba passando il pennello velocemente e facendo in modo che la schiuma lievitasse.
Le dita, indice e medio, tastavano a ogni passaggio quanto si fosse ammorbidito il pelo, nel frattempo quello si era assopito e fra la stanchezza del massaggio, viaggiava nel mondo dei sogni. Il tic e tac delle forbici non dava fastidio a nessuno dei presenti, anzi cadenzava come un orologio il tempo. Un garzone seduto in un angolo allenava le dita della mano a tenere le forbici.
Ogni tanto l'agitazione del discorso cresceva. Il borbottio del barbiere lo riportava ad un livello accettabile. Scostare quella tendina d'alluminio era come passare una zona di confine. Lasciavi fuori i tuoi pensieri e tra i profumi ti ritrovavi in un'altra dimensione. Gli attrezzi erano tutti lì in mostra: i rasoi ben allineati, l'affilarasoio di cuoio appeso alla parete, una fila di forbici di diverse misure, pronte ad essere utilizzate, pennelli, schiuma, lamette, vaporizzatori per acqua di colonia, qualche boccetta di profumo da vendere al cliente più esigente, la boccetta di borotalco da spargere dietro la nuca per chi soffriva il dopobarba, il bacile di smalto per lavare i pennelli o i capelli, poltrone comodissime poste davanti agli specchi, qualche sedia e un piccolo tavolino completavano l'arredo.
Per rasare la barba di quindici giorni del contadino, l'apprendista non finiva mai di rovistargli dentro. Ad un tratto il rumore della tenda distoglieva i presenti. Un ragazzo di non più di tredici anni, magro, con qualche rattoppo sui calzoni corti, con aria esasperata e sudato per la corsa: “maestro Tolino, mi disse mia madre se può venire a fare un salasso a me nonno?” “A casa sono”.
Compito extra del barbiere era apporre anche le sanguisughe agli ammalati di polmonite tramite prescrizione del medico curante. Una pratica, secondo l'opinione degli eruditi dell'epoca, che portava via il sangue malato e permetteva la ricostituzione di quello sano e dunque la ripresa del malato. Credenze medievali di una medicina empirica, nata dai ricordi ancestrali. Anni prima Mastro Nardo, un altro barbiere, era stato invitato dai carabinieri a presentarsi in casema, perchè don Titta era morto dopo il salasso che gli aveva procurato.
Nella barberìa di Mastro Tolino il giorno successivo si presentò don Ciccio Caramanna. Il barbiere lo guardò distrattamente, ma già aveva capito cosa era venuto a fare nella barberìa. “Si accomodassi, ca finisco il taglio e procediamo”. Don Ciccio a guardarlo sembrava avesse la faccia storta da un lato, tanto era gonfia per il mal di denti che lo assillava da quattro giorni. Non parlava neanche, perché neanche di campoare gli andava con quel dolore che gli tirava il cervello.
Seduto a leggersi il giornale c'era un omuncolo storto, con la faccia scavata dalle sofferenze, emanava un odore di zolfo che francamente non lo lasciava mai. Il suo lavoro era sotto le viscere della terra, tra il fango e la gemma di zolfo. Glielo caricavano sulle spalle dentro le ceste di canne, due picconieri là sotto in fondo alla pirrera. Poi a passo lento iniziava la salita. I gradini scavati nella roccia erano limacciosi. Si rischiava di scivolare a ogni passo. Chi lo avrebbe alzato quel carico se fosse andato per terra?
Gli altri lo avrebbero preso in giro. Una fila di caricatori erano pronti a ridere per ognuno di loro. Il suo turno di lavoro era finito da poco ed era andato a rasarsi. Analfabeta cronico stava “leggendo” il giornale. “Cicceneddu, che dice il giornale ?“, disse Calorio La Guardia, schiacciando l'occhio agli altri. “E che dice. Sempre le stesse cose dice. U patri ammazza u figghiu e u figghiu ammazza la matri”.
“Pronto don Ciccio”, urlò Mastro Tolino, spresciando il cliente del taglio. Aprì il cassetto sotto lo specchio e ne uscì fuori una luccicante pinza. Imbavagliò il malcapitato. Preparò un bicchiere con acqua e bicarbonato. Qualcuno dei presenti, forse per la stessa esperineza subita, uscì fuori all'aperto. La tendina d'alluminio dondolò rumorosamente. “Qual'è l'infame?” Con il dito dentro la bocca don Ciccio indicò un molare qualsiasi alla destra dell'arcata inferiore. Il pezzo di ferro, umettato dall'acqua e bicarbonato, entrò delicatamente. La presa si aggiustò su un molare.
Mastro Tolino per far forza poggiò il suo ginocchio sinistro tra le gambe del dolorante paziente fino a trovare il cuscino della poltrona. Una lieve rotazione a destra e a sinistra della pinza fece scricchiolare il dente. Affondò la gamba sulla poltrona, si alzò quasi in piedi per far forza. Sembrò come se si allungasse spropositatamente sopra il cliente. Un mugolìo soffocato uscì dalla bocca di quello. Neppure il tempo di prendere fiato che un tonfo diede l'idea della fine di tutte le sofferenze. Il barbiere uscì fuori la pinza con il dente attaccato e lo diede in visione ai clienti spettatori. Il bicchiere con il bicarbonato passò in mano a don Ciccio Caramanna che sciacquò vivacemente più volte. “Don Ciccio, ora che andate a casa, ci fate sciacqui con del buon vino. Sciacqui e agghiùttiri”.
Le giornate non erano sempre così piene. Qualche volta, tanto per passare il tempo, alcuni amici si riunivano in barberìa portando alcuni strumenti musicali. Si cantavano e si suonavano le arie di opere famose, canzoni in dialetto e quelle alla moda. Tra una suonata e l'altra, una storia fantastica, vecchie leggende platoniche, storie di fuitine e di donne accompagnavano allegramente il passare delle ore.
Altri tempi, altri barbieri. Il barbiere amico di tutti che t'impomatava e ti faceva bello, anche se non lo eri. Quante storie, quanti fatti dietro una tendina d'alluminio.
Testo di GIROLAMO GAROFALO
da "Musica dai Saloni" - suoni e memorie dei barbieri di Sicilia