Il
treno ha appena lasciato la stazione
Rabat-ville. Mi affaccio al finestrino e vedo la torre Hassan
spuntare imponente sui tetti delle case circostanti. Poco più in là
c’è la casbahdes Oudayas,
che osserva dall’alto
del suo promontorio l’incontro silenzioso tra il mare
dell’Atlantico e il fiume Bouregreg.
Questo
piccolo corso d’acqua, poco più di un
rigagnolo, nasce nelle lontane montagne dell’Atlante. Percorre
centinaia di chilometri, scavando il suo letto tra le rocce aride
dell’interno, prima di gettarsi sull’oceano proprio in questo
punto, separando così Rabat da Salé. Due città vicine, “gemelle”,
ma distanti in realtà dei secoli l’una dall’altra.
La
prima governa la vita amministrativa e politica
del paese, ed è rivestita di bei palazzi in stile coloniale e luci
scintillanti. La seconda sembra aver fatto capolino nel ventesimo
secolo soltanto da qualche decennio. A Rabat ci si sposta solo per
lavorare, gli affitti sono alle stelle. Salé, Sla
in arabo
marocchino, è diventata invece una città dormitorio, un formicaio
di mattoni cemento che si estende a perdita d'occhio dietro il
prezioso centro storico.
Sono
due le ragioni che mi hanno spinto
fin qui, a Salé, un universo affascinante ma poco conosciuto. La
prima si chiama Abdellah Taïa. La seconda, Pier Paolo Pasolini.
Il
giovane scrittore marocchino, nato e cresciuto
proprio a Salé (oggi vive a Parigi), descrive con parole cariche di
affetto i ricordi che ancora lo legano alla sua terra. Nei suoi
racconti dà voce alla povertà di Hay Salam,
quartiere
della periferia popolare dove ha conosciuto la durezza della vita e
scoperto la sua omosessualità, e accenna ai misteri e alle leggende
che ancora avvolgono la medina.
Non
c'era riscaldamento nella casa di Hay
Salam. Durante la stagione fredda, all'interno di questa dimora
singolare, ci vestivamo più di quando dovevamo uscire. […] La sera
mia madre e Najat preparavano il carbone nel majmar [braciere] per il
fuoco. Restavamo tutti nella stessa stanza a riscaldarci il viso, le
mani, il piedi, attorno all'unica fonte di luce e di calore. […] In
inverno la nostra quotidianità non aveva senso se non attraverso
queste lunghe serate passate in cerchio vicino al majmar. Eravamo
poveri, con pochi soldi. Pensavo fosse la miseria e invece mi
sbagliavo. (1)
Giorno
dopo giorno mi accorgevo di come il
quartiere fosse cambiato. La miseria aveva spinto tutti i giovani a
fuggire e tutti gli altri a cavarsela alla meno peggio. Tanta gente
era arrivata dalle campagne e per le strade incrociavo volti
sconosciuti. Anche i miei compagni di giochi proibiti erano partiti.
Ognuno pensava a se stesso. Tutti i mezzi erano leciti per non
diventare completamente poveri, per avere da mangiare almeno due
volte al giorno. Alcune ragazze, quelle non ancora sposate con un
disoccupato o un ex galeotto, erano diventate prostitute a Rabat. (2)
Tutti
lo sanno, la gente di Salé viene invasa
da una strana follia dopo la preghiera di al-Asr. Ecco perché, per
molto tempo, le porte della città vecchia venivano sistematicamente
chiuse al termine del rito religioso. Si voleva preservare la follia
di Salé per i suoi abitanti e dispensare gli altri da un male così
particolare che fa ancora parte del dna della città, della sua
immagine. (3)
E
poi c’è Pasolini. Nel 1966 l’intellettuale
friulano aveva trascorso alcuni mesi in Marocco, per cercare
l’ambientazione adatta al suo Edipo re. Catturato
dal
sapore autentico profuso dalla città, Pasolini era tornato a Salé
un anno prima di morire. Un vero colpo di fulmine.
Lo
stesso Taïa, rapito dalla grandezza
della sua opera, racconta che Pasolini aveva scelto questo posto come
soggetto e ambientazione per un nuovo film, e che qui aveva deciso di
convertirsi all’islam. Non so quanto ci sia di vero in tutto
questo. Forse sono solo voci, solo fantasie, sufficienti tuttavia a
stuzzicare la mia curiosità e convincermi ad inseguire le tracce dei
due letterati.
Mi
lascio la stazione alle spalle e mi dirigo
verso le vecchie mura che ancora circondano il centro della città.
Risalgono all’epoca della dinastia merinide, più o meno la seconda
metà del XIII secolo, quando Salé acquisì importanza sul piano
commerciale ed il suo porto, di cui oggi è rimasto ben poco, divenne
uno scalo irrinunciabile per gli europei che si avventuravano nella
costa atlantica.
La
calce che riveste i bastioni, un tempo bianca e
lucente, è ormai gialla e sporca, deturpata dagli scarichi del
traffico cittadino. Supero Bab Fes e muovo i
primi passi
all’interno della medina. Di colpo mi ritrovo
immerso tra
i vicoli stretti e chiassosi del mellah, il
quartiere
ebraico, almeno storicamente. Quasi tutti gli ebrei del paese (circa
60 mila), infatti, hanno lasciato il Marocco dopo la "guerra dei
sei giorni".
Sono
le undici del mattino ed è l’ora
del mercato, dei traffici e degli affari. Un crogiuolo di volti,
merci e colori a cui non sono preparato.
Ho
in testa le storie di Taïa. I suoi racconti
rievocano la presenza dei corsari, che resero celebre e temuta la
città per oltre tre secoli, fino all’arrivo delle potenze del
nord, che ha poi aperto la strada alla colonizzazione. Si soffermano
sui “santi” tanto cari alla madre M'barka, le confraternite sufi
e i marabut, che vegliano numerosi a protezione
degli
abitanti del luogo, gli slaouis.
I
corsari. Basta entrare nella medina,
oltrepassare una delle sue grandi e maestose porte, per ritrovarsi
stregati, rapiti dallo spirito di questi uomini che non lascia più
la città. Le resistenze cedono, si è come posseduti, affascinati.
Non si è più padroni della propria volontà. Ci si lascia guidare.
(4)
Non
è ancora il momento di abbandonarsi
all’allegria del suk e di perdersi in
contrattazioni
infinite. La ricerca è appena cominciata e, per quanto astratta e
immaginaria, sono deciso a proseguire nel mio intento senza
concedermi distrazioni. Così, supero velocemente le strade affollate
del mellah e punto dritto verso la Grande
moschea, il cuore
spirituale della città. E’ lì che troverò i miei tesori. O
almeno credo.
La
Grande Moschea si trova dall’altra parte
della medina e, per arrivarci, bisogna
oltrepassare decine
di strade e stradine, che al mio occhio inesperto sembrano tutte
inesorabilmente identiche. Perdo ben presto l’orientamento. Provo
ad imboccare qualche via a caso, nella speranza di imbattermi in un
monumento noto che possa servirmi da riferimento, o di ritornare al
punto di partenza. Senza successo.
Il
sole comincia a farsi sentire. Intorno a me non
c’è nessuno, nessuno a cui possa rivolgermi per chiedere
informazioni. Solo pareti candide e vecchi portoni stuccati, alcuni
intarsiati con precisione ed altri abbandonati al degrado del tempo.
L’atmosfera che si respira ha il gusto antico del mito e il sapore
amaro della miseria.
Senza
farci troppo caso, vengo lentamente
risucchiato dall’incanto che ancora aleggia dentro la città. Un
fascino privo di coordinate e dimensioni.
La
mia mente si perde in riflessioni e congetture
quando un ragazzo magro e mal vestito si avvicina proponendomi il suo
aiuto. Si chiama Abdelillah e fa la “guida clandestina”. Ogni
mattina va alla ricerca dei pochi turisti che transitano da queste
parti per offrire loro i suoi servizi. Così si guadagna la giornata.
Probabilmente mi stava seguendo fin da quando ho lasciato il mellah.
Il suo volto scuro è segnato da cicatrici, ai piedi porta delle
ciabatte di plastica logore.
In
Abdelillah riconosco subito i tratti del
“ragazzo di vita”. Del resto, come scoprirò più avanti, anche
lui è il prodotto di un sottoproletariato povero e violento, come i
personaggi dei romanzi di Pasolini. I suoi capelli crespi mi fanno
pensare al “Riccetto”. Sono sulla strada giusta. L’idea di
proseguire la ricerca in compagnia di un autentico slaoui,
probabilmente a conoscenza delle storie e dei racconti che vado
cercando, non mi sembra così insensata. Accetto la sua proposta e ci
incamminiamo assieme verso la Grande moschea, nella zona ovest della
medina, quella che confina con il cimitero e
poi con il
mare. Abdelillah è nato lì, ne conosce ogni dettaglio.
Proseguiamo
veloci, cinque minuti di marcia e
siamo di fronte alla zawiya Sidi Ahmed at-Tijani.
E’ la
sede della Tijaniyya, una confraternita sufi ben
radicata
nel tessuto sociale del paese.
Il
sufismo è una caratteristica
dell’islam marocchino. Almeno di quello autentico e popolare, non
ufficiale, che con i suoi marabut
(una
sorta di santuari) e le sue confraternite, diffusi in tutto il
territorio, si discosta dai canoni classici dell’ortodossia
musulmana.
Poi
è la volta della Grande moschea. Il perimetro
è vasto e, mentre lo percorriamo, Abdellilah va avanti con le
spiegazioni: “la moschea ha sette ingressi. Sei porte più piccole,
aperte a turno dal sabato al giovedì, ed una più grande, riservata
al venerdì, giorno di preghiera comune”. Accanto all’immenso
portale, rifinito in legno di cedro, c’è la medersa.
E’
la scuola coranica più vecchia del Marocco, costruita all’inizio
del XIV secolo dai berberi Merinidi, divenuti i sovrani di Fes.
Mi
sto lentamente calando in quell’universo
mistico che Taïa lascia trapelare dalle sue opere. Gli abitanti di
Salé dimostrano tuttora un vigoroso attaccamento al culto e alle
pratiche religiose, tanto che la città, eclissata dai fasti della
capitale, è considerata una delle roccaforti del tradizionalismo.
Tuttavia,
mentre la medina
resta
impregnata di una religiosità popolare, legata al sufismo, alla
spiritualità e alla venerazione dei santi, i quartieri periferici
hanno subito la penetrazione della predicazione salafita, più
rigorosa e intransigente, ed in netto contrasto con la prima
tendenza.
Proseguendo
il cammino che dalla moschea conduce
all’esterno delle mura, verso la piccola spiaggia, ci imbattiamo
nel marabut di Sidi Abdallah Ibn Hassoun, il
“patrono”
della città. Da quattrocento anni viaggiatori e marinai oltrepassano
la soglia del santuario e depositano una piccola candela colorata
sopra la tomba del sufi, nella speranza di ricevere la sua
benedizione e la sua protezione, o meglio la sua baraka.
E'
pensando a mia madre M'barka che ho avuto
l'idea di fare una ziara [pellegrinaggio] dal santo. Ogni volta che
non stava bene, ogni volta che si sentiva soffocare dal mondo, lei
veniva qui a rigenerarsi, per poter respirare meglio, perché la vita
potesse di nuovo risplendere. Il mausoleo di un santo è diviso in
due parti, quella riservata alla preghiera - una sorta di piccola
moschea - e quella della tomba, di solito popolata di donne. […]
Dopo aver acceso la mia candela e averla piazzata sopra il sepolcro,
ho fatto sette volte il giro attorno a questo. Ho pregato per lui e
per me, sussurrando brevi versetti del Corano e toccando
ripetutamente la kessoua [panno] verde con cui è ricoperta la tomba.
Al mio fianco molte donne facevano come me. O meglio, ero io che le
copiavo imitandone i gesti. (5)
Poco
più avanti, oltre il cimitero sconfinato e
sobrio che si estende per tutto l’angolo nord-occidentale della
città, c’è un altro marabut. Un cubo bianco,
all'apparenza spoglio, con il tetto dipinto di verde e una mezzaluna
che spunta timida sopra la cupola. Il santuario di Sidi Ahmed Ben
Ashir riposa solitario tra il cimitero e la spiaggia, di fronte
all’immensità dell’oceano. “Era un dottore di origine
andalusa, che arrivò a Salé all’inizio dell’Ottocento. Con
strani unguenti e una profonda dedizione si dedicò alla cura dei
folli”, spiega Abdelillah. Sono in molti a rivolgersi ancora oggi
al “santo” per invocare la sua baraka. Taïa,
durante la
sua infanzia, si ritrovava spesso ad accompagnare la madre fin dentro
al marabut, dove questa si prendeva cura dei
malati che lì
trovavano rifugio durante la giornata.
Mostrava
una grande tenerezza per i suoi
folli. Li amava, non so bene perché, gli portava da mangiare (latte
e datteri), gli parlava volentieri e gli raccontava perfino qualcuna
delle sue storie intime, senza vergognarsi. Le loro vite si
mescolavano con la sua dolcemente e in maniera naturale, grazie alle
parole. Ogni volta osservavo questa comunione da lontano, impaurito e
ammaliato allo stesso tempo. Basta questa scena, ripetutasi
insaziabilmente, per riassumere Salé, città a cui sono appartenuto
corpo e anima ma che ho finito per tradire.. (6)
Il
mio sguardo si perde tra le migliaia di
tombe disseminate attorno a me, in ogni direzione. Piccole lapidi
grigie, bianche, rossastre, con inciso nome e data. Niente altro.
Niente fiori, niente foto, niente altari, come se i morti che qui
riposano da secoli appartenessero tutti alla stessa umile classe
sociale.
Abdelillah
richiama la mia attenzione, invitandomi
a proseguire il cammino. Sono soddisfatto dei risultati ottenuti
finora dalla mia ricerca. Adesso però è arrivato il momento di
abbandonare i “santi” e di mettersi sulle tracce dei celebri
corsari che resero grande e temuta la città.
Suk
El-Ghazel è una piccola piazza
situata più o meno nel centro della medina. A
prima vista
non sembra evocare nulla di così straordinario. Anzi, la definirei
anonima. Sono le due di pomeriggio e in giro non c’è quasi
nessuno. In realtà molte storie, vecchie e nuove, si intrecciano
proprio in questo punto della città. Ci mettiamo a sedere e, con
molta calma, Abdelillah inizia il suo racconto. “Suk El-Ghazel
da decenni è il centro di riferimento di tutte le attività legate
alla lavorazione della lana, una delle risorse principali di Salé.
Un’antica tradizione che continua ancora oggi. E’ qui che al
mattino arrivano i carri provenienti dalle regioni interne, dalle
montagne del Medio Atlante”. Portano la lana grezza. Cumuli
biancastri di tessuto vergine e maleodorante inondano il terreno,
mentre i tessitori, proprietari degli atelier che si affacciano sul
perimetro del mercato, analizzano la merce e danno il via alle
contrattazioni.
“I
maestri artigiani poi la cedono ai laboratori
di tintura. Una volta trattata, la lana ritorna ai tessitori che la
trasformano al telaio in tappeti e coperte”. Gli chiedo dove siano
finiti ora i carri, la lana e tutto il resto. “Il mercato finisce
verso le undici, a volte alle dieci, se il carico di lana in arrivo è
già venduto. Ma il pomeriggio, dopo la preghiera di al-Asr,
il suk cambia volto. Le donne si siedono in
cerchio
all’ombra degli alberi e comincia l’asta per la vendita dei
prodotti finiti, tappeti e coperte”, replica Abdelillah. Manca
ancora un po’ alla terza preghiera della giornata, ma in effetti
una ventina di donne, nascoste dietro i loro hijab,
cominciano ad ammassarsi al centro della piazza.
La
medina era il cuore della nostra vita, il
centro delle nostre credenze, vecchia e stretta ma giusta,
posizionata in riva al mare. Uscire di casa significava entrare in
questo universo, comprare tessuti per i vestiti, babbucce, erbe rare,
meravigliarsi e sognare davanti alle vetrine delle bigiotterie,
assistere ai battibecchi agitati di Suk El Ghazel, sempre pieno di
donne. Per noi voleva dire appartenere al mondo, stare in mezzo alla
folla, lasciarsi trasportare, amato, amante, rapito, felice,
sorridente.. Le grida e il rumore non disturbavano nessuno, erano la
prova dell'intensità fuori dal comune dei rapporti, degli scambi tra
le persone, e più ce n'era più eravamo contenti. (7)
Tuttavia,
per spiegare l’importanza che
Suk El Ghazel
riveste nella storia della
città occorre fare un passo indietro. Fino alla seconda metà
dell’Ottocento, prima dell’interesse coloniale e della vittoria
delle truppe federali nella Guerra di secessione americana, non erano
i tappeti e le coperte che qui venivano messi all’asta, bensì gli
schiavi.
Gli
Europei attraccavano le loro navi al porto di
Salé o della vicina Rabat (un tempo chiamata Sla jdida,
"Salé la nuova") per rifornirsi di manodopera destinata
alle piantagioni del nuovo mondo. I mercanti del suk,
a loro
volta, acquistavano gli schiavi dai corsari, al rientro dalle
spedizioni nell’Africa centrale. El Ghazel era
uno degli
anelli di congiunzione di quel “commercio triangolare” che
caratterizzava la tratta degli uomini in catene.
Le
attività dei corsari, però, non si limitavano
alla compra-vendita degli schiavi. Per prima cosa, la “guerra di
corsa” non deve essere confusa con la comune pirateria. Era una
pratica regolata da codici ben precisi, da trattati che ne definivano
zone e obiettivi. Questa attività dominò la scena mediterranea,
almeno nella parte occidentale, dalla battaglia di Lepanto fino alla
conquista di Algeri.
Era
una guerra fatta di saccheggi, assalti
e alleanze, a cui non si sottrassero nemmeno le flotte europee. I
bottini, le mercanzie e i marinai appartenenti alle navi nemiche,
servivano in parte a ripagare gli armatori e in parte venivano divisi
tra l’equipaggio.
I
corsari di Salé si lasciarono dietro
orfani, bastardi, prigionieri, vedove, bionde catturate per sempre,
scribi zoppi e immensi tesori, nascosti da qualche parte nelle
montagne dell’Atlante. Ma soprattutto si lasciarono dietro, ben
ancorati nella memoria popolare, racconti incredibili, storie
favolose che non moriranno mai, interi romanzi scolpiti
nell'immaginario delle folle slaouies, che li tramandano da una
generazione all'altra. (8)
Comincio
ad essere stanco e il mio stomaco avanza
proteste timide, ma inequivocabili. Così propongo una pausa pranzo.
Entriamo in un ristorante alla buona, sporco al punto giusto e non
lontano dalla piazza. Ci dividiamo un tajine di
montone
mezzo bruciacchiato e non troppo speziato. Inebriato dal forte odore
di timo, cerco di saperne di più sul conto di Abdelillah. Siamo
stati assieme quasi quattro ore, abbiamo percorso la medina
in lungo e in largo, abbiamo inseguito assieme i “santi” e i
fantasmi dei vecchi corsari, raccontandoci aneddoti sul passato della
città e dei suoi abitanti. Ora vorrei conoscere un po’ meglio la
storia della mia “guida clandestina”. I segreti che “il
Riccetto” nasconde, dietro al suo volto assolutamente poco
raccomandabile, mi incuriosiscono. Nel corpo porta i segni della
violenza della miseria. Oltre alle cicatrici sulla faccia, ha il
braccio sinistro inciso da decine di tagli.
“Ho
trent’anni e faccio questo lavoro
da quando ne avevo nove. A scuola ci sono andato poco e
malvolentieri. Mia madre, allora, mi mandava a caccia dei rari
stranieri che mettevano piede in città, per fargli fare il giro dei
monumenti. Così portavo a casa qualche soldo”, mi confida tra un
boccone e l’altro.
“Ma
all’inizio conoscevo a malapena i nomi
delle strade. Poi ho capito che se mi fossi impegnato veramente, dai
pochi spiccioli delle mance sarei potuto passare al guadagno vero.
Mio fratello, prima di morire, aveva studiato parecchio e nella sua
casa c’erano ancora un sacco di libri. Li ho presi ed ho iniziato a
leggerli, per imparare più cose possibili sul passato di Salé e del
Marocco in generale”.
Di
nozioni, aneddoti, nomi e dinastie, Abdelillah
ne sa tante, non c’è che dire. Ma essere una guida preparata non
gli basta per assicurare una vita decente alla moglie e al figlio.
Nel corso della chiacchierata, vengo a sapere che per arrotondare si
dedica, di tanto in tanto, al commercio clandestino di hascisc. “Solo
quando gli amici vanno a prenderlo direttamente nelle montagne del
Rif”, tiene a precisare. E non è tutto. Dopo una breve parentesi
in carcere, più o meno cinque anni fa, è diventato un informatore
della polizia. Quelli come lui, da queste parti, si chiamano
“orecchie del potere”.
Così
può portare avanti i suoi piccoli
affari senza problemi, lo spaccio del fumo e il lavoro di faux
guide, due reati per cui sono previste, da
qualche anno,
delle pene piuttosto severe.
Il
tajine è finito e, mentre ci gustiamo
quello che resta del digestivo (un rigoroso tè alla menta),
Abdelillah mi fa capire che per lui è arrivato il momento di andare.
Un sottile invito a mettere mano al portafoglio per dargli quel che
gli spetta. All’inizio del giro, inebriato dall’entusiasmo e
dalle aspettative della ricerca, non avevo pattuito alcuna cifra e
solo adesso mi accorgo del grande errore commesso. Vuole 250 dirham,
più o meno 25 euro, una tariffa da “americani”, secondo il gergo
negoziale. Non ci siamo. Mi preparo ad una contrattazione serrata,
come vuole il costume locale, e non ho alcuna intenzione di cedere.
Le trattative vanno avanti per una mezz’ora, durante la quale il
proprietario del locale ci offre un altro bicchiere di tè.
Alla
fine arriviamo ad un accordo: 100
dirham e mezzo
pacchetto di Gauloises.
L’altro mezzo lo conservo per il ritorno a piedi all'Océan, il
simpatico quartiere di Rabat dove ho trovato casa. Lascerò perdere
il treno e attraverserò il Bouregreg in una delle barchette a remi
che fanno la spola tutto il giorno, per pochi spiccioli, da una riva
all'altra.
Pago
il conto, come stabilito. Lasciamo il
ristorante e ci salutiamo con una calorosa stretta di mano, entrambi
visibilmente soddisfatti. Abdelillah ha guadagnato ampiamente la sua
giornata, ed io sono riuscito a penetrare parte dei misteri e delle
leggende che avvolgono questa città in fondo ignota, soffocata dalla
vicina Rabat e, proprio per questo, incredibilmente "autentica".
Mi
resta ancora un ultimo obiettivo prima di
lasciare Salé. Raggiungere la spiaggia. Il sole è già basso
all’orizzonte. I suoi raggi rimbalzano sulla superficie liscia
dell’Atlantico come saette, mentre alla mia sinistra la casbah,
antichi bastioni a protezione del porto corsaro, risplende di una
luce irreale. Il riflesso del sole ha velato le pareti gialle di una
tinta rossastra. Nella piccola baia, una manciata di barche sta
rientrando adagio verso la foce del fiume.
Pier
Paolo Pasolini si rifugiava ogni sera di
fronte a questo spettacolo, stregato dalla purezza di Salé e dalla
semplicità genuina dei suoi abitanti. Qui aveva trovato dei nuovi
“ragazzi di vita” e l’esaltazione di quel misticismo popolare
descritto con passione nelle prime opere in dialetto friulano. Ora la
mia ricerca è davvero finita. Mi siedo sulla sabbia ancora calda e
aspetto il tramonto in silenzio, come era solito fare il nostro
grande poeta.
*
I brani (1) e (5)
sono tratti da A.
Taïa, Mon Maroc,
Ed. Séguier,
Paris, 2000. I brani (2), (3), (4), (6), (7) e (8) sono tratti da A.
Taïa, Le rouge du
tarbouche,
Ed. Tarik, Casablanca, 2004. Le traduzioni dal francese sono a cura
dell'autore.