A te o Virgilio, poeta sommo dell’aurea età latina,
onore e gloria d'aver cantato la bella storia
dell’ardito greco eroe e della dolente regina.
Di Enea e Didone hai raccontato
e come in loro, da amanti,
felicità s’intrecciò a funesta tragedia.
La fine dello sfortunato amore
fu per lei l'inatteso abbandono,
quando pur tanto bella era,
ancor giovane e di vita piena.
Per lei, allora, ignara della ragion
di quella brusca partenza,
altra gioia più non ci fu,
ma solo disperazione e grave pena.
Anche il mare e la spiaggia, sì incantevoli
in quel luogo ameno, appaiono ora
deserti e desolati: non ci son più, in rada,
né navi né guerrieri, più non si vede
il valoroso condottiero; non si sente il calpestio
dei suoi passi in quei sentieri, gioiosi richiami
per te, Didone, fino all’altro ieri giunti.
Or tutto tace, anche il vento s’è acquetato
per non essere d’intralcio al prorompente
tuo strazio di donna tradita e sfortunata.
Gli agi di tue ricchezze, di dominate terre
e genti, che tuo orgoglio esse furon
in passato tempo, nulla più valgono
in assenza dell’atteso e vissuto amore.
Perché tanta tua bellezza, ora che sei sola,
sprecata sarà dal tempo, che già avanza.
Povera umana creatura, non capirai
del fato il volere, e da tua amara
disperazione cresceranno per te
tristi pensieri di essere nulla,
e per lui verranno grida di rancore,
invettive e funeree maledizioni.
Dei tuoi pensieri, o Enea, non fu
dato nient’altro più sapere:
furon forse essi di doloroso rammarico?
O di tua rea ingratitudine? Oppure
di sofferta e grave accettazione
della grande impresa a te dal fato destinata
e poi, nel suolo italico, confermata?
Mai più lo sapremo, ma di voi
e specie di te, o Didone, un dolce ricordo
alfin serberemo, e negli esempi
di quei sentimenti che pur oggi proviamo
sempre sarete da noi rivissuti.
Testo di Romualdo Guccione