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PINOCCHIO_4
(Testo + Voce narrante)
 





PINOCCHIO:

LE AVVENTURE DI UN BURATTINO(1883)



di Carlo Collodi(1826-1890)

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 Voce di Paolo Poli

 

Il burattinaio Mangiafoco regala cinque monete d’oro a Pinocchio perchè le porti al suo babbo Geppetto: e Pinocchio, invece, si lascia abbindolare dalla Volpe e dal Gatto e se ne va con loro.


Il giorno dipoi Mangiafoco chiamò in disparte Pinocchio e gli domandò:

— Come si chiama tuo padre?

— Geppetto.

— E che mestiere fa?

— Il povero.

— Guadagna molto?

— Guadagna tanto quanto ci vuole per non aver mai un centesimo in tasca. Si figuri che per comprarmi l’Abbecedario della scuola dovè vendere l’unica casacca che aveva addosso: una casacca che, fra toppe e rimendi, era tutta una piaga.

— Povero diavolo! Mi fa quasi compassione. Ecco qui cinque monete d’oro. Va’ subito a portargliele, e salutalo tanto da parte mia. —

Pinocchio, come è facile immaginarselo, ringraziò ringraziò mille volte il burattinaio: abbraccio’, a uno a uno, tutti i burattini della compagnia, anche i giandarmi; e fuori di se’ dalla contentezza, si mise in viaggio per ritornarsene a casa sua.

Ma non aveva fatto ancora mezzo chilometro, che incontrò per la strada una Volpe zoppa da

un piede e un Gatto cieco da tutt’e due gli occhi, che se ne andavano là là, aiutandosi fra di loro, da buoni compagni di sventura. La Volpe che era zoppa, camminava appoggiandosi al Gatto: e il Gatto, che era cieco, si lasciava guidare dalla Volpe.

— Buon giorno, Pinocchio, — gli disse la Volpe, salutandolo garbatamente. — Com’è che sai il mio nome? — domandò il burattino.

— Conosco bene il tuo babbo.

— Dove l’hai veduto?

— L’ho veduto ieri sulla porta di casa sua.

— E che cosa faceva?

— Era in maniche di camicia e tremava dal freddo.

— Povero babbo! Ma, se Dio vuole, da oggi in poi non tremerà più!…

— Perchè?

— Perchè io sono diventato un gran signore.

— Un gran signore tu? — disse la Volpe, e cominciò a ridere di un riso sguaiato e canzonatore: e il Gatto rideva anche lui, ma per non darlo a vedere, si pettinava i baffi colle zampe davanti.

— C’è poco da ridere, — gridò Pinocchio impermalito. — Mi dispiace davvero di farvi venire l’acquolina in bocca, ma queste qui, se ve ne intendete, sono cinque bellissime monete d’oro.

E tirò fuori le monete avute in regalo da Mangiafoco.

Al simpatico suono di quelle monete la Volpe, per un moto involontario, allungò la gamba che pareva rattrappita, e il Gatto spalancò tutt’e due gli occhi, che parvero due lanterne verdi; ma poi li richiuse subito, tant’è vero che Pinocchio non si accòrse di nulla.

— E ora, — gli domandò la Volpe, — che cosa vuoi farne di codeste monete?

— Prima di tutto, — rispose il burattino, — voglio comprare per il mio babbo una bella casacca nuova, tutta d’oro e d’argento e coi bottoni di brillanti: e poi voglio comprare un Abbecedario per me.

— Per te?

— Davvero: perchè voglio andare a scuola e mettermi a studiare a buono.

— Guarda me! — disse la Volpe. — Per la passione sciocca di studiare ho perduto una gamba.

— Guarda me! — disse il Gatto. — Per la passione sciocca di studiare ho perduto la vista di tutti e due gli occhi.

In quel mentre un Merlo bianco, che se ne stava appollaiato sulla siepe della strada, fece il solito verso e disse:

— Pinocchio, non dar retta ai consigli dei cattivi compagni: se no, te ne pentirai!

Povero Merlo, non l’avesse mai detto! Il Gatto, spiccando un gran salto, gli si avventò addosso, e senza dargli nemmeno il tempo di dire ohi, se lo mangiò in un boccone con le penne e tutto.

Mangiato che l’ebbe e ripulitosi la bocca, chiuse gli occhi daccapo e ricominciò a fare il cieco come prima.

— Povero Merlo! — disse Pinocchio al Gatto — perchè l’hai trattato così male?

Ho fatto per dargli una lezione. Così un’altra volta imparerà a non metter bocca nei discorsi degli altri.—

Erano giunti più che a mezza strada, quando la Volpe, fermandosi di punto in bianco, disse al burattino:

Vuoi tu raddoppiare le tue monete d’oro?

Cioè? — Vuoi tu, di cinque miserabili zecchini, farne cento, mille, duemila?

Magari! e la maniera?

La maniera è facilissima. Invece di tornartene a casa tua, dovresti venir con noi.

E dove mi volete condurre?

Nel paese dei Barbagianni. ―

Pinocchio ci pensò un poco, e poi disse risolutamente:

No, non ci voglio venire. Oramai sono vicino a casa, e voglio andarmene a casa, dove c’è il mio babbo che m’aspetta. Chi lo sa, povero vecchio, quanto ha sospirato ieri, a non vedermi tornare. Purtroppo io sono stato un figliuolo cattivo, e il Grillo-parlante aveva ragione quando diceva: «I ragazzi disobbedienti non possono aver bene in questo mondo.» Ed io l’ho provato a mie spese, perchè mi sono capitate molte disgrazie, e anche ieri sera in casa di Mangiafoco, ho corso pericolo… Brrr! mi viene i bordoni soltanto a pensarci!

Dunque, — disse la Volpe — vuoi proprio andare a casa tua? Allora va’ pure, e tanto peggio per te.

Tanto peggio per te! — ripetè il Gatto.

Pensaci bene, Pinocchio, perchè tu dài un calcio alla fortuna.

— Alla fortuna! — ripetè il Gatto.

I tuoi cinque zecchini, dall’oggi al domani sarebbero diventati duemila.

Duemila! — ripetè il Gatto.

Ma com’è mai possibile che diventino tanti? — domandò Pinocchio, restando a bocca aperta dallo stupore.

Te lo spiego subito; — disse la Volpe — bisogna sapere che nel paese dei Barbagianni c’è un campo benedetto chiamato da tutti il Campo dei miracoli. Tu fai in questo campo una piccola buca e ci metti dentro, per esempio, uno zecchino d’oro. Poi ricopri la buca con un po’ di terra: l’annaffi con due secchie d’acqua di fontana, ci getti sopra una presa di sale, e la sera te ne vai tranquillamente a letto. Intanto, durante la notte, lo zecchino germoglia e fiorisce, e la mattina dopo di levata, ritornando nel campo, che cosa trovi? Trovi un bell’albero carico di tanti zecchini d’oro quanti chicchi di grano può avere una bella spiga nel mese di giugno.

Sicchè dunque — disse Pinocchio sempre più sbalordito — se io sotterrassi in quel campo i miei cinque zecchini, la mattina dopo quanti zecchini vi troverei?

È un conto facilissimo; — rispose la Volpe — un conto che puoi farlo sulla punta delle dita. Poni che ogni zecchino ti faccia un grappolo di cinquecento zecchini: moltiplica il cinquecento per cinque, e la mattina dopo trovi in tasca duemilacinquecento zecchini lampanti e sonanti

Oh che bella cosa! — gridò Pinocchio, ballando dall’allegrezza. — Appena che questi zecchini li avrò raccolti, ne prenderò per me duemila e gli altri cinquecento di più li darò in regalo a voialtri due.

Un regalo a noi? — gridò la Volpe sdegnandosi e chiamandosi offesa. — Dio te ne liberi!

Te ne liberi! — ripetè il Gatto.

Noi — riprese la Volpe — non lavoriamo per il vile interesse: noi lavoriamo per arricchire gli altri.

Gli altri! — ripetè il Gatto.

Che brave persone! — pensò dentro di sè Pinocchio: e dimenticandosi lì sul tamburo, del suo babbo, della casacca nuova, dell’Abbecedario e di tutti i buoni proponimenti fatti, disse alla Volpe e al Gatto:

Andiamo subito, io vengo con voi. ―

 

L’osteria del «Gambero Rosso».

 

Cammina, cammina, cammina, alla fine sul far della sera arrivarono stanchi morti all’osteria del Gambero Rosso.

Fermiamoci un po’ qui, — disse la Volpe, — tanto per mangiare un boccone e per riposarci qualche ora. A mezzanotte poi ripartiremo per essere domani, all’alba, nel Campo dei miracoli. —

Entrati nell’osteria, si posero tutt’e tre a tavola: ma nessuno di loro aveva appetito.

Il povero Gatto, sentendosi gravemente indisposto di stomaco, non potè mangiare altro che trentacinque triglie con salsa di pomodoro e quattro porzioni di trippa alla parmigiana: e perchè la trippa non gli pareva condita abbastanza, si rifece tre volte a chiedere il burro e il formaggio grattato!

La Volpe avrebbe spelluzzicato volentieri qualche cosa anche lei: ma siccome il medico le aveva ordinato una grandissima dieta, così dovè contentarsi di una semplice lepre dolce e forte, con un leggerissimo contorno di pollastre ingrassate e di galletti di primo canto. Dopo la lepre si fece portare per tornagusto un cibreino di pernici, di starne, di conigli, di ranocchi, di lucertole e d’uva paradisa; e poi non volle altro.

Aveva tanta nausea per il cibo, diceva lei, che non poteva accostarsi nulla alla bocca.

Quello che mangiò meno di tutti fu Pinocchio. Chiese uno spicchio di noce e un cantuccino di pane e lasciò nel piatto ogni cosa. Il povero figliuolo, col pensiero sempre fisso al Campo dei miracoli, aveva preso un’indigestione anticipata di monete d’oro.

Quand’ebbero cenato, la Volpe disse all’oste:

Datemi due buone camere, una per il signor Pinocchio e un’altra per me e per il mio compagno. Prima di ripartire stiacceremo un sonnellino. Ricordatevi, però, che a mezzanotte vogliamo essere svegliati per continuare il nostro viaggio.

Sissignore — rispose l’oste, e strizzò l’occhio alla Volpe e al Gatto, come dire: « Ho mangiato la foglia e ci siamo intesi!… » —

Appena che Pinocchio fu entrato nel letto, si addormentò a colpo, e principiò a sognare. E sognando gli pareva di essere in mezzo a un campo, e questo campo era pieno di arboscelli carichi di grappoli, e questi grappoli erano carichi di zecchini d’oro che, dondolandosi mossi dal vento, facevano zin, zin, zin, quasi volessero dire: « Chi ci vuole, venga a prenderci. » Ma quando Pinocchio fu sul più bello, quando cioe allungò la mano per prendere a manciate tutte quelle belle monete e mettersele in tasca, si trovò svegliato all’improvviso da tre violentissimi colpi dati nella porta di camera.

Era l’oste che veniva a dirgli che la mezzanotte era sonata.

— E i miei compagni sono pronti? — gli domandò il burattino.

Altro che pronti! son partiti due ore fa.

Perchè mai tanta fretta?

Perchè il Gatto ha ricevuto un’imbasciata

che il suo gattino maggiore, malato di geloni ai piedi, stava in pericolo di vita.

E la cena l’hanno pagata?

Che vi pare? Quelle lì sono persone troppo educate, perchè facciano un affronto simile alla signoria vostra. [p. 76 modifica]— Peccato! Quest’affronto mi avrebbe fatto tanto piacere! — disse Pinocchio, grattandosi il capo. Poi domandò:

E dove hanno detto di aspettarmi quei buoni amici?

Al Campo dei miracoli, domattina, allo spuntare del giorno. ―

Pinocchio pagò uno zecchino per la cena sua e per quella dei suoi compagni, e dopo partì.

Ma si può dire che partisse a tastoni, perchè fuori dell’osteria c’era un buio così buio, che non ci si vedeva da qui a lì. Nella campagna all’intorno non si sentiva alitare una foglia. Solamente alcuni uccellacci notturni, traversando la strada da una siepe all’altra, venivano a sbattere le ali sul naso di Pinocchio, il quale, facendo un salto indietro per la paura, gridava: — Chi va là? — e l’eco delle colline circostanti ripeteva in lontananza: — Chi va là? chi va là? chi va là?

Intanto, mentre camminava, vide sul tronco di un albero un piccolo animaletto, che riluceva di una luce pallida e opaca, come un lumino da notte dentro una lampada di porcellana trasparente.

Chi sei? — gli domandò Pinocchio.

Sono l’ombra del Grillo-parlante, — rispose l’animaletto con una vocina fioca fioca, che pareva venisse dal mondo di là.

Che vuoi da me? — disse il burattino.

— Voglio darti un consiglio. Ritorna indietro e porta i quattro zecchini, che ti sono rimasti, al tuo povero babbo, che piange e si dispera per non averti più veduto.

Domani il mio babbo sarà un gran signore, perchè questi quattro zecchini diventeranno duemila.

Non ti fidare, ragazzo mio, di quelli che promettono di farti ricco dalla mattina alla sera. Per il solito o sono matti o imbroglioni! Dài retta a me, ritorna indietro.

E io invece voglio andare avanti.

L’ora è tarda!…

Voglio andare avanti.

La nottata è scura…

Voglio andare avanti.

La strada è pericolosa…

Voglio andare avanti.

Ricordati che i ragazzi che vogliono fare di loro capriccio e a modo loro, prima o poi se ne pentono.

Le solite storie. Buona notte, Grillo.

Buona notte, Pinocchio, e che il cielo ti salvi dalla guazza e dagli assassini. ―

Appena dette queste ultime parole, il Grillo-parlante si spense a un tratto, come si spenge un lume soffiandoci sopra, e la strada rimase più buia di prima.

Intanto cominciava a baluginare il giorno e si trovò improvvisamente sbarrato il passo da un fosso largo e profondissimo, tutto pieno di acquaccia sudicia, color del caffè e latte. Che fare? « Una, due, tre! » gridò il burattino, e slanciandosi con una gran rincorsa, saltò dall’altra parte. E gli assassini saltarono anche loro, ma non avendo preso bene la misura, patatunfete!… cascarono giù nel bel mezzo del fosso. Pinocchio che sentì il tonfo e gli schizzi dell’acqua, urlò ridendo e seguitando a correre

Buon bagno, signori assassini. ―

E già si figurava che fossero bell’e affogati, quando invece, voltandosi a guardare, si accòrse che gli correvano dietro tutt’ e due, sempre imbacuccati nei loro sacchi, e grondanti acqua come due panieri sfondati.

 

 

 
     
Edizione RodAlia - 01/10/2021
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