NON SMETTE DI PIOVERE Primo festival italo marocchino, a Venezia
Non smette di piovere Mario Anton Orefice
di MARIO ANTON OREFICE
Una pioggia leggera e
tenace bagna i masegni di Piazza San Marco in questo mercoledì giugno. La bandiera italiana e quella marocchina sventolano insieme per l'apertura del primo Festival italo-marocchino. Sotto i portici delle Procuratie un viavai di persone, l'impazienza prima che si apra il sipario, la speranza che smetta di piovere. I gruppi in costume accordano gli strumenti, accennano qualche motivo tradizionale.
Abdallah e Antonio sono emozionati e corrono da una parte all'altra dispensando sorrisi, risposte, e gli ultimi suggerimenti. Anche loro guardano spesso il cielo. Una coppia strana, Abdallah Kherzraji, nato a
Safi, mediatore culturale e presidente del circolo culturale Hilal in viale Monfenera a Treviso, e Antonio Calò, nato a Barletta, professore di storia e filosofia al Liceo classico Canova di Treviso.
In attesa che smetta di piovere si potrebbe cominciare proprio da loro due, come si sono conosciuti un immigrato e un professore? Certo le parole non aiutano, immigrato indica già qualcuno che nella storia non si porta appresso una buona fama, l'immigrante, l'extra-comunitario, da sempre è
stato ritratto come un poveraccio con le valigie di cartone o con i sacchetti di plastica. Sarebbe forse meglio usare per tutti la nazionalità , in questo caso un marocchino e un italiano, ma facendo così si perde una parte della storia. Forse è più interessante capire il perchè, un perchè che si riflette nelle loro biografie come i contorni delle nuvole sui masegni bagnati dalla pioggia.
Abdallah è nato a Safi nel 1966, arriva in Italia all'inizio degli anni Novanta, il primo domicilio sono le tende che la Caritas ha allestito nel quartiere San Paolo.
Dopo un impiego come operaio in un'azienda tessile, comincia a interessarsi dei problemi degli immigrati, entra in contatto con varie associazioni e dimostra di essere un mediatore in gamba.
L'interesse per l'altro è uno dei suoi chiodi fissi, come il desiderio di far conoscere la cultura del suo paese agli italiani che incontra lungo la sua strada. A metà
degli anni Novanta fonda il circolo culturale Hilal (in arabo vuol dire mezzaluna) in Viale Monfenera che oggi conta 500 iscritti. Un angolo di Marocco lungo le mura di Treviso, qui è possibile sorseggiare un tè¨ alla menta, degustare il couscous e ascoltare la musica gnawa. E' vicepresidente della consulta regionale per l'immigrazione che rappresenta 530.000 migranti, è conosciuto a livello nazionale per i suoi interventi di mediazione.
Antonio Calò, invece è nato a Barletta il 7 novembre del 1961. Dopo aver conseguito due lauree, una in filosofia con la tesi Il progresso e la filosofia della storia in Condorcet, e una in teologia con la tesi Il significato e il problema della retribuzione in Giobbe,inizia la sua carriera di insegnate e nello stesso tempo coltivaun' intensa attività culturale come direttore scientifico dell'associazione culturale Jacques Maritain e come consulente di progetti interculturali sulle radici comuni dei cittadini europei.
A pensarci bene c'è una cosa che li collega fin dalla nascita, un mare che dovrebbe rendere paesani spagnoli e greci, marocchini e italiani, il Mediterraneo, il mare dell'Odissea o delle Odissee, con i suoi confini da raggiungere e superare, quel viaggio da compiere per tornare a casa. Forse è per questo che si sono incontrati una sera di aprile del 2010 al circolo Hilal. A presentarli Guido Gasparin, Presidente della cooperativa Solidarietà , una realtà unica nel panorama italiano, un villaggio dove convivono famiglie normali,famiglie di immigrati (Abdallah vi abita con la sua famiglia dal 1990),
una casa accoglienza, un ostello della gioventù, appartamenti per ragazze madri in difficoltà e, tra un pò, anche un gruppo di anziani autosufficienti. Un villaggio di umanità e fratellanza nel cuore di Treviso.
Davanti ad una tajine di mandorle e pollo, racconta Antonio Calò, ho incontrato una grande persona, un uomo orgoglioso ma anche umile e capace come pochi altri di tessere relazioni e di riunire attorno ad una tavola culture diverse. Mi espose la sua idea di festa italomarocchina e mi racconta la sua vita: all'inizio mille modi per sbarcare il lunario, poi il tempo dedicato ai connazionali, le relazioni
con gli enti pubblici e gli organi di polizia, la creazione del circolo Hilal. Mi parlò del cous cous più grande del mondo, dell'incontro fra musica andalusa e musica marocchina, ma mi fece anche capire che aveva bisogno di un compagno di viaggio, di qualcuno con cui sviluppare e
discutere il progetto. Gli dissi che l'idea mi piaceva ma che era essenziale coinvolgere le istituzioni ai più alti livelli perchè giocano un ruolo fondamentale nell'incontro fra popoli diversi.
Non ha smesso di piovere, aspettare ancora non ha senso. A nome del comune di Venezia prende la parola l'assessore alla cultura Roberto Panciera che comunica anche l'importante riconoscimento del presidente della Repubblica Giorgio Napolitano al professor Calò: una medaglia di
rappresentanza per l'organizzazione del primo festival italo
marocchino. E' poi la volta dell'ambasciatore del Marocco Hassan Abouayoub che augura un continuo sviluppo dei rapporti tra i due paesi.
La festa può cominciare. La musica del bendir e del rebab accompagnano un corteo matrimoniale, simbolo dell'incontro fra Italia e Marocco. Si procede in circolo fra gocce di pioggia e sorrisi, tanti sorrisi, la sposa indossa un prezioso abito bianco con i ricami dorati ed è portata
a spalla su un lussuoso trono decorato, lo sposo la segue a piedi in una jellaba bianca. Il corteo anima la piazza, come un camaleonte inaspettato si muove lungo i bordi pronto a ritirarsi con il crescere della pioggia. Viene da pensare a un quadro, al titolo di un quadro che non esiste: Danza della sposa in piazza San Marco. Viene da pensare
anche a quanto sia stupido chi pensi di essere migliore dell'altro. Italia e Marocco sono paesi che hanno grandi questioni aperte. In Marocco Tahar Ben Jelloun scrive I problemi sono numerosi: primo fra
tutti, il flagello della corruzione. L'accattonaggio è una piaga; il Ministero dello sviluppo sociale ha censito 200.000 mendicanti, 120.000 dei quali professionisti. Ma la cosa ancora più grave è l'assenza di
una cultura dell'uguaglianza, un anafalbetismo scandaloso (il tasso più alto nel mondo arabo), una crisi costante dell'educazione nazionale, un sistema della salute pubblica misero che offre grandi opportunità alle carissime cliniche private e una giustizia che, a causa della corruzione, non riscuote la fiducia dei più disagiati. L'Italia, dal
canto suo, se dovesse dedicare un monumento alle vittime del
terrorismo, delle stragi, dei delitti di mafia, avrebbe bisogno di un luogo simile al Vietnam Veterans Memorial di Washington: un muro con migliaia di nomi. E' una storia, quella della nostra democrazia, piena di punti interrogativi, di contatti con la mafia e di false verità che fanno venire i brividi. Il suono ipnotico dei qraqb della musica gnawa risuona sotto le Procuratie, una folla italomarocchina forma un cerchio intorno ai musicisti, la festa continua così come la pioggia che non ha
smesso per un attimo.
Non sei abbastanza vicino.
Robert Capa diceva "Se le tue
fotografie non sono abbastanza buone non sei abbastanza vicino. Per capire un fenomeno, per comprendere un popolo, non hai altra possibilità , devi avvicinarti, devi mangiare e cantare assieme a loro.
Il quattordici giugno è una di quelle giornate così calde che seduti nel Frecciabianca non si può fare a meno di sentire la lamiera rovente e abbacinata dal sole, e presagire l'aria calda come un phon che ci
investirà appena scesi dal treno. L'appuntamento con la Fiera marocchina è a Verona, ore sedici Bastione Santo Spirito: ricostruzione di un villaggio berbero con suk e rassegna d' artigianato. Abdallah non è ancora arrivato, è rimasto bloccato in autostrada tra Mestre e Padova
est per un problema al sistema di alimentazione. Con lui ci sono gli ospiti marocchini. In soccorso è partito subito Antonio Calò. Arrivano stanchi ed affamati. Alla ricerca di un panino lungo l'assolata via Magenta, finiamo nel bar di Enea Cipollini, barista scrittore poeta. Un gigante dai modi bruschi e voce stentorea. Cipollini, a dispetto del
mite e giocoso cognome, non invita ordina: "Scegliete il tavolo che volete, qui è tutta roba fresca. Chi si aspetta sorrisi e gentilezza rimane deluso, ma alla fine Enea con la sua barba e i capelli bianchi raccolti in un piratesco codino ha solo voglia di raccontare la sua vita in giro per il mondo e le delusioni ricevute da uomini e da letterati. Come molti, ha deciso di pubblicare e vendere in proprio i
suoi libri che fanno capolino tra le bottiglie di Biancosarti e Long John: Aspettando domani, Ieri, seimila anni fa.
Pubblica anche in rete.
Sono milioni le persone che come lui scrivono su blog e social media, un'esplosione della scrittura, della registrazione. Per narcisismo ma anche per sopravvivere, per lasciare una traccia dopo di noi, una sorta di esistenza ultraterrena, forse l’unica possibile, certo non quella
che ci piaceva immaginare da bambini, quel luogo dove rincontrare le persone care e in cui i cattivi soffrono le pene dell’inferno.
Il profumo del tè alla menta conduce attraverso il piccolo suk creato all'ombra delle mura: le teiere in alpaca cesellate a mano con il bulino, le scacchiere di cedro intagliate nelle botteghe di Fes, gli specchi e i piatti in rame, i portagioie abbelliti da intarsi geometrici, le vecchie lanterne di Rabat e i tappeti delle regioni dell'Atlante impreziositi da disegni di piante, erbe, colori dei paesaggi di provenienza, e simboli come l'occhio del profeta, la mano di Fatima, la kasba, le dune. Figure di donne compongono la trama aiutandosi con un legno d'olivo. Una volta, era tradizione che prima del matrimonio le ragazze regalassero al futuro marito il kilim creato
con le loro mani, era una lettera d'amore alla quale il corteggiato doveva rispondere senza poter vedere la ragazza. Sotto la tenda berbera.
Hasan prepara il tè alla menta, un rito antico che in attimo conduce la fantasia a ripercorrere le piste delle carovane nel deserto e a immaginare notti a tu per tu con le stelle. Anche in casa del professor Antonio Calò il tè è un rito, si prende intorno alle cinque del pomeriggio circondati dai libri della biblioteca: migliaia di libri hanno sostituito le pareti, per la maggior parte scritti e saggi
filosofici e storici. Tra i dorsi La questione della colpa di Jaspers, con parole che potrebbero stare all'inizio di qualsiasi incontro fra culture diverse: Cogliere quanto c'è di comune tra la nostra tesi e quella di chi ci contraddice, importa più che fissare affrettatamente punti di vista esclusivi con i quali si conclude come inutile la conversazione. E' così facile difendere appassionatamente da giudizi decisi; difficile è anti; difficile invece penetrare al fondo della verità instancabilmente, al dilà di ogni asserzione. E' facile farsi un'opinione qualsiasi e irrigidirsi in essa, per risparmiarsi la fatica di rifletterci ancora; difficile è invece avanzare passo passo, e non rifiutarsi mai di investigare ancora. Dobbiamo ristabilire la disponibilità alla riflessione.
A questo scopo non dobbiamo inebriarci con sentimenti di superbia, di disperazione, di ribellione, di ostinazione, di vendetta o di disprezzo. E'invece necessario che questi sentimenti vengano accantonati, perchè si possa guardare alla realtà. Ma, a proposito di questo discutere insieme, vale anche il contrario: E'facile pensare senza mai compromettersi e impegnarsi; ma è difficile prendere la
decisione vera, quando il nostro pensiero è aperto a tutte le possibilità e se ne rende conto chiaramente. E'facile evitare ogni responsabilità a furia di bei discorsi; è difficile mantenere la propria decisione ma senza testardaggine. E'facile arrendersi alla minima resistenza, secondo la situazione; E difficile, una volta presa
una decisione incondizionata, tenere il cammino prescelto nonostante la volubilità e l'elasticità del pensiero.
Quando noi riusciamo veramente a parlarci l'uno con l'altro ci muoviamo appunto nel dominio delle origini. A tal fine deve rimanere in noi sempre qualche cosa che ci faccia avere fiducia negli altri e ci faccia meritare la fiducia degli
altri. Allora soltanto si rende possibile, nel dialogo,
quella quiete nella quale si ascolta e si sente in comune quello che vero. Per tutto questo vogliamo evitare di irritarci gli uni contro gli altri. Cerchiamo invece di trovare insieme la via. La passione testimonia a sfavore della verità di chi parla. Non vogliamo percuoterci pateticamente il petto in segno di innocenza, per poter
offendere gli altri. Ma non debbono sussistere limitazioni, che derivino da una riguardosa riservatezza. Non bisogna tacere per mitezza d'animo o illudere per consolare. Non c'è¨ alcuna domanda che non debba essere posta, alcuna cara vecchia ovvietà, alcun sentimento, alcuna menzogna vitale che dobbiamo salvaguardare. Ma a maggior ragione poi
non ci si deve permettere di colpirci sfrontatamente sul viso con giudizi provocatori, privi di fondamento e fomulati alla leggera. Noi apparteniamo gli uni agli altri; dobbiamo sentire la nostra situazione comune, quando discutiamo insieme. In un parlare di tal genere nessuno
è giudice dell'altro.
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Ciascuno è nello stesso tempo accusato e
giudice.†“La disposizione mentale a considerare gli uomini col-
lettivamente, a caratterizzarli e giudicarli in blocco, è oltremodo
diffusa. Caratteristiche di tal genere – ad esempio dei tedeschi, dei
russi, degli inglesi – non riguardano mai concetti di genere sotto i
quali possano venire sussunti i singoli uomini, ma indicano solamente
il tipo, a cui essi più o meno possano corrispondere. Questa confusione
tra una concezione basata sui generi e una basata sulle tipologie è il
segno del pensare in base a delle collettività : i tedeschi, gli
inglesi, i norvegesi, gli ebrei – e così via: i frisi, i bavaresi –
oppure: gli uomini, le donne, i giovani, i vecchi.
Il fatto che grazie
alla concezione tipologica si viene pure a
cogliere qualche cosa di vero, non deve farci credere di aver compreso
in tutto e per tutto ogni singolo individuo, quando lo con- sideriamo
designato da quelle caratteristiche generali. Questa è una forma
mentale che, attraverso i secoli, si trascina come un mezzo per
determinare l’odio reciproco fra i popoli e i gruppi umani. Questa
forma mentale, che dai più viene considerata purtroppo come ovvia e
naturale, i nazionalsocialisti l’hanno applicata nella maniera peggiore
e attraverso la loro propaganda fatta entrare nelle teste quasi a
martellate. Era come se non ci fossero più uomini, ma soltanto appunto
quelle collettività . Non c’è mai un popolo che sia un tutto unico.†“Il
tè non si dovrebbe mai prendere con lo zucchero†raccomanda Antonio
Calò mentre cerca sulla sua affollata scrivania il documento che dà il
via al coinvolgimento delle istituzioni nel Primo Festival
italomarocchino, la lettera del 20 gennaio 2011 al Presidente della
Repubblica Giorgio Napolitano. “Contemporaneamente abbiamo contattato,
e quando è stato possibile incontrato, i sindaci e i presidenti di
provincia delle città coinvolte: Venezia, Padova, Verona, Vicenza,
Treviso Belluno.
Man mano che procedevamo nella costruzione del
festival, sentivamo la necessità di aprire un dialogo nuovo nei metodi
e nei contenuti con le istituzioni, un percorso che portasse ad uno
sguardo diverso. Sentivamo che questa volta la cultura e la storia del
Marocco bussavano alle porte dell’Italia in maniera diversa. E ce ne ha
dato conferma il Presidente della Repubblica che rispondendo attraverso
l’ambasciatore Stefano Stefanini alla mia richiesta ha parlato di
“nuovi italianiâ€. “Io e Abdallah abbiamo viaggiato molto in treno e in
macchina, se penso alle ore trascorse insieme è una vita; abbiamo avuto
modo di riflettere e di conoscerci. Lungo il cammino abbiamo incontrato
alleati, sostenitori, ma anche scettici, persone che ci guardavano
dall’alto verso il basso, che giudicavano il festival un’iniziativa
fallimentare e a cui dava fastidio che ci presentassimo insieme:
l’italiano e il marocchino. La nostra compresenza ha persuaso i nostri
interlocutori a impegnarsi per un festival nel quale ognuna delle due
comunità si sarebbe presentata con il proprio volto.â€
In scena ora c’è un pianoforte,
un contrabbasso, il controtenore Matteo Gobbo Trioli e la soprano Lieta
Naccari, la musica è diventata un’altra cosa, è diventata
individualista, a tratti gara di bravura fra singoli, sulle note di Un
bacio ancor si capisce che siamo pervasi d’amore, non sempre platonico,
per noi stessi prima che per dio, poi per l’altro da sedurre, poi,
forse alla fine, ci ricordiamo che sopra di noi c’è qualcuno. Ma il
potere della musica è proprio di essere un linguaggio universale, così
la serata scorre come un unicum fra note ed applausi. Ce ne vorrebbero
molte di più di serate come questa.
Dino Buzzati forse
avrebbe apprezzato la performance Vento extra – migranti ieri, oggi
domani di Jolanda Martini, svoltasi a villa Buzzati. Sono giovani,
hanno la pelle scura, gli zaini della scuola in spalla e danzano a
torace scoperto al ritmo delle bacchette che picchiano sulle bottiglie
vuote e delle mani che battono a tempo, poi si dividono in due gruppi,
e da una parte qualcuno sposta delle piccole barche di carta legate a
fili sottili. Alcune in questo viaggio da una sponda all’altra si
rovesciano in un deserto d’acqua. Malika Mokkedem nel suo ultimo
romanzo La desiderance, racconta la storia di un amore spezzato da
questo sogno: lui muore nella speranza di attraversare il Mediterraneo,
lei lo apprende da una telefonata della guardia costiera e si mette
alla ricerca dei responsabili. In una sua intervista ha detto: “Durante
i miei primi diciassette anni di vita in Francia ho passato tutte le
estati a navigare. Alla fine degli studi ho persino solcato il
Mediterraneo per sei mesi di fila con il progetto di un viaggio attorno
al mondo in barca a vela. Mollare gli ormeggi, staccarsi dal molo
allontanando la barca con il piede, prendere il mare mi dava una
vertiginosa sensazione di libertà , sommata ad un piacere atavico.
Il
Mediterraneo si offriva a me come un cuore che batte tra le due rive
della mia sensibilità . Ed è a forza di frequentare il mare aperto che
ho trovato il senso della parola infinito: l’infinito è la libertà .â€
Chi riesce ad attraversare il Mediterraneo, anche con mezzi diversi dal
barcone, trova comunque paesi che sull’accoglienza e sull’integrazione
hanno notevoli lacune. È quanto emerso nell’altro appuntamento
bellunese del Festival, la tavola rotonda svoltasi al Centro diocesano
sul tema dell’emigrazione e alla quale hanno partecipato Abdellatif
Maazouz, Ministro delegato dell’immigrazione del Marocco, Oscar De
Bona, ex Assessore regionale dei flussi migratori, Daniele Stival,
attuale Assessore regionale dei flussi migratori, Gioachino Bratti,
Presidente dell’associazione Bellunesi nel mondo, il professor Khalid
M. Rhazzali, dipartimento di Sociologia dell’Università di Padova, il
dottor Moulay Zidane El Amrani, moderatore. Di particolare interesse
gli interventi di Rhazzali e di Kaoutar Badrane, una giovane
avvocatessa italomarocchina intervenuta con grande energia al termine
dell’incontro.
Per Rhazzali: Il festival è un caso di studio
sociologico, è promosso da alcuni amici italiani ed
altri marocchini che rivendicano la loro italianità . La politica ha
bisogno di narrazioni come questa per elaborazioni nuove. Trovo molto
importante che quest’iniziativa sia nata a Nordest con un sovvertimento
dei rapporti centro-periferia. Riconoscere il locale è come uscire da
uno stigma in un Veneto che non ha un vero centro metropolitano ma è un
aggregato di città medie. Distribuire le attività culturali sul
territorio arrivando fino a Belluno, è sicuramente faticoso ma se uno
ci cre- de riesce a conservare una dimensione culturale. Altrettanto
importante è il rapporto tra il gruppo che ha dato vita al festival
italo-marocchino e l’associazione che supporta il festival in Marocco,
è un modo interessante di sviluppare una diplomazia parallela, un nuovo
modo di stare nella globalizzazione, di innescare nuove relazioni su
nuove frontiere, di muoversi in diversi contesti con serietà politica e
istituzionale. Al centro del festival c’è la cultura, intesa non solo
come folclore ma come confronto. Per molto tempo abbiamo confuso la
cultura con l’arte locale, l’abbiamo interpretata in termini
etnicizzati, l’abbiamo cioè sostituita con l’appartenere a qualche
posto. È d’altra parte vero che chi vive una storia di immigrazione
tende a mettere al primo posto l’appartenenza. Viviamo in un’epoca in
cui i flussi migratori sono processi rapidi, globalizzati,
femminilizzati e ad alta differenziazione: 350 provenienze etniche.
Racconto un piccolo episodio personale. Rientravo in Marocco
con dei colleghi di Fes; all’aeroporto di Bergamo ci hanno divisi per
il controllo con il metal detector: una fila per l’area Schengen,
l’altra per gli extracomunitari. Io che viaggio con un passaporto
tedesco mi sono messo nella fila dell’area Schengen, ma un poliziotto
nonostante questo insisteva a chiedermi di cambiare fila dicendo che
non potevo stare nella fila degli italiani, a quel punto ho tirato
fuori l’altro passaporto, quello italiano. C’è necessità di cambiare
categorie di pensiero, altrimenti come si fa a passare la frontiera?â€
“Non siamo di seconda
generazione, siamo italianiâ€
Le immagini a volte sono un po’
sfocate, ma la scritta bianca su tabellone verde si legge molto bene
Capaci. Gli studenti di Neokaravan nel loro viaggio verso il Marocco
hanno fatto tappa anche a Palermo e hanno ricordato uno degli episodi
più inquietanti della storia italiani. Sabato 14 aprile 2012 sei
studenti del Master Mim dell’Università Ca’ Foscari di Venezia sono
partiti per il Marocco accompagnati da professori universitari,
rappresentanti del festival, e dalla più importante e influente
associazione per lo sviluppo sostenibile del Marocco Ribat al Fath, che
ha coordinato e gestito appuntamenti di approfondi- mento degli aspetti
socio-culturali e antropologici nelle città di Casablanca, Rabat,
Tangeri, Fès, Meknes, Volubilis, Safi, Essaouira, Marrakech, Tantan e
Lâayoune. A maggio la Carovana è ripartita da Palermo con l’aggiunta di
sei studenti marocchini dell’Università “Mohamed V†di Rabat. Le tappe
italiane sono state: Messina, Cosenza, Napoli, Roma, Firenze, Genova,
Torino, Milano, Bologna e infine Venezia. Nelle piazze delle cittÃ
visitate si sono svolti dibattiti con le istituzioni locali, con le
organizzazioni, gli enti e le associazioni di volontariato. Attraverso
l’incontro con le comunità di marocchini residenti si è approfondita la
dimensione del migrante e il suo rapporto con la società ospitante.
Tra
i principali promotori di Neokaravan Giovanni De Luca direttore della
sede Rai di Venezia: “Abbiamo iniziato a parlare di questa avventura
fra un tè alla menta e un bicchiere di rosso, e non è un caso. I
contenuti culturali sono più importanti di quelli economici, sono i
primi a modellare i secondi. E noi in questo momento dobbiamo essere
capaci di ripensare il modello culturale:
confrontarci con la nostra storia e con quella degli altri per
interpretare il mondo. Neokaravan e il festival ci ricordano che una
gran parte della nostra cultura viene dalle civiltà persiana e araba,
mentre i soldì quelli sì li abbiamo inventati noi, le prime lettere di
credito risalgono ai tempi delle crociate. Ma l’Europa senza l’altra
sponda del Mediterraneo non esisterebbe. Come il Veneto è legato per
sempre a Canada, Australia, Sudamerica, lì esistono ancora comunità di
emigranti che parlano dialetti scomparsi. La Rai come servizio pubblico
in questo scenario ha un compito preciso. Come negli anni del boom
trasmise un linguaggio comune a tutto il paese, oggi il suo impegno è
quello di diffondere la consapevolezza che la geometria, l’algebra, la
poesia e molto del nostro sapere proviene dall’altra sponda del
Mediterraneo. Il documentario Neokaravan che racconta questo
straordinario viaggio fra Italia e Marocco, per la regia di Piergiorgio
Casagrande, è stato prodotto per Rai Scuola e andrà in onda anche su
Rai Tre. È un film che ci fa capire che la nostra è una storia
condivisa.â€
L’agenzia
marocchina per gli investimenti, con cui siamo in ottimi rapporti, ha
aperto di recente un ufficio a Roma, a conferma di un trend in
crescita. Solo un esempio, a Tangeri, a 14 chilometri dall’Europa, si
sono create infrastrutture portuali strategiche per un mercato globale.
I settori vincenti sono edilizia, logistica, ambiente, turismo. E,
fattore da non trascurare, la gente è amichevole e disponibile a
proporre soluzioni che da altre parti sono più difficili da
realizzareâ€.
"Una storia che bussa
in modo diverso"
Antonio Calò si
muove tra le tende del Bastione Santo Spirito a Verona come se fosse a
Marrakesh. Insieme prendiamo un tè e inizia a raccontare questa
straordinaria avventura. “Tra le tante cose su cui ci soffermavamo
c’era lo stupore di molti dei nostri interlocutori, era come se la
richiesta implicita di guardare ai marocchini in modo diverso, non come
forza lavoro, o come fonte di problemi, ma come cultura li spiazzasse.
Era la storia di un popolo che bussava in modo diverso, per chiedere
qualcos’altro. Che poi questa richiesta venisse da un professore
italiano e da un immigrato marocchino era scomodo sia per gli italiani
che per i marocchini. Man mano che parlavamo con le istituzioni di
questo evento organizzato insieme ai nuovi italiani, come li chiama
Napolitano, i nostri partner si rendevano conto che non sarebbe stata
la solita festicciola, ma che assumeva una connotazione importante con
la partecipazione della Rai, dell’Università , degli enti pubblici.
Abbiamo viaggiato molto insieme io e Abdallah, una persona verso la
quale ho una stima profonda. Nella sua storia personale ha raggiunto
dei ruoli importanti, se volesse fondare un partito sono sicuro che
sarebbe eletto; è una persona di grande orgoglio con una vita non
facile alle spalle, ma sbarcare il lunario nei primi anni qui in Italia
ha rafforzato la sua qualità innata di leader e mediatore, di uomo che
ogni giorno dedica moltissimo del suo tempo ai problemi degli
immigrati. Ci sono situazioni complicate legate a suoi connazionali che
si sono risolte grazie al suo intervento. Mi ha sempre colpito la sua
capacità di relazione.
A un certo punto della sua vita ha avviato un
ristorante, che è poi diventato un circolo culturale, quest’idea del
dialogo dell’incontro è sempre stata in lui, mettere le persone intorno
ad un tavolo per dialogare, è un catalizzatore straordinario. Anche la
sua scelta di vivere nel centro della cooperativa Solidarietà , un luogo
straordinario in cui sono a contatto anziani, disabili, ragazze madri,
extracomunitari, va in questa direzione. Le prime volte che abbiamo
parlato del festival le idee erano abbastanza vaghe, poi si sono
definite identificando luoghi e persone. Proprio i tavoli del circolo
Hilal sono stati testimoni di tanti incontri, anche con persone che la
pensavano diversamente da noi. C’è però stato un momento decisivo, un
momento in cui ho capito che mi sarei dedicato anima e corpo a questa
iniziativa. È quando Abdallah mi ha presentato il dottor Bennani,
Consigliere del Re e presidente della più importante associazione
marocchina, Ribat al Fath, che ha garantito il suo pieno appoggio
all’iniziativa. Con il dottor Bennani abbiamo incontrato varie figure
istituzionali, dal Questore al Sindaco di Treviso, ed entrambi abbiamo
assistito alla qualità dei riconoscimenti che le autorità dedicavano ad
Abdallah. Il primo passaggio tecnico sul versante italiano è stato
quello di informare il Presidente della Repubblica, i sei sindaci delle
città principali, i cinque presidenti della Provincia, la Giunta
regionale. Nei mesi dedicati alla preparazione dell’evento abbiamo
avuto contatti anche con Amato e con Cacciari.
Arriva anche Abdallah, parla in arabo, alle volte in
francese al cellulare e prende posto accanto a noi, è felice: “Con
grande impegno, con gli amici, un po’ alla volta, siamo riusciti a
realizzare il 70 per cento di quello che avevamo progettato. L’idea
della carovana è stata una bella idea ma i finanziamenti erano
insufficienti e per quanto riguarda la logistica abbiamo dovuto
arrangiarci. Un primo gruppo di studenti italiani ha attraversato il
Marocco, un secondo gruppo di studenti marocchini è partito da Palermo
e ha raggiunto Torino. Per rendere possibile l’impresa ci siamo in
parte autofinanziati dimostrando che se si crede davvero in una cosa la
si realizza. Dal punto di vista economico siamo riusciti a organizzare
il festival in un mese e mezzo grazie a sponsor come Came e Unicredit
che ci hanno dato fiducia.
Mario Anton Orefice
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