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Ambito di Ricerca:Tracce di storia locale
   
ANTICHE MEMORIE SICILIANE
di Romualdo (detto Aldo)
 

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GLI ANNI '50 / '60, TRANSIZIONE DI UN ' EPOCA NELLA SICILIA DELL' ENTROTERRA.



 

Le prime avvisaglie di cambiamento ci furono agli inizi degli anni ‘50, quando la corrente elettrica passò dal voltaggio 180 a quello di 220.

 

Negli anni seguenti iniziò, il lento abbandono di inveterate abitudini, come quella di utilizzare legna e carbone come combustibile nell’uso della cucina, dove c’era sempre fumo. Era arrivato il gas in bombole di 10/15 kg. e con esso le cucine, costituite da un supporto metallico, smaltato di bianco e normalmente a tre fuochi.

 

Dal variare del colore della fiamma, dall’azzurro al rossiccio, si capiva che il gas stesse finendo. Era questo il momento d’obbligo per provvedere ad una repentina sostituzione della bombola, specialmente se capitava quando il contenuto di una pentola fosse a metà cottura. Averne di scorta qualcuna era un lusso che pochi si potevano permettere, e , pur avendola, era d’obbligo affidarne la sostituzione alle mani di un cosiddetto “esperto”, che si limitava a seguire con maggior attenzione le operazioni di collegamento, non trascurando di inserire nella bocchetta del “regolatore “ di pressione la necessaria guarnizione.

 

Così, a poco a poco, sparivano le famose “fornacelle” in muratura; perdurando , tuttavia, ancora per un po' l’uso del forno a legna, diffuso in quasi tutte le case.

Attorno alla metà degli anni sessanta, esso, però, diminuì fortemente a causa del ricorso al forno elettrico, come servizio pubblico ad imprenditoria privata.

Utilizzando macchinari moderni, esso entrava in competizione con l’unico e vecchio forno elettrico del paese a180 Volt, che fino allora assicurava la fornitura pubblica.

 

In breve tempo, di nuovi forni elettrici ne sorsero diversi, con grande soddisfazione degli utenti privati, che li frequentavano per le loro necessità sia di panificazione diretta in loco e cottura sia di semplice cottura, trasportando da casa già il panificato.

 

Tutti i clienti del fornaio erano, alla fine, orgogliosi e sicuri di mangiare il pane di casa propria, marcato com’era con simboli vari. L’uso di questa pratica era, però, limitato alla gente che abitava nei dintorni dei forni, per gli altri che ne erano lontani s’imponeva ancora l’uso del forno a legna di casa propria o del vicino compiacente.

 

Per decenni, perdurò tale pratica di alterno uso. Ed oggi, si stima che il forno a legna di casa sia sempre meno utilizzato, soppiantato dall’uso di moderni forni elettrici ad uso domestico.

Il pane ora si compra nei negozi, forniti dai panificatori locali.

 

  I miei gnitori

    

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La zia materna (zia Annetta) e le zie paterne (zia Carolina e zia Concettina (a fianco di mia sorella Fina)

 

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Al tempo della mia giovanissima età, le figure delle zie, sia da parte materna che paterna, segnarono la mia crescita; le figure maschili erano ridotte a quelle di mio padre e dello zio Federico, cognato della mamma.

Un parentado, quindi, quasi tutto al femminile che si ritrovava di tanto in tanto a casa nostra, per cooperare, secondo le necessità o per partecipare a momenti di svago o di semplice riunione. Ordinariamente ed, in quelle occasioni, si respirava un’atmosfera di “distinzione” sociale che sapeva di appartenenza ad una classe a mezza via tra piccola borghesia e nobiltà, di fatto agognata, ma mai acquisita. In ogni caso, il tratto distintivo rispetto a classi sociali più basse traspariva da una maggior agiatezza nelle varie forme del vivere quotidiano, nel linguaggio, che pur dialettale, rifuggiva da certe rozzezze lessicali e da certi atteggiamenti poco signorili.

 

In sostanza, la famiglia di don Attilio godeva di buona nomea che si estendeva a tutto il parentado e ad una ridotta cerchia di amicizie. Questo stato di distinzione costituì di fatto una limitazione di apertura alla frequentazione del mondo agricolo pastorale ed artigianale, prevalente in quell’ambiente. Noi, figli di don Attilio, non avevamo la possibilità di avere zii fittizi, come tanti nostri coetanei. Generalmente, il saluto di rispetto verso una persona più anziana era “sa benedica”, che si faceva seguire dall’appellativo “zu”, “za” che stavano per zio, zia, in linea con la parentela effettiva. Nella nostra famiglia, noi ragazzi non demmo mai “zu”, “za” a chi non fosse realmente nostro parente.

 

Immaginate il mio imbarazzo a non usare quell’appellativo, preferendo astenermi dal farlo.

Tra gli appellativi, quello destinato al ceto più umile era “gnira” per la donna e “su” per l’uomo e “mastru”, se riferito ad un artigiano, coniugando l’azione verbale al “voi”.

In questa cornice di “distinzione” e di “distanza”, la famiglia e il parentado più stretto divennero l’universo affettivo e sociale di riferimento per la crescita di noi fratelli (3 maschi e 2 femmine).

In questo clima di “distinzione” si viveva e si cresceva, acquisendo una visione pregiudizievole della società. Scrollarsela da dosso non era stato facile, in precedenza, ma , per fortuna, ai miei tempi qualche possibilità di cambiamento si profilava, grazie a due componenti: l’acquisizione di una maggiore cultura scolastica e la diffusione di un maggior benessere economico generale, che gradualmente smantellava lo stato arcaico della suddivisione del popolo in codificate classi sociali: contadini diretti, proprietari di piccoli appezzamenti di terreno, operai giornalieri (cosiddetti braccianti), che prestavano la loro attività su richiesta dei committenti proprietari terrieri, manovali generici, adibiti soprattutto nell’edilizia, apprendisti presso maestranze nel piccolo artigianato, costituito da muratori, fabbri, calzolai, falegnami, barbieri, sarti, mugnai ecc..

 

C’era anche la categoria di piccoli commercianti, che gestivano negozi di alimentari autorizzati a vendere un po' di tutto, perfino il petrolio che veniva usato per accendere i lumi , che ancora si usavano. Non mancavano i macellai, che, privi di frigoriferi, esponevano la merce all’interno dei loro locali e talvolta anche all’esterno. Vendevano quasi esclusivamente carne di pecora e di maiale, dato che la pastorizia era una delle attività economiche prevalenti.

 

Tra i commercianti, c’era chi comprava e vendeva cereali (grano duro, soprattutto) oppure fave, lenticchie e mandorle. Mio papà Attilio, per un po' di tempo, fu uno di loro, commerciando grano e mandorle. Vista l’ampiezza degli ambienti, ricordo che gestiva a casa nostra un vero e proprio laboratorio di trattamento delle mandorle, che venivano schiacciate al fine di ricavarne il nocciolo (così detta (“ ’ntrita ”). Questa attività veniva svolta da manodopera femminile, regolarmente retribuita. Era curioso osservare, che ogni donna si recava al lavoro, fornita da sasso ( o martelletto, nella migliore dell’ipotesi) e da un pezzo di mattone su cui battere le mandorle e schiacciarle. Indicibile il frastuono che si produceva.

 

A lavoro finito, le mandorle sgusciate venivano raccolte in sacchi di iuta e ammassati in magazzino per poi essere trasportati, per ferrovia, a destinazione . Dalla stazione ferroviaria di Roccapalumba partirono diversi vagoni di mandorle, a nome di don Attilio.

 

La classe impiegatizia , molto ristretta, era rappresentata da insegnanti elementari, membri di ufficio postale, di stazione di carabinieri, di Comune, di ufficio giudiziario (Pretura).

Il servizio sanitario era svolto da un medico condotto assieme a qualche collega di medicina generale ed a due farmacisti. Nell’ambito giuridico, pochi avvocati, due o tre.

 

La classe dei nobili era rappresentata da tre ceppi di Guccione, imparentati con quello più antico e rappresentativo del Cavaliere, residente nel sontuoso palazzo ottocentesco del Rapatello, la parte alta del paese, limitrofo al Santuario della Madonna. Tutti e tre si fregiavano del titolo di cavalierato e abitavano in edifici di una certa importanza. Erano proprietari e gestori di latifondi da cui ricavavano grandi raccolti. Con la legge di riforma agraria del 1950, finiti i feudi, sparì a poco a poco anche il Cavalierato dei Guccione. Gli stessi palazzi furono messi all’incanto e le famiglie lasciarono il paese per la città di Palermo.

Ad Alia restarono, invece, gli altri Guccione nobili non titolati, se non dell’appellativo di “don”, riconosciuto anche a mio papà, che “indiretto feudatario” era pur stato. C’erano anche altri Guccione meno fortunati e meno abbienti.

 

Un certo livellamento sociale iniziava già nell’ambito scolastico e nell’associazionismo, soprattutto clericale. A scuola, negli ordini d’istruzione media e superiore, nascevano e si sviluppavano sentimenti di egualitarismo e di rispetto dei valori umani comuni e intellettuali che oltrepassavano gli angusti limiti di gerarchia di appartenenza a classi sociali fino ad allora “poco considerate”.

Iniziava l’epoca del riscatto in nome degli esiti valoriali dell’istruzione acquisita.

La scuola e il mutamento delle condizioni di vita che il boom economico degli anni ‘60 portava con sé, favoriva l’inizio di un processo di democratizzazione che la vecchia società borghese, man mano, era costretta ad accettare .

 

Le zie Carolina e Concettina

 

In questo preambolo, direste voi, cosa c’entrano le seguenti annotazioni sulle zie?

 

Sinceramente, nulla o quasi. Se non come riferimento di cornice ove inserire le figure delle zie e di una di esse in particolare, la zia Concettina, che, pur succube del clima familiare e sociale sopra descritto, fu per me l’esempio di inconsapevole educatrice ad una mentalità divergente dall’epoca, rivolta alla novità evolutiva democratica di quella società, avendo sempre presente il valore del rispetto della comune umanità del prossimo.

In questa naturale ed inconsapevole azione la supportava la sorella, spesso recalcitrante davanti a forzature un po' coraggiose, nonostante lei avesse un grado di istruzione leggermente superiore, la sesta elementare contro la terza della sorella.

 

Le zie, sia di parte materna che paterna (5 in tutte), ci erano molto vicine in ogni circostanza . Alla domenica o nelle principali festività, ci si riuniva in casa nostra.

Le due di parte paterna, Carolina e Concettina, furono le uniche persone del nucleo familiare del nonno Matteo, che assieme alla loro mamma Anna e al fratello Attilio, si sottrassero all’ondata migratoria verso gli Stati Uniti. Gli altri 3 fratelli, Pasquale, immagine allegata="2" align="left"Giuseppe e Giulio, fin da adolescenti vissero in America con il loro papà. Ritornarono in visita al paese una o due volte. Il nonno Matteo, ammalato com’era, da vecchio, ci ritornò per morire.

 

Esse abitarono fino a tarda età nella casa paterna, composta da 3 piani. Nel primo c’era una saletta, una stalla e una cucina con annesso forno a legna. Attigua a questo ambiente c’era una legnaia e un sevizio igienico, ricavato in un anfratto. Mi ricordo che si accedeva ai piani superiori attraverso un portone ed a piano terra si apriva un portoncino a vetri ingentiliti da tendine a filet. A mo’ di sicurezza, si applicavano per la notte degli scuri mobili ad incastro.

La scala immetteva in tre stanze e in un terrazzo. Al piano superiore c’era un’altra stanza con cucina e forno. In questa casa paterna, per alcuni anni, le zie coadiuvarono il fratello Attilio nella gestione di una pasticceria.

 

La zie, Concettina e Carolina, erano molto pie e devote. In particolare lo era la zia Concettina, che, da terziara francescana, indossava sotto agli abiti, una veste simbolica di appartenenza alla congregazione. Fu componente e presidente dell’Opera di San Vincenzo per le opere caritatevoli. Fu mia guida spirituale e mia maestra di fede e di saggezza.

 

Abitarono lì fino a tarda età. Ogni domenica e in altre festività, venivano a pranzo da noi, restando in nostra compagnia fino a sera, fino a quando, a causa di una caduta in casa nostra, la zia Carolina si ruppe il femore. Da allora, rimase da noi, assistita nelle cure dalla sorella e dai miei genitori.

 

Dopo la sua scomparsa, avvenuta nel 1970 e dopo la decisione dei miei genitori di vendere le proprietà di Alia, la zia Concettina si trasferì, assieme a loro, nell’appartamento acquistato nel vicino paese di Lercara, dove mia sorella Fina, già da tempo, risiedeva con la sua famiglia. Lì visse fino al 1975.

 

Papà e mamma, da sposati, abitarono in una casetta vicinissima a quella paterna e lì nacquero e crebbero fino ad una certa età i loro 5 figli. Da ultimo, io stesso, piccolissimo, dal ‘42 al ‘44 .

Da allora in poi, tutta la famiglia si trasferì in una grande casa, in prossimità del centro del paese. Lì, papà aveva comprato una scuola dismessa, che si componeva di due grandi magazzini al piano terra e di tre grandi sale in ciascuno dei due piani. Immagino che inizialmente fosse stata fatta una sua essenziale ristrutturazione, per adattarla alle necessità abitative della famiglia. Una ristrutturazione più moderna fu fatta alla fine degli anni ‘50.

 

Come era consuetudine di quell’epoca, della vendita della casa di Alia, usufruirono come dote di nozze, le mie due sorelle Anna e Fina, per la quota spettante. A Lercara, Anna investì la sua parte nell’acquisto di un appartamento, Fina nell’acquisto di ampi magazzini.

 

Per noi fratelli, del poco residuo di proprietà non ci fu alcuna destinazione, in considerazione del fatto che, in famiglia, si era stabilito di assicurare a me un futuro nella carriera scolastica e poi professionale e di progettare che mio fratello Pippo potesse avere una prospettiva di eredità con i proventi economici della quota che fu disinvestita dalla ditta Molino e Pastificio “Castellana&Vallone Snc.” di cui Papà era socio, e successivamente impiegata nell’acquisto di un trattore, finalizzato all’aratura per conto terzi delle proprietà agricole della zona.

 

Il progetto non ebbe fortuna per i limitati ricavi (pagamento sia del salario a 4 addetti sia delle rimanenti rate dell’acquisto del mezzo) e per la concorrenza in loco di altre iniziative similari. Svanito l’esercizio imprenditoriale per insolvenza di un residuo debito, sulla base della clausola di riservato dominio del mezzo, svanì anche per Pippo la quota di eredità a lui destinata. Il trattore fu requisito e si perse così il capitale investito.

 

Da allora, iniziò un “calvario economico e psicologico” per tutta la famiglia, soprattutto per Papà e Pippo. Papà, che, in precedenza aveva avuto l’ accortezza di fare ristrutturare la casa, ricavandone 5 stanze al piano superiore, fu costretto ad inventarsi un’attività in proprio di affittacamere. Così sbarcò il lunario per gli anni a venire, ospitando impiegati agli uffici postali, bancari e finanziari che lavoravano in paese. In questa attività, divenuta, nel tempo, servizio di vero e proprio pensionato, fu coadiuvato per circa 15 anni dalla moglie, la cara e dolcissima Mommina. Il 1973 fu l’anno della vendita dell’immobile e del trasferimento a Lercara.

 

 

Le altre zie

 

Angelina, Annetta e Antonietta, che abitavano più lontano, a 5 minuti circa di cammino, venivano in visita nel pomeriggio della domenica. Ricordo che erano vestite sempre in nero e in maniera semplice e decorosa. D’inverno, fuori di casa, si coprivano con un E pesante scialle di lana bouclée, che copriva la persona fin dall’alto del capo fino a mezza gamba.

 

In casa, sempre d’inverno, si stava riuniti attorno ad un braciere, collocato nella cavità di una pedana in legno di forma circolare, dove ardeva della carbonella, prevedendone la durata per l’intera giornata. La “braciera” era di valido aiuto anche per scaldare il letto, prima di coricarsi. Se per le donne era d’obbligo indossare lo scialle, per gli uomini era necessario coprirsi con il “cappuotto”, di panno pesante e con cappuccio. Lo avevano tutti, più o meno elegante, secondo le possibilità.

 

immagine allegata La zia Angelina, sorella della mamma, era la zia più vicina; gestiva, da sola e in proprio, un negozio di alimentari, con annessa caffetteria, ormai in decadenza rispetto ai tempi andati, quando era gestita da sua zia Marianna (“donna Marana”, cosiddetta), tra la fine dell’800 e il 900. Era, allora, anche l’unica caffetteria del paese.

 

Viveva da sola, così come la zia Annetta, l’altra sorella della mamma. L’unica sorella sposata era la zia Antonietta. Il marito Federico, appartenente ad una famiglia agiata di commercianti di tessuti, visse una vita travagliata dal punto di vista economico, ma allietata dalla paternità dell’unico figlio Matteo.

Fu insignito, in qualità di reduce della grande guerra, dell’onorificenza di Cavaliere di Vittorio Veneto. Era alto di corporatura e in viso era somigliante all’attore napoletano Totò.

 

La zia Annetta, per alcuni anni, visse in casa della sorella Angelina, in stato di infermità, al fine di assisterla. Questo compito fu concordato con i miei genitori, obbiettivamente indisponibili a provvedervi, ricevendo in cambio la cessione, a suo favore, della quota ereditaria dell’immobile spettante a mia madre.

 

Alla morte, la sua dote immobiliare, comprensiva della casa paterna e di quella della zia Angelina, passò al nipote Matteo Cocchiara, figlio della sorella Antonietta, la quale visse con la di lui famiglia fino all’età di 95 anni.

 

Matteo, nel corso dei suoi studi superiori a Termini, fu ospite anche lui della famiglia Todaro. Poi, laureato in Giurisprudenza a Palermo e sposato con l’aliese Maria Leone, entrò nei quadri del Catasto provinciale e intraprese anche una discreta carriera politica locale. Ebbe due figli: Federico e Antonietta.

 

Ricordo ancora l’atmosfera e gli odori antichi di queste case, che, a quel tempo, nessuna ristrutturazione più moderna, mai fatta, aveva modificato. Gli ambienti erano ancora quelli finalizzati alle necessità abitative di nuclei familiari agricoli o di piccolo artigianato.

 

I nonni:

 

Mi è rimasto un vago ricordo di Nonno Piddu (Giuseppe) (Cardinale), papà della mamma, deceduto da vecchio, quando io ero in tenera età (4 anni). Persona burbera, di cui, in seguito, mi raccontavano la sua avversione al matrimonio dei miei genitori. Chissà perché, forse per motivi di dote inadeguata.

 

Non conobbi la nonna Serafina (Miceli), da parte di mamma. Invece, da parte di papà, i nonni Matteo e Anna, anche se non fisicamente, mi furono familiari fin da piccolo, perché, le loro gigantografie rimasero esposte nella saletta della casa paterna per molto tempo (fino al 1970). Il nonno Matteo (Guccione) vi appariva rubicondo in viso, con fossette sul mento ed un folto paio di baffi bianchi. La nonna Anna (Di Sclafani), aveva un viso slanciato, con fattezze tipiche della sua dinastia

I miei fratelli:

 

 Anna, Serafina, Pippo e Matteo

 

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Di Matteo ho pochi ricordi, risalenti al tempo della mia fanciullezza. Era un giovane appassionato della campagna e degli animali. Coltivava soprattutto,un piccolo podere delle zie, sorelle del papà; vi si recava giornalmente con séguito di giumenta, asina, capra e cane, di nome lulù. Preferiva abitare in casa delle zie, con le quali c’era un attaccamento affettuoso reciproco.

 

Ricordo la pena della famiglia quando emigrò, a 18 anni nel 1948 in America con lo zio Pasquale e la moglie Maria, sua sposa aliese. Dopo di allora, lo incontrai ad Alia, per la prima volta, nel 1970 in occasione del suo viaggio in Italia con i figli Frank, Geraldine e la moglie Frances. Poi la seconda ed ultima volta, nel 1986 quando con mio figlio Davide, già ragazzo, andai a trovarlo in California.

 

Solo allora cominciai a conoscerlo di più e ad apprezzare le sue doti di brav’uomo e affettuoso gentiluomo, orgoglioso delle sue origini e della sua integrazione socio-culturale e linguistica in terra straniera.

Ne ho avuto conferma da una più approfondita conoscenza, scaturita da frequenti contatti telefonici avvenuti negli ultimi anni della sua esistenza. E’ stata l’occasione per scambiarci tante notizie ed aggiornamenti sulla nostra famiglia e sul territorio di Alia, dopo più di 65 anni di lontananza.

 

Di Anna ho un bellissimo ricordo, legato soprattutto alla nostra familiarità in casa sua a Termini, in compagnia del marito Sebastiano e dei suoi 3 figli, nati alla fine degli anni 50. In quegli anni, iniziavo a frequentare lì la scuola media e dividevo le mie giornate tra lo studio e il fattivo aiuto che davo a mia sorella nella cura di questi nipotini, che man mano crescevano.

 

Fui loro ospite per 8 anni, tutto il tempo dei miei studi medi e superiori al Ginnasio Liceo.

 

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Anna mi fu di grande aiuto e lo fu anche mio cognato Sebastiano, che consideravo quasi il mio secondo padre. Era orgoglioso dei miei successi scolastici, anche se modesti, in verità, e , puntualmente, anticipava con telegramma ai miei genitori la notizia della promozione. Com’era allora consuetudine, a conclusione degli studi liceali, mi regalò un anello d’oro che ancora conservo con affetto e gratitudine.

Mi dispiacque non averlo vicino, come invece fece il resto della famiglia, in occasione del mio esame di laurea all’Università di Palermo. Intuii dopo, ragionandoci sù, che non ne ebbe colpa alcuna.

 

La sua tragica e prematura fine mi segnò profondamente, considerata anche la situazione familiare che aveva lasciato. Una vedova con tre figli, ancora ragazzi. Seppi della notizia tornando in macchina ad Alia da Bassano per le vacanze natalizie del 1971.

 

Anna fu una sposa ed una mamma meravigliosa. Operosa e di carattere mite, dedicò tutte le sue energie di bontà infinita al bene degli altri. Fu provata dalle amarezze della vita, a causa della tragica vicenda del marito e del male incurabile che ancora sessantenne, la portò alla morte. Ricordo la mia profonda pena per la sua consapevolezza dello stato avanzato della malattia, quando la salutai per l’ultima volta a casa sua, giacente immobile nel suo letto.

Mi avvicinai a lei non più vedente, dicendole il mio nome e prendendole la mano. A lei che non poteva più parlare chiesi di darmi un segno, stringendomi la mano, se mi avesse sentito. Lo fece con grande fatica e, farfugliando le parole, mi disse in siciliano ”sugnu cu li peri in ta la fossa”.

 

Se ne andò serena ed orgogliosa di veder uniti in matrimonio i suoi tre figli, al tempo della loro età adulta: Filippo con Patrizia, Attilio con Loretta e Gianpiero con Cristina, godendo della crescita dei suoi 5 nipoti Todaro, 3 di essi da parte di Gianpiero ed uno per parte dai fratelli. Per alcuni anni, a Termini, prestò, infine, servizio di assistenza alla mamma, già ottantenne, così come fece successivamente la famiglia di Fina a Lercara.

 

Di Fina ho un ricordo altrettanto bello a partire dalla mia fanciullezza, quando dormivano nella stessa stanza. Mi rimboccava le coperte e mi dava la buona notte. Di bella presenza e carattere allegro, si imponeva per una certa intraprendenza. Al pari della sorella Anna era amata da tutto il parentado e curava l’amicizia con il vicinato, in particolare con le sorelle Sagona e con le sorelle della famiglia Guccione, che abitavano un po' più lontano.

 

Entrambe le mie sorelle avevano un’ istruzione elementare, ma erano aperte all’acquisizione di arricchimenti culturali e linguistici di autoformazione: parlavano in dialetto, ma all’occorrenza anche in Italiano, grazie alla radio e alla televisione, prima, e, successivamente, alla contaminazione culturale con i figli, studenti di scuole superiori.

 

Come si usava fare, allora, molto tempo dell’età giovanile, anche loro trascorsero il tempo della giovinezza a preparare a mano il corredo di nozze; soprattutto a renderlo più bello con il ricamo a telaio a cui esse si dedicavano, in aggiunta alla cura dei lavori casalinghi.

 

Poi venne il tempo dei matrimoni, prima per Anna con Sebastiano a Termini nel 1955, poi per Fina con Santo a Lercara nel 1958. Entrambi i matrimoni vennero celebrati ad Alia nella nostra parrocchia di Sant’Anna. Il trattenimento degli invitati fu organizzato, per Anna in casa della famiglia Todaro e, per Fina nei locali della Società Grande con un servizio di dolciumi vari e rosolio fatti da Papà Attilio in collaborazione con le zie. Lo stesso sevizio fece papà per il matrimonio di Pippo e Pina celebrato nella matrice di Alia con intrattenimento degli invitati nella stessa sala suindicata. Per quel tempo, quando gli invitati a nozze si accoglievano ancora in casa propria, utilizzare un vasto ambiente esterno fu una grossa novità.

 

Ricordo che Fina, dopo un tentativo di flirt con un maestro madonita che insegnava ad Alia, ebbe occasione di conoscere ad Alia Santo, per interposta persona di “lu zzi Turiddu”, lercarese anche lui , marito di la ”zza Maruzza”.

 

Subito dopo, si fidanzarono e presto si sposarono. Ad ogni visita a casa nostra, Santo arrivava con un vassoio di paste acquistato da Luigi, pasticcere in voga a Lercara. Un gesto gentile verso la nostra famiglia dai trascorsi pasticceri.

 

Santo, a quel tempo faceva il maniscalco nella bottega che aveva ereditato dal papà Emanuele. Due delle quattro sorelle, Margherita e Teresa gestivano in un locale ad essa attiguo, una tabaccheria. Per Fina, non fu una convivenza facile con le cognate, dato che abitavano nello stesso stabile, anche se in piani diversi, iniziando a gestire assieme il negozio; soprattutto, dopo che nacquero e cominciarono a crescere i quattro figli, a partire dal 1962.

 

Lo spirito innovativo di Santo e l’esuberanza di Fina produssero un cambiamento di gestione della piccola attività con conseguente ampliamento degli spazi dei locali adibiti all’attività commerciale. Lo imponeva la necessità di crescere una famiglia allargata. La più grande delle figlie, Peppuccia, cominciò ben presto a dare una mano nel nuovo negozio di alimentari, inglobante anche la tabaccheria.

 

Al tempo dell’avvenuta età adulta delle tre sorelle Peppuccia, Silvana, Rosalba e del fratello Emanuele, le sorelle di Santo, già in età matura, decisero di emigrare negli USA, sposando due vedovi, oriundi lercaresi, già cittadini americani. La loro permanenza matrimoniale e lavorativa nella zona di New York, durò abbastanza, fino alla morte dei rispettivi mariti, determinando, per Teresa il ritorno a Lercara e, per Margherita il suo stato di vedovanza in America fino alla morte. La più longeva delle due fu Teresa che visse fino ai 90 anni.

 

immagine allegata Santo fu marito e padre affettuoso. Alla sua morte, avvenuta anzitempo a 56 anni, lasciò profondo cordoglio in tutto il suo parentado, me compreso, visto il rapporto di affetto e di stima che ci legava. Ricordo ancora le confessioni delle sue terribili esperienze da minatore in Belgio e di quelle come soldato italiano a Rodi, durante la seconda guerra mondiale, al momento del ritorno avventuroso, dopo la disfatta tedesca.

 

I nipoti Raia

 

Peppuccia (1960), Silvana (1962), Rosalba (1963) ed Emanuele (1969).

 

La loro nascita portò un’ondata di allegria e la loro crescita suscitò un clima di ben-essere in famiglia e tra tutti i parenti. Mi ricordo che in quegli anni, a conclusione della mia esperienza di studio-lavoro in Germania, avevo comprato, lì, un apparecchio fotografico, con il quale documentai tutto il tempo della loro fanciullezza.

 

Poi, venne la loro scolarizzazione; fino alla licenza media per Peppuccia, fino alla maturità scientifica per Silvana e Rosalba, fino a quella professionale per Emanuele.

 

Nel frattempo, maturavano le relazioni amorose per tutti i fratelli, che, man mano, permisero loro di coronare il sogno matrimoniale. Così fu per Peppuccia con Fabio, Silvana con Settimo, Rosalba con Gaspare, Emanuele con Rosa.

Costituiscono la loro discendenza 2 figli a testa: Giuseppe e Alessandro (per Peppuccia e Fabio), Giovanni e Eliana (per Silvana e Settimo), Fabrizio e Dalila (per Rosalba e Gaspare), Elena e Sandro (per Emanuele e Rosa ); tutti con titolo di studio universitario.

 

PIPPO, mio fratello.

 

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Di lui ho tanti ricordi, dato che la nostra differenza d’età era di soli 4 anni.

Ricordo la sua giovialità che io non avevo e che gli invidiavo. Per questo, era più ammirato. Non era portato per gli studi, così da sprecare la grande occasione di proseguirli, dopo la licenza elementare, nell’ambìta struttura palermitana del Convitto Nazionale, splendido ambiente educativo polifunzionale. Ricordo la sua bella divisa d’Istituto, comprensiva di berretto con visiera. In quell’ambiente non resistette più di un anno. Poi, tra le lacrime sue e l’infondata commiserazione di mamma e sorelle, ritornò a casa per dedicarsi al lavoro manuale, prima di apprendista sarto per un paio di anni, poi di operaio presso il molino/pastificio e l’oleificio, che in quegli anni stavano sorgendo a cura della società Castellana/Vallone, di cui nostro papà era socio di minoranza. Per alcuni anni, lavorò lì, imparando qualcosa di quei processi produttivi e di meccanica.

 

Chiamato al servizio militare di leva, dopo il periodo di addestramento in Sicilia (Trapani) fu assegnato a reparti dell’Aeronautica, prima ad Albenga (Sanremo) e poi all’Isola d’Elba.

Al ritorno ad Alia, fece parte, assieme ai cugini ManfredI e Matteo Macaluso, della squadra tecnica, che lavorava la terra con il trattore di nostra proprietà.

Ricordo la sua felicità, quando ebbe il suo motoscooter, ai tempi della diffusione della “Lambretta”, un 48 di cilindrata a due tempi. Ne era gelosissimo ed io non potei mai guidarla, pur sapendo andare in bicicletta fin da bambino. Non riuscivo a capire come lui potesse guidarla, non essendo mai andato prima in bicicletta.

 

Fece la sua prima esperienza lavorativa in fabbrica in Germania, quando assieme andammo lì, io per contemperare lavoro e studio e lui in attesa di emigrare negli USA e raggiungere la moglie Pina, sposata ad Alia l’anno prima.

Ricordo quando lo accompagnai a Palermo per imbarcarsi sulla nave diretta a Napoli, da dove avrebbe trasbordato poi su quell’altra transoceanica diretta a New York.

 

Ci siamo rivisti ad Alia con le nostre rispettive famiglie a metà degli anni ‘70 e poi in America, nel New Jersey, nel 1986 quando ci andai in compagnia di Davide, tredicenne. Fu un bel viaggio ed una bella esperienza che ricordo ancora volentieri, specialmente la trasferta in auto fino in Canada, alle cascate del Niagara e alla città di Toronto.

 

La nostra permanenza in America durò circa un mese tra Il New Jersey e la California, dove poi ci recammo a trovare la famiglia di mio fratello Matteo. In quella occasione, feci un bel reportage fotografico: 500 diapositive che condivisi, al ritorno a Bassano con Giulia e figli; doveroso tributo per tutti loro che non erano potuti venire assieme a noi due.

La sua prematura morte a soli 59 anni, per sopravvenute complicazioni renali, mi rattristò moltissimo.

 

 

Qualche nota su me stesso :

 

immagine allegataSono nato il 6 febbraio 1942, anche se ufficialmente registrato l’8. Giorno 6 era Sant’ Armando, ma papà non volle darmi quel nome, perché era già di un Guccione a lui inviso . E fu così che, dal calendario, fu scelto Romualdo che cadeva il giorno 8. Da allora, mi trascino questo nome particolarmente “impegnativo” tant’è che, a livello familiare, si preferì utilizzarne la parte finale: Aldo.

Ricordo che mia sorella Anna, lavorando a maglia, mi confezionò un pullover rosso con la scritta Romualdo in giallo.

 

Per mia fortuna, Aldo mi chiamavano in tanti, soprattutto gli amici d’infanzia e i compagni di scuola. Ero, però, amico di un altro coetaneo Guccione, ufficialmente Aldo. Da quì la necessaria distinzione con il mio vero nome, al tempo della frequenza scolastica, alla Media di Termini.

Il nome Romualdo, prese il sopravvento, e non mi lasciò più, fino a conclusione della mia carriera scolastica come dirigente. Per identificarmi tra colleghi bastava il solo mio nome, dato che Romualdo è nome di scarsa diffusione.

 

Il tempo della mia crescita fu, complessivamente, sereno e felice, sostenuto dall’affetto familiare. Conobbi alcune privazioni economiche, ma minime in rapporto a quelle dei miei coetanei ed amici. In sostanza, mi sentivo più fortunato di loro.

 

Imparai ad andare in bicicletta molto presto, già all’età di 5 anni, in occasione dell’arrivo dall’America dello zio Pasquale, fratello del papà, che nel nel ‘46 veniva in Sicilia per vendere il suo latifondo e per sposarsi in seconde nozze. La bicicletta che mi regalò era bellissima, ma non somigliava alle altre con le ruote con i raggi. Questa, invece, aveva i cerchioni delle ruote divisi in razze. Era rossa e gialla. Fu un regalo che utilizzai per molti anni, quasi 8, e di cui fui molto orgoglioso.

 

La viabilità del paese non era tanto consona all’uso della bicicletta, considerate le strade malmesse e per lo più in salita, ma per me non c’erano ostacoli. Andavo ovunque. Ancora, dopo tanti anni, risento il beneficio di quella attività sportiva.

 

Negli studi non eccellevo, nonostante la buona volontà. Ripetente di prima media, da privatista; rinviato due volte a settembre, sempre alla medie, in Italiano e Matematica.

Ma, poi, dal Ginnasio fino alla maturità classica sempre promosso a giugno, con grande soddisfazione ed orgoglio, mio e della famiglia.

 

Al tempo dell’Università, mi sarebbe piaciuto iscrivermi a Medicina, ma non godendo di un supporto economico familiare né di sovvenzione universitaria, quale poteva essere il cosiddetto ”presalario”, che non mi spettava per ragioni di reddito familiare non adeguato, decisi di iscrivermi a Scienze Politiche. Decisione dettata dall’idea velleitaria di tentare la via diplomatica. Ero innamorato dallo studio delle lingue straniere ed ero affascinato dall’esperienza del viaggio d’istruzione fatto a Strasburgo, al tempo della seconda liceale.

La visita al Parlamento europeo mi folgorò e mi entusiasmò l’attività di interpretariato che lì si svolgeva e che prefiguravo come mia futura professione.

 

Nel corso degli studi universitari, vagheggiai questo sogno.

Il Francese e il Tedesco furono le lingue straniere prescelte. E fu così che, per l’apprendimento della lingua tedesca, già al primo anno del corso di laurea, andai presto in Germania. Ugualmente fece il mio caro amico Armando, anche lui studente di Scienze politiche. Fu l‘ esperienza chiave della mia vita, perché fu grande la mia determinazione a rendermi responsabile per l’acquisizione di un’autonomia economica, come gastarbeiter in fabbrica, e come studente universitario fuori sede.

 

Il mio soggiorno in Germania, complessivamente, durò un anno e mezzo, sufficiente per farmi acquisire una certa competenza linguistica ed una iniziale conoscenza della civiltà tedesca.

Un fascino incredibile che conservai nel mio immaginario per tanti anni e che mi fece prendere le distanze dalla mia terra d’origine, critico delle differenze risultanti dal confronto su diversi aspetti tra le due realtà di ambiente. Ogni tanto, penso che non mi sarebbe stato difficile integrarmi in Germania e adeguarmi alla loro mentalità. Ma non andò così.

 

Laureato nel 1967 e concluso il servizio militare in Aeronautica nel 1969, iniziai in Sardegna, la mia carriera scolastica, come insegnante incaricato di Lingua francese nella scuola media.

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 Ricordo con piacere quella esperienza. Con l’aiuto di un sardo doc, l’amico Antonello Congiu, mi integrai subito in quell’ambiente, così interessante dal punto di vista linguistico ed antropologico. Ma la Barbagia nuorese mi dissuase, dopo due anni di residenza di rimanervi più a lungo. Fu così che all’inizio del terzo anno scolastico, alla fine di novembre ottenni il trasferimento da me richiesto in Veneto per 10 scuole prescelte della provincia di Vicenza.

 

Mi fu assegnata la sede della scuola media Bellavitis di Bassano del Grappa.

Allora, mi ritenni fortunato, sia per ritrovarmi in una bella città sia perché, presto, avrei incontrato lì Giulia, una maestra, bassanese , che poi sposai.

 

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La decisione di sposarmi maturò presto, nel giro di alcuni mesi, anche se comportò, da parte mia, l’assunzione di una grande responsabilità, quella di cooperare alla gestione di una famiglia già formata: Giulia era vedova con due figli e mamma a carico. Nicola ancora di 11 anni e Rita di 8. Andai ad abitare nella casa di loro proprietà, acquistata in parte con loro economie disponibili ed in parte soggetta alla restituzione del prestito, concesso dagli zii Gigi ed Italia, residenti a Bassano.

Parte del mio stipendio contribuì da subito all’estinzione del debito nel corso di un paio di anni. Il clima familiare fu, da subito, sempre sereno ed affettuoso, forte della disponibilità e della simpatia di tutti.

 

L’idea di sposarmi con Giulia sorprese i miei familiari, i miei genitori in particolare, che prefiguravano di avermi vicino, in tarda età. Fui molto rammaricato di non poter esaudire questa loro aspettativa, ma la prospettiva di farmi una famiglia ”anche così particolare” in un ambiente stimolante come quello bassanese la considerai irrinunciabile.

 

Mi rassicurava, in un certo senso, il fatto che la vicinanza delle mie due sorelle potesse sopperire alla mia lontananza soprattutto da papà e mamma. Dopo il mio matrimonio del 1973, i Miei decisero così di vendere la casa di Alia, comprare un appartamento a Lercara e trasferirsi lì, con la zia Concettina, vicino alla famiglia di mia sorella Fina.

 

Nel 1974 nacque Davide, che fu subito la gioia mia personale e di tutta la famiglia. Fui e sarò sempre orgoglioso che un Guccione rappresentasse la nostra stirpe in Veneto ed altrove, se possibile. Dopo gli studi di base a Cassola, seguirono quelli medi e superiori a Castelfranco Veneto, nella scuola media annessa al Conservatorio musicale e al Liceo linguistico cittadino.

 

La sua avventura scolastica al Conservatorio musicale di Castelfranco, come violinista, si interruppe a metà del percorso, ma gli servì come base per alimentare la passione per la musica, che assieme a quella dell’arte grafica e pittorica ancora oggi lo contraddistinguono.

 

Al liceo linguistico, fu compagno di classe di Francesca, nativa  di Castelfranco Veneto, che poi diventerà sua moglie.

 

A conclusione degli studi universitari di entrambi, l’uno al D.A.M.S. di Bologna e l’altra al Dipartimento linguistico  di Interpetrariato di Bologna/Ferrara, nel 2008 arrivò il tempo del loro matrimonio e, un anno dopo, quello della nascita della figlia  Sara

Sara, figlia unica, fin da subito, è stata la gioiadei genitori e di tutto il parentado, in particolar modo dei nonni materni e paterni, che ne hannosempre apprezzato, nel temp, la sensiblità affettiva, la bontà d'animo e le lusinghiere tappe di formazione culturale.

 

L’aleatorio sbocco professionale del DAMS, costrinse Davide a sviluppare le sue inclinazioni artistiche presso uno Studio di grafica, dove lavorò per 14 anni. La passione per la musica, mai sopita, ha fatto di lui un bravo chitarrista e musicista.

 

Questo status culturale è ciò che contamina , da tempo, le sue produzioni grafiche, dedicate all’universo della musica jazz e Soul. Dopo il lavoro, svolto da dipendente, nell’ambito grafico-pubblicitario, si sta prefigurando per lui una nuova attività artistica gestita in proprio. Ci si augura che abbia successo.

 

Nicola, primogenito di Giulia

 

L’ho conosciuto, ancor bambino, come “capofamiglia”, nel senso che, come orfano di padre, si sentiva investito del ruolo di ometto di casa. Fu da subito entusiasta del mio ruolo di patrigno, che accettò con piacere e rispetto e che tuttora perdura, dopo più di un quarantennio.

Non eccelleva negli studi, ma completò quelli elementari e medi a Cassola e a Bassano, intraprendendo quelli superiori, prima a Bassano poi a Cittadella.

 

Il 1980 fu il nostro anno più funesto, segnato dal suo grave incidente stradale, che gli procurò un ancor perdurante stato di invalidità alla deambulazione

 

Dopo alcuni interventi chirurgici, la  riabilitazione delle sue funzioni residue  durò molti anni con l'assistenza affettiva e psicologica di tutta la famiglia. Studente alle prime classi dell'Istituto tecnico per geometri, al tempo dell'incidente, riuscì, poi, gradualmente a riprendere gli studi ed a conseguire il diploma di geometra nel 1998.

 

In quest’impegno di studio “titanico”, gran parte di merito è da attribuire all’aiuto della mamma Giulia, disponibile a tale sacrificio e memore del suo passato di maestra.



Rita

 

Seconda genita di Giulia, di natura timida e riservata, è cresciuta serenamente nella nostra famiglia, progredendo negli studi fino al conseguimento del diploma magistrale e poi di quello infermieristico. Da giovanissima, ha prestato servizio nella struttura sanitaria di Bassano del Grappa, dove attualmente opera con mansioni di alta qualifica in Direzione sanitaria.



L’incidente occorso al fratello Nicola la distrasse per alcuni anni dal maturare atteggiamenti di intraprendenza e sicurezza nei confronti di amicizie maschili strettamente interessate.

La svolta, però, avvenne nel 2003, in occasione del viaggio fatto a Cuba in compagnia dell’amica Valentina. Entrambe, virtuose di ballo, cercavano lì verifica delle loro abilità caraibiche e fu così che Rita a Santiago de Cuba incontrò Douglas, come suo maestro di ballo.

 

Due anni dopo, nel 2005, si sposarono a Cuba. Al rientro in italia, misero sù famiglia a Cassola nel nuovo appartamento che Rita aveva precedentemente comprato.

 

 

Nel 2007 nacque Marco, un bel bambino, leggermente ambrato di carnagione, che divenne, da subito, la gioia di tutta la famiglia. Per noi nonni, da allora, iniziò il suo accudimento di cui siamo stati partecipi ed orgogliosi, a tal punto da poter dire che Marco l’abbiamo cresciuto un po' anche noi. Dai suoi trascorsi scolastici, elementari e medi, bravo com’è nel disegno, si prefigura per lui un futuro artistico.


Douglas, sposo e padre affettuoso, non fu fortunato in ambito lavorativo, perché la sua venuta in Italia coincise con l’inizio della crisi del mercato italiano. A tempo determinato ed a spezzoni, lavorò per qualche tempo presso la Baxi, importante stabilimento industriale a Bassano. Nel tempo, non ha trascurato di tenere i contatti con la sua terra ed i suoi parenti cubani: il padre, i fratelli e la figlia Amanda, avuta dal suo primo matrimonio. Ogni anno, nei mesi invernali, vi ritorna per un breve periodo.

 

Scrivo queste note all’età di 77 anni, da 14 vecchio pensionato, in qualità di Dirigente scolastico. Mi sorprende il fatto che sia passato tutto questo tempo, che, per mia fortuna, sto trascorrendo assieme a Giulia da 46 anni. Tra noi, che ormai viviamo da soli in casa nostra, continua ad esserci l’armonia intima dei vecchi tempi della nostra vita in comune, travagliata e pur felice, circondati dall’affetto dei figli e dei nipoti. Per questo dono ricevuto, mi sento di ringraziare il Padre Eterno, che ho sempre sentito presente a guidare la mia esistenza.

 

 

 

 
     
Edizione RodAlia - 29/12/2022
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