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IL MATRIMONIO NELLA CULTURA CONTADINA
SICILIANA TRA '800 e '900
 




IL MATRIMONIO NELLA CULTURA CONTADINA SICILIANA TRA ‘800 E ‘900

A cura di Maria Cristina Torrisi



“Diversamente dall’uomo, la donna si sposava prestissimo ( i mesi designati erano tutti tranne maggio, agosto e novembre perché mal augurali) e per prima doveva toccare alla figlia maggiore, alla quale al corredo già si pensava alla giovanissima età.”

 

 Le usanze

<< A fimmina di diciotto e l’omu di vintottu >>
recitava un antico detto siciliano. In effetti, già nel XIX e XX sec., era questa l’età dei contraenti il matrimonio poiché l’uomo, per ragioni economiche, era spesso costretto a pazientare. Lo (scapolo) doveva riuscire a mettere qualcosa da parte per  le spese del fidanzamento e poi del matrimonio. Inoltre era in uso che, nonostante il giovane fosse pronto per convolare a nozze, egli dovesse cedere il posto alle sorelle da maritare, anche alla minore e, con il proprio lavoro, provvedere sia a sostenere la famiglia che alla loro dote, poiché esse non potevano andare a lavorare per evitare di essere compromesse nell’onore. ( A quei tempi la nascita di una figlia femmina non era certo un augurio da fare!)

 

Accadeva spesso che l’onere del giovane era troppo gravoso e che questi sacrificasse sentimento e bellezza pur di possedere una casa. Così che, la giovane che l’avesse portata in dote, anche se non di bell’aspetto, si sarebbe ugualmente maritata: <>. Ma non solo l’uomo compiva il sacrificio. Anche la donna, infatti, avrebbe accondisceso al matrimonio se il partito fosse stato superiore ad un altro…Poi, come dicevano sempre le madri, l’amore sarebbe venuto dopo, a letto, e con la nascita dei figli”.


Diversamente dall’uomo, la donna si sposava prestissimo ( i mesi designati erano tutti tranne maggio, agosto e novembre perché mal augurali) e per prima doveva toccare alla figlia maggiore, alla quale al corredo già si pensava alla giovanissima età. Quello contadino, “a quattro” ,doveva comprendere: una cassapanca (nelle classi più povere, non era in legno pregiato né scolpito ma di legno povero e dipinto di verde. Serviva sia come armadio ma anche per mettervi farina, legumi, frutta secca e diversi generi alimentari); i materassi ( tavole e “trìspiti” in legno o in ferro era obbligo che li portasse il marito); gli utensili essenziali della cucina ( pentola di rame o stagno, pochi piatti, qualche cucchiaio e bicchiere di legno, “a maidda”: giovava per la preparazione del pane che si faceva di venerdì o di sabato); qualche oggettino d’oro ( di solito un paio di orecchini, una collana e un anello).


Nell’ambito familiare, le madri erano molto severe con le figlie, e ciò a causa dell’autorità che il marito esercitava sulla moglie e perché, essendo egli assente tutto il giorno per via del lavoro, ella era ritenuta responsabile della condotta delle figlie. La madre insegnava loro l’arte del cucito o a lavorare con la conacchia, nella filatura e tessitura del corredo. Alla giovane, per trovare marito, non serviva essere bella ma “buona figlia, onorata, lavoratrice”, “un brazzu di mari”.


Era sogno di tutte le ragazze non rimanere zitelle (condizione ritenuta umiliante).  Se il marito tardava a giungere, le giovani si rivolgevano ai santi: << Sant’Antuninu mittìtilu ‘n caminu: San Pasquali, facitilu fari; San Giovanni, scriviti li banni; Santu ‘Nofriu gluriusu, beddu, picciottu e graziusu >>.


Per conoscere il futuro che le attendeva da maritate, vi era una pratica in uso, che consisteva nel mettere la sera, sotto il guanciale, tre fave: una sgusciata, una mezza sgusciata, e l’altra intera. L’indomani mattina la giovane tirava a caso una fava: se prendeva quella intera il marito sarebbe stato ricco, se quella mezza sgusciata sarebbe stato benestante, se quella sgusciata sarebbe stato povero. Di queste usanze ve ne erano tantissime altre… 


Il futuro marito pretendeva che la giovane fosse del suo stesso livello sociale.  Fino a tutto l’Ottocento un artigiano non avrebbe mai permesso che il figlio sposasse la figlia di un contadino, rispetto al quale si sentiva un gradino in più. Sempre nell’Ottocento era in uso che i genitori scegliessero per i figli senza che questi fossero interpellati. Accadeva che quando il figlio si sentiva già pronto per costituire la sua famiglia, senza parlare con la madre, le dava un segno inequivocabile: non portava a casa la paga mensile. La madre, allora, parlava con il marito per cercare la donna giusta per il figlio. Se il giovane avesse avuto una simpatia diversa da quella designata dai genitori non rimaneva altro che la via di fuga con la cosiddetta “fuitina”.

Ma, man mano, gli usi e i costumi di quell’epoca incominciarono a sgretolarsi, così che il figlio maschio diventò libero di fare le sue scelte e di parlarne con la madre. La quale, si accertava che la giovane potesse essere degna sposa del figlio. Un esempio ci è dato da un uso modicano: la madre del giovane si recava con una scusa a casa della ragazza. Se la trovava a lavorare nelle faccende domestiche, ella dichiarava lo scopo della visita. Se, invece, la trovava in ozio o a mangiare, prendeva commiato senza specificare il motivo della visita, convinta che quella giovane sarebbe stata una lagnusa>>.


A secondo dei luoghi, cambiavano pure le usanze. A Noto e a Montevago, si usava che la madre del pretendente si presentasse a quella della giovane con un pettine da telaio e chiedesse se avessero da prestarle un pettine “di sidici” o “di novi”. Se la futura consuocera non aveva obiezioni al fidanzamento,  rispondeva “di sidici”, se era contraria rispondeva “di novi”, se presa in contropiede, rispondeva che doveva cercarla, sottoponendo la richiesta al marito.


 

In altre località, si usava che il giovane interessato facesse la serenata sotto il balcone di casa della ragazza. Se le finestre venivano spalancate dal padre di lei, significava che il matrimonio si poteva fare, viceversa rimanevano chiuse e quella “richiesta di matrimonio” restava non accolta.


Un altro costume era quello di mettere dietro la porta della casa della ragazza il cosiddetto “zzuccu” (ceppo) o una spazzola. Se la richiesta aveva esito negativo, l’oggetto veniva fatto rotolare in mezzo alla strada. Viceversa, se introdotto dentro casa, rappresentava un invito per accogliere “a messaggera”, ossia la madre del giovane, per prendere gli accordi sul fidanzamento.

 
A canuscenza


 Generalmente, il giorno stabilito per prendere gli accordi del fidanzamento era di una domenica pomeriggio. La scena è la seguente: il fidanzato entrava in casa della futura sposa in compagnia dei genitori e dei parenti più prossimi. Ad attenderlo la giovane con i genitori. Dopo i convenevoli d’uso, i futuri suoceri erano posti a sedere di fronte alla ragazza ed ai suoi parenti. La futura suocera si allontanava dal suo gruppo e si recava a baciare la giovane, le scioglieva i capelli, li pettinava e li intrecciava con un nastro rosso, “ntrizzaturi”, dono del fidanzato come “segno” che lo legava per sempre alla ragazza. La quale, da quel momento sino al giorno delle nozze, avrebbe portato i capelli legati, “segno” di essere promessa sposa.

La treccia veniva poi abbellita con la “spatuzza” o spadina d’argento, nei tempi più antichi, e con la “pittinissa” o pettine, nei tempi più recenti. Infine, il fidanzato le metteva al dito il “siiddu”, ossia il sigillo, un piccolo anello d’oro. Terminato il rito della “nzingata”, la futura sposa si recava a baciare le mani ai genitori del fidanzato e si sedeva tra la suocera e la cognata sposata. Per concludere, un parente metteva sulle ginocchia della “zzita” un canestro, all’interno del quale i presenti ponevano un piccolo dono. Poteva essere un fazzoletto, un grembiule, una conacchia, doni ch’ella avrebbe ricambiato anche la domenica successiva con oggetti di egual valore. Tra gli applausi generali aveva luogo il “trattamentu” , il trattenimento a base di càlia (ceci abbrustoliti), di frutta secca, fave, frittelle, vino e rosolio. “U fistinu” terminava con i balli sino a notte fonda.



I regali



Durante il fidanzamento, i giovani si scambiavano diversi regali a seconda delle festività del calendario: “i mustazzoli” a Natale, “a cuddura cu l’ovu” a Pasqua, “i pupi” di zucchero per la festa dei Morti. In occasione dell’onomastico, la fidanzata riceveva un dono più importante: una crocetta d’oro, o un “guardapetto” (una spilla d’oro), o “li pindenti” (gli orecchini) o “a gulera” (una collana di coralli). A Messina si usava regalare la “çiannaca”, ossia parure di collana, orecchini e spilla in oro. Alcuni futuri sposi regalavano alla fidanzata anche la veste nuziale, “di lu nguaggiu”.


 Il corredo


Alcuni giorni prima delle nozze, o addirittura il giorno precedente, avveniva l’esposizione del corredo e la sua “prizzatura” , cioè la stima.

Risalente al periodo Medioevale, la cerimonia era conosciuta con il nome di “la vagghiata di li robbi”.


Amici e parenti si riunivano in casa della sposa per ammirare e conteggiare il corredo e tutto quanto la ragazza portava in dote; soprattutto veniva ammirata la biancheria esposta sul letto matrimoniale dei genitori della ragazza. Vi erano alcune donne, le quali s’intendevano di stimare il corredo perché ricamatrici, che, osservando ogni capo, ne stimavano il valore, gonfiando anche il prezzo. Il totale complessivo doveva corrispondere esattamente a quanto promesso al futuro sposo per non rischiare che il matrimonio andasse in frantumi.


Terminata la cerimonia, lo scrivano aggiungeva, dichiarandolo ad alta voce: <<Lu zitu ci metti tanti unzi di bon amuri pri la zita>>.
Quella del futuro sposo era solo una donazione formale, probabilmente perché, come era in uso nell’età medioevale, egli avrebbe provveduto ad una dote nel caso di premorte. Questa era un’ usanza ancora in vigore nella Sicilia del XVIII sec., secondo l’uso germanico del Morgengaber, che consisteva ad un dono che lo sposo germanico faceva alla moglie, dinnanzi a parenti e amici, il giorno dopo la prima notte di nozze. Usanza questa che cambiò di significato, sotto l’influenza romano-cristiana, trasformando il dono in un assegno vedovile da donare il giorno stesso delle nozze.


Conclusa la stima del corredo, si procedeva alla distribuzione dei regali di amici e parenti e della càlia. La sera precedente le nozze, il corredo, disposto su grandi ceste, veniva scortato da un corteo sino alla casa degli sposi.


Il bagno


L’ultimo rito prima delle nozze era il bagno prematrimoniale che si svolgeva nei tre giorni precedenti le nozze. Esso aveva origini antichissime, veniva infatti praticato dai Greci e dai popoli orientali, e il suo significato era purificatorio. Si concludeva il giorno delle nozze con la vestizione della sposa e ad esso partecipavano la madre della giovane, le sorelle e le future cognate. Insieme intonavano un canto per la ragazza.



Il corteo


Era usanza che la promessa sposa, prima di lasciare la casa dei genitori, doveva scusarsi con loro per tutte le mancanze commesse e chiedere così la benedizione.



Fino agli inizi del XX sec. il corteo si formava davanti la casa della sposa. In testa vi era lo sposo con gli uomini, dietro la sposa in mezzo alle donne. Al ritorno, gli sposi stavano davanti a tutti camminando a braccetto.


Quando le nozze erano di sera, gli sposi venivano accompagnati dal corteo con torce a vento. Augurale durante il corteo di nozze era il gesto di lanciare agli sposi: confetti, monetine, grano, orzo, riso ma anche sale. Nel trattenimento a base di càlia, vino e rosolio, al sopraggiungere degli sposi un’orchestrina suonava. Era composta da un tamburello, una chitarra e qualche violino.



Evviva gli sposi!


Dopo il matrimonio, i giovani si recavano nella casa paterna dello sposo dove venivano accolti dalla madre di lui che dava loro un po’ di miele dallo stesso cucchiaio. Seguiva poi il pranzo di rito che prevedeva: “i maccaruna di zitu a stufatu”, ossia i maccheroni conditi col sugo di carne di maiale. Durante il pranzo, vi era il brindisi augurale accompagnato “ccu saluti” e poi iniziavano i balli.


L’indomani mattina, le due consuocere andavano a trovare gli sposi portando loro una ricca colazione a base di brodo di pollo, latte, caffè e biscotti. Era un modo per accertarsi che tutto fosse a posto. Di regola, gli sposini sarebbero rimasti in casa per otto giorni e avrebbero ricevuto le visite di amici e parenti che avrebbero portato come regali uova, caffè, zucchero, olio, pollame e frutta. La domenica successiva gli sposini sarebbero usciti per recarsi a messa e poi a pranzo e a cena dai rispettivi genitori.


Note bibliografiche:” Consuetudini nuziali del popolo siciliano tra ‘800 e ‘900” di Maria Raciti Maugeri

( tratto da  https://www.nuoveedizionibohemien.it/ )

 

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Edizione RodAlia - 01/12/2024
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