Cos’era:……. Era un’isola felice, un luogo di giochi e di tranquillità, l’erba cresceva alta che ci si poteva tuffare e nascondersi, veniva gente con il falcetto a fare erba per i conigli, riempivano i sacchi di fresco trifoglio, c’erano qua e là anche chiazze di camomilla, e verso est, vicino al muro di sassi ruisi che confinava con i campi, piante di petabrose” e ortiche, tante ortiche alte e terribilmente pungenti.
D’estate, quando il caldo era soffocante, venivano famiglie anche da fuori provincia e sotto le fronde degli ippocastani piantati lungo la riva, prendevano i “freschi” quasi come fossero in montagna, qualche rara volta passava un’automobile o una motocicletta creando un po’ di trambusto e alzando un polverone dalla strada ancora bianca, appena si sentiva il rumore da lontano, le mamme e le nonne sedute a gruppi davanti al “casamento” a chiacchierare, con avvertimenti e raccomandazioni, si preoccupavano che noi bambini non corressimo pericoli, ma l’unico possibile pericolo era una puntura di qualche ape che posata su qualche fiore selvatico, veniva calpestata da un piedino scalzo.
Cos’è: …….Un parcheggio, un grande e triste parcheggio, ben ordinato e illuminato, ma sempre un parcheggio per quelle macchine che da bambini temevamo e che in qualche modo ci stanno soffocando, quasi una vendetta, l’asfalto, i mattoncini, e i bassi muretti divisori, hanno preso il posto del trifoglio e le piante di camomilla, le famiglie da fuori città e provincia vengono solo per lasciare la macchina e poi passeggiare e far compere nei negozi delle vie del centro, c’è un gran “via vai” di automobili che passano per la strada una volta bianca e polverosa, scivolano via sull’asfalto senza alzare quel velo bianco e fastidioso, ma rendendo l’aria avvelenata.
I Ramenghi
Le mamme della piazza e del “terraglio” raccomandavo ai figli: state lontano dai ramenghi del raccomandabili e sempre infestate di pidocchi.
A noi ragazzini questa specie di ghettizzazione ci faceva comodo, ci sentivamo un gruppo unito,pronti a difendere il “nostro territorio”, nostri alleati fedeli erano “quelli del Margnan” ma solo perché c’erano dei “piedi buoni” che contribuivano a rafforzare le squadrette di calcio che via via si improvvisavano ogni giorno.
Un solo “piassarolo” era il benvenuto tra di noi, Ivano detto “Botte”, il figlio del direttore della filarmonica , i “cross” a foglia morta come li faceva lui….non li faceva neanche Mariolino Corso.
Le partite duravano fino a che c’era luce, poi stravolti per la fatica, sporchi e sudati ci stendevamo sull’erba commentando la partita e cojonandose l’un l’altro.
I Sopranomi
Chi si arrabbiava, chi lo subiva e chi ne andava fiero ma ognuno di noi ne aveva uno : Tito, Ciùa, Pèoco, Toto, Carota, Patata, Kòciss, Sabo, Tubo, Pana, Pèrora, Musso, Bromba, Guercio, Chico,Milo, Taca, Trottola, Botte, Zuzzola, Mòreja, Cavra, e tanti tanti altri. Ancora adesso per identificarci precisiamo il sopranome, ormai è impresso come un marchio.
I Giochi
Quanto abbiamo giocato….., d’estate e d’inverno e sempre all’aria aperta, naturalmente il calcio era quello più seguito, ma anche ladri e carabinieri, corse drio, bandiera, pìe e scondere, pìndolo, ceco spana , busette, quercetti e figurine. Bastava una decina di verini, o un pacchetto di figurine magari vinte a bianco o rosso, e ci sembrava di aver vinto il mondo.
La Fionda
Quasi tutti ne possedevamo una, chi avuta da un fratello più grande o chi costruita da se seguendo certe regole semplici ed essenziali.
Il legno doveva essere di nocciolo magari non giovane, l’apertura a V doveva essere di una benprecisa misura, ed il tutto esente da groppi. Scelta la parte , e tagliata a forma di Y, si levava la corteccia e la si metteva ad essiccare nel forno o sopra la stufa.
(AUDIO Seconda parte)
Intanto con cura veniva ritagliata la curamea, una striscia di cuoio morbido e resistente con duebuchi ai lati per far passare gli elastici quadrati di colore nero venduti in cartoleria, in mancanza di quelli si rimediava ritagliandoli da una camera d’aria di bicicletta.
Montato il tutto la fionda era pronta, spauracchio per cani, gatti, biserboe e strui, ma anche arma micidiale per bottiglie bussolotti vetri di finestre e vetrine.
La Fontana
Adesso è un po’ spostata verso casa Parisotto, ma prima faceva bella mostra di se quasi al bordodella strada. E’ sempre la stessa, di ghisa con quella forma esagonale, solida, quasi rassicurante.
L’acqua usciva fresca e pulita, toccasana per noi che, assetati, trovavamo refrigerio e soddisfazione.
Ma la funzione principale della fonte era quella di rifornire le numerose famiglie del casamento non ancora provviste dell’acqua corrente, si attingeva alla fontana con dei secchi che quotidianamente venivano riempiti, e poi trasportati sin dentro casa.
Le donne vi lavavano anche i panni, ricordo ancora la nonna sopra el masteo, vento o pioggia freddo o caldo, e quando d’inverno ghiacciava, per veder uscire l’acqua, bisognava dar fuoco alla paglia che veniva avvolta attorno alle tubature esterne.
La Neve
La scaruja che, i più fortunati possedevano, veniva preparata già da novembre, e si aspettava trepidanti la neve.
Poi quando finalmente i primi fiocchi cominciavano a cadere, già si era sulle rivette cercando di scivolare, se la neve non bastava all’imbrunire si bagnava la strada in discesa così che, il giorno dopo, per il ghiaccio formatosi la notte, si poteva scarujare, a volte si legavano le slitte una dietro l’altra e poi giù e su fino all’imbrunire, poi, bagnati come pulcini tornavamo a casa dove le mamme e le nonne ci cambiavano i vestiti vicino alla stufa che, con il suo tepore ci scaldava e asciugava. La neve per noi era come un’amica, una compagna di giochi che più volte ogni inverno ci veniva a trovare.
La Stea
Tusi, xe ora de cantar ea stea, la settimana prima di Natale formavamo dei gruppi e passavamo di casa in casa cantando questa tradizionale filastrocca, e dopo la strofa finale magari ripetuta più volte e cioè: …O signori di questa casa, fate- fate la carità, n’altra volta che vegnaremo, canteremo ancora de più, ….non c’era famiglia che non ci offrisse qualcosa, alla fine del “giro” si divideva quei quattro soldi, fieri di aver contribuito al bilancio familiare.
Ma poi finiva sempre che si spendeva tutto nel tabacchino della Palma a verini, figurine e pessetti di liquirizia.
I Casotti
Immancabili, per la fiera di autunno ed a carnevale, arrivavano i “casotti” per la gioia dei grandi e specialmente dei piccini, tutto il prato era pieno di baracche per il tiro a segno e giostre che ormai non si vedono quasi più, le montagne russe, l’autoscontro , l’autopista a otto, le gabbie ecc….
L’autopista però era la giostra più ambita, le automobiline a due posti, mosse da un motore elettrico seguivano un percorso a otto raggiungendo anche discrete velocità, le vetture più veloci e più contese erano le n. 11 e 12, la più massiccia la n. 4. Per me e per molti attuali automobilisti è stata certamente la prima scuola guida.
Se non si avevano i soldi per farsi qualche giro, ci bastava stare ai bordi e guardare ascoltando magari gli ultimi successi discografici di Elvis Presley, Belafonte, Paul Anka, Platters, Neil Sedaka, Pat Boone e tanti altri.
Quando dopo 15 o venti giorni partivano, lasciavano il prato in condizione pietosa e a noi non ci restava che andare a cercare i pallini di piombo che in notevole quantità si accumulavano per terra ai bordi dei tiri a segno.
Il Circo
Altro momento importante per la vita del Prato e dei suoi grandi e piccoli abitanti era la venuta del circo.
Le prime carovane già cominciavano a scendere pian piano dalla strada polverosa sin dal primo mattino, e noi se non c’era scuola, ci offrivamo come aiutanti per guadagnarci il biglietto per lo spettacolo, oppure approfittavamo dell'amicizia di qualche inserviente per entrare gratuitamente e guardare lo spettacolo accovacciati sotto le tribune di legno.
Personalmente ho fatto amicizia con Orlando Orfei, grande domatore e buonissima persona, mi fece accarezzare la sua leonessa preferita, quella che durante il numero, fingendo di essere colpita da una fucilata, si buttava a terra come morta e poi, nonostante gli ordini, le minacce e le implorazioni non c’era verso che si rialzasse fintanto che Orlando non gli dava una caramella.
Fu la stessa che lo difese dall’attacco di un leone durante uno spettacolo, salvandogli la vita.
Quando il circo partiva, nonostante il prato venisse pulito, la puzza ristagnava per giorni ebisognava aspettare che passasse per poter ricominciare a giocare.
El Tiro
A nord del Prà, un cancello di ferro era l’entrata del “tiro”, un campo di tiro al volo dove durante la bella stagione, quasi ogni sabato e domenica, si davano appuntamento i “siori” appassionati di questi sport che, parcheggiando le loro splendide vetture all’interno del recinto, dava modo di vedere da vicino le auto lussuose che solo sentivamo nominare.
Si poteva ammirare così la Lancia Flaminia nelle varie versioni coupè berlina e decappottabile, le potenti Maserati e le mastodontiche Mercedes, nonché le Ferrari che già rappresentavano un mito irraggiungibile.
Ma la ragione per cui noi ragazzini frequentavamo il “tiro a volo” era ben altra, infatti a turno, aiutavamo portando i poveri piccioni e strui dentro le gabbiette al centro del campo di tiro, dove poi al “pul” del tiratore, con un comando elettrico veniva aperta la gabbia, il povero volatile di turno libero ma spaventato dal rumore dell’apertura, volava via….eee…pamm..pamm.
Qualcuno ferito riusciva a superare lo steccato e posarsi sugli alberi vicini, ma erano sempre pronte le nostre fionde a completare l’opera.
La Canaletta
Era lo scarico della conceria che c’era in via IV Armata, dove ci lavorava mio nonno, dalla fabbrica il liquame scendeva intubato e interrato sotto la statale, dopo aver attraversato i campi dei “Moretti” e la parte nord del “Pra”usciva a cielo aperto costeggiando tutta la parte ovest dello stesso, lacanaletta appunto, poi si interrava di nuovo sino in Brenta.
Profonda 30-40 cm, e larga quasi un metro e scavata direttamente nella terra, anche lei era motivo di giochi, il segnale era la schiuma che usciva dal pozzo di decantazione posto appena sotto la strada Valsugana e poco dopo, sicuramente, il flusso di acqua sempre più intenso di color blu scuro sarebbe uscito dal tubo , noi ci divertivamo, mani e piedi in quella schifezza, con piccole dighe a cercare di fermare lo scorrimento.
Inutilmente venivamo rimproverati e invitati ad evitare il contatto con l’acqua se no ciapè ea peste, ma saranno stati i robusti anticorpi di una volta o semplicemente fortuna, fatto sta che nessuno di noi si ammalò (almeno credo).
Le Scarpanse
La schiusa avviene sempre ai primi “caldi”, assomigliano a dei piccoli maggiolini di colore marrone, innocue, si potevano prendere con le mani, noi le mettevamo in barattolini a cui avevamo fatto dei piccoli buchi sul fondo, poi quando era pieno, con infantile e sadica innocenza, li mettevamo nel fuoco per sentire i piccoli scoppiettii degli insetti che gonfiandosi per il calore esplodevano. Era un “gioco” che durava un paio di giorni, come improvvisamente erano apparse, le scarpanse scomparivano.
( Audio terza parte )
El Ju-box
Nelle calde sere d’estate, mentre le mamme e le nonne prendevano i “freschi” chiacchierando sedute a gruppi davanti al casamento e i fidanzati smorosavano seduti sull’erba, noi salivamo le
rivette attratti come i topi del pifferaio magico, dal suono del “Ju-box”.
Questo scatolone pieno di luci e suoni si trovava al Caffè Italia, splendido punto panoramico, dove i siori seduti sui tavolini, godevano dell’arietta fresca della Valsugana.
Accovacciati e nascosti dietro la siepe, spiavamo tra le foglioline e ammiravamo le “belle e i belli” di allora, mangiavamo con gli occhi i gelati che venivano serviti ai tavoli e quando qualcuno gettava la coppetta di cartone verso di noi, con un dito raschiavamo il fondo per sentirne ancora il sapore.
I siori arrivavano con le loro auto spider e con i primi vesponi, atteggiandosi vanitosamente attorno al ju-box dal quale usciva la voce di Marino Marini e Barreto Junior che cantavano rispettivamenteMarina e Angeli Negri. Erano praticamente i primi albori di un periodo di spensierata e provinciale dolce vita
I Strui
All’imbrunire arrivavano dalla Valsugana a centinaia, erano gli strui o storni. Volavano a gruppi e alla vista delle prime case del Viale dei Martiri, si abbassavano per raggiungere la Piazza Libertà eposarsi sui cornicioni o dovunque trovavano un posticino libero sull’esterno della chiesa di S. Giovanni.
Li aspettavamo distesi sulle rivette e “armati “ delle nostre fionde, facevamo a gara per colpirli. La curamea della fionda veniva modificata come un piccolo sacchetto e li ci mettevamo una ventina di pallini di piombo che avevamo recuperato in gran quantità setacciando la terra dove si trovavano le baracche dei tiro a segno.
Si otteneva così una discreta “rosa”, che colpiva qualche struo, ma non così efficacemente da farlo cadere, ci bastava però vedere le loro evoluzioni per divertirci, ci sentivamo come una batteria contraerea contrapposta a stormi di bombardieri.
E Biserboe
Nel momento di maggior calura, a gruppetti e sempre con le nostre inseparabili fionde, si organizzava l’immancabile battuta alle biserboe. Cominciando dalla mura dei Moretti, ad una distanza di 4/5 metri, si esaminava con lo sguardo tutte le insenature dei sassi, i buchi ed i possibili nascondigli. Via via estendevamo la caccia alla mura dei Veneziani, delle Suore e Ca’Tonde, si scendeva per el caneseo che va in Brenta per poi risalire per la riva del Margnan.
Le povere lucertole non avevano scampo, appena una metteva fuori il muso dalla propria tana, o ancor peggio venivano sorprese semi-addormentate a crogiolarsi al sole, per loro era la fine.
El Fioreto
A maggio, mese notoriamente dedicato alla Vergine Maria, venivano celebrate a Suo Onore delle funzioni presso la chiesetta delle Annette. Tutte le sere al vespro, la campanella della chiesa chiamava a raccolta i fedeli del Prato e del Margnan e tutti assieme si recitava il Rosario, si ascoltava un po’ di predica e dopo la benedizione finalmente si ritornava ai giochi.
A turno il prete chiamava sempre un paio di noi per fare i chierichetti, io ne ero ben felice di servire sull’altare, sino al giorno che, per punirmi per essermi distratto guardare le educande, mi diede una sberla davanti a tutti.
I Frati
L’antico convento si trova alla fine del Borgo Margnan, molto frequentato sia dai fedeli del posto sia da quelli cittadini e pure da tanti forestieri. Allora come adesso c’era chi si confessava, chi cercava una parola di conforto e chi veniva anche a pranzare alla mensa dei poveri.
Ogni sabato pomeriggio la maggior parte di noi ci confessavamo da Padre Bernardo, un vecchio frate che ci riceveva nella sua piccola cella dato che a causa della paralisi alle gambe non poteva raggiungere i confratelli nei confessionali.
La preferenza per questo frate era dovuta dal fatto che ci sbrigava in fretta e dato che era duro d’orecchio e ci dava poche penitenze, snocciolavamo tutti i nostri peccatucci giovanili senza tanto vergognarci ma sempre un po’ timorosi data la presenza di un teschio in bella mostra in una nicchia, che contribuiva a rendere il luogo cupo e misterioso.
Un altro frate da noi molto amato era El Vescovo, a dir il vero non vestiva come un cappuccino, macome un prelato di alto rango, quando passava per il Prà, correvamo da lui per baciare il Crocefisso legato con un cordone che ciondolava al suo fianco, sapevamo che per premio ci regalava dei zuccherini colorati che teneva in una vecchia scatoletta di metallo che scherzando, fingeva di non trovare, facendoci stare così in ansia fintanto che frugava nelle profonde tasche del mantello.
Storti e Pana
Altro dolce appuntamento solitamente pomeridiano era il passaggio de l’omo dea pana. Alto, magrissimo, il viso un po’ arrossato e vestito con pantaloni e giacca di fustagno, lo si sentiva arrivare dal solito richiamo….storti e pana……pana e storti…..
Con la bicicletta per mano dove appoggiava il piccolo mastello che copriva con un candido panno bianco, con passo allungato di chi è avvezzo a camminare molto, veniva circondato immediatamente da un nugolo di ragazzini, …na pana da diese, na pana da venti, e per il più fortunato o ingordo…na pana da ventisinque…l’omo dea pana dava una veloce rimescolata nel recipiente di legno per farla montare e poi con abile mossa, con un mestolino, raccoglieva la panna a mò di ricciolo in modo che l’aspetto era voluminoso ma l’interno era vuoto.
La squisitezza era proverbiale, infatti erano prodotti rigorosamente naturali, la panna veniva raccolta dal latte di mucche al pascolo in montagna e gli storti li impastava la moglie, che dopo avere tirato la pasta e tagliata la stessa a fazzolettini triangolari, opportunamente avvolti a cono, venivano cotti sulla piastra della “cucina economica” a legna.
El Brenta
Ci andavamo de scondon, le raccomandazioni si sprecavano, no sta ndare in Brenta, che te-te neghi,….era il solito ritornello, ma noi imperterriti, con la scusa di andare a confessarci, raggiungevamo i nostri posti preferiti, le busette, el prion dea gata, el prion dea nave, qualcuno andava anche in rosta, ma era troppo pericoloso ed io ho sempre preferito la zona al di sopra della centrale.
Camminavamo a piedi nudi tra i sassi ruisi che affioravano a pelo d’acqua ignari del pericolo che rappresentavano i cui de bottiglia, e quando la profondità ce lo permetteva, ci tuffavamo a rischio di qualche botta, ma tutto sommato il divertimento era assicurato.
Il Brenta è stata la nostra piscina, era impensabile raggiungere qualche città per usufruire di qualche struttura che allora già funzionava, ricordo che qualche timida voce chiedeva che ne fosse costruita una a Bassano, ma il dissenso di qualche benpensante, Arciprete in testa, ne impedì la realizzazione, dicevano che solo la presenza di persone in costume da bagno, poteva essere causa di scandalo. Al posto della piscina però vennero costruiti dei campi da tennis e guarda caso proprio nell’area del Patronato.
( Audio quarta parte )
Me Nono
Era conosciuto come Toni Marcon per via di un suo bisnonno, un uomo grande e grosso di nome Marco, da cui Marcon. Lavorava come conciatore nella vecchia conceria Chiminelli, quella da dove fuoriusciva l’acqua della canaletta.
Era un lavoro duro, alla sera arrivava sempre molto stanco, d’inverno lo vedevo che scendeva giù dalla riva avvolto nel suo tabarro, con il cappello nero e il fumo della pipa che lo avvolgeva accompagnandolo con un alone grigio, giunto a casa, si sedeva a tavola e dopo aver cenato ascoltava con attenzione le notizie di “Radiosera”, verso le nove dopo aver caricato l’orologio da taschino, salutava e and ava a dormire.
Il nonno era di poche parole, d’estate terminava di lavorare che ancora era chiaro, prendeva una sedia e si sedeva vicino al muro accanto al piccolo portico del casamento, se ne stava in silenzio a fumare la sua immancabile pipa, ogni tanto usciva con qualche battuta sagace, provocando le risatedee femane sedute poco distante, le quali, chi lavorando a maglia, chi rammendando calzini o anche ricamando e magari anche confezionando ombrelli, ciacolavano e spettegolavano su tutto e su tutti.
Nei pomeriggi del sabato o della domenica, ascoltava le romanze operistiche che trasmettevano per radio e dato che era un po’ sordo, teneva il volume sempre troppo alto, inutilmente la nonna o qualche vicina lo redarguiva dicendogli ..Toni..sbassa!!… Lui per un po’ teneva basso, ma quando cantavano qualche romanza a lui cara e che lo faceva commuovere, c’era poco da rimproverare, la voce del Corelli che cantava “Un dì dall’azzurro spazio”, dall’ Andrea Chenier , si espandeva nella corte, mescolandosi con le voci ed i rumori di una comunità molto unita e tollerante.
Il suo unico diversivo erano un paio d’ore passate al Bar del Castello, la domenica prima di cena, a veder giocare a carte, beveva un quartino di bianco poi tornava a casa per la riva bassa, d’estate sempre con l’immancabile pipa, cappello nero e d’inverno anche con l’inseparabile tabarro.
Me Nona
Logicamente essendo moglie de Toni Marcon, me nona veniva chiamata Maria Marcona, tutti laconoscevano con questo nome, pure la postina le si rivolgeva così quando dall’ingesso del piccolo portico chiamava a voce alta i destinatari delle lettere.
Di origine furlana, da giovane si trasferì a Venezia a servissio di una nobildonna, il marito era un possidente proprietario di alberghi tra cui l’Hotel al Monde e l’adiacente ristorante Ak Sole di via Vittorelli, là incontrò mio nonno che faceva il “cantiniere” per poi, dopo sposata si trasferì a Bassano. Non dimenticava però la sua terra d’origine, mi parlava sempre con nostalgia di Budoia, uno splendido paesino proprio ai piedi delle Prealpi Carsiche , vicino alle sorgenti del Livenza.
Da bambino ci sono andato per 3 o 4 anni di seguito, mi ricordo ancora le lunghissime passeggiate con lo zio Mario, per stradine sterrate costeggiate da noccioli che declinando dolcemente portano verso la pianura, era anche il tempo in cui si stava costruendo la vicina base militare americana di Aviano, che inconsciamente, passando, ne vedevo i lavori senza sapere di quale enorme rilevanza strategica avrebbe avuto in seguito.
Da vera furlana, me nona era una donna forte sia fisicamente che di carattere, in qualunque stagione e con qualsiasi tempo, non si perdeva un mercato, di buon mattino passava con lo sguardo i banchi di verdura e frutta cercando i prezzi più convenienti, poi stracarica di sporte tornava a casa per la riva bassa, non prima di avermi comprato un pezzo di pan con l’ua di cui ne andavo ghiotto.
L’unico svago che si concedeva di solito al sabato sera e alla domenica pomeriggio, era la Pissotta, antico gioco molto simile alla Tombola ma con le figure al posto dei numeri. La “bisca” si trovava a casa della Nanea, proprio sotto dove abitava, era d’uso che le partecipanti al gioco si portassero la sedia e all’inverno, un pezzo di legno per la stufa, così si contribuiva a scaldare l’ambiente.
Qualche volta partecipavo anch’io, ricordo la nebbia del fumo delle sigarette e le battute ogniqualvolta qualche figura che usciva dal sacchetto delle bale, poteva essere causa di commenti a doppio senso.
D’estate le giocatrici si trasferivano in corte, proprio dietro al casamento, e tra quelle che venivano dal Margnan, dal Prà e da-ea Piassa, si riunivano anche una quarantina de femane, le quali passati i momenti di silenzio per capire meglio le figure che si estraevano, dopo che la vincitrice proclamava con soddisfazione il classico….a gò fata….i commenti si sprecavano, …a stavo par un,….mi par do……cambiame e cartee che queste le xe scarognae…..cossa gheto pestà che te vinsi sempre ti……..e via di questo passo con un vociare assordante.
Duranti i giochi tra noi bambini, guai chi che me tocava, quando capitava che per qualche immancabile litigio, ci spintonavamo un po, era subito pronta a prendere le mie parti redarguendo tutti gli altri, anche quando avevo torto.
Successe un giorno che un ragazzo più grande per sbaglio mi diede una brutta bastonata in testa facendomi cadere mezzo svenuto, la nonna intervenne come una furia, sembrava una chioccia che difendeva il proprio pulcino, dopo aver dato una bella sberla al “colpevole” mi prese in braccio, e di corsa mi portò a letto, tenendomi immobile e con una bistecca di manzo sulla testa per far vegner fora ea bota.
Forse per il fatto che ero bambino, o perché inconsciamente la vedevo così, ma la nonna mi sembrava molto grande e robusta, e questo fino al giorno che sono andato a trovarla all’ospedale dopo il primo grosso intervento operatorio a causa di quel male che la portò alla morte.
La vidi raggomitolata in quel letto messo provvisoriamente in un corridoio, e mi accorsi di quanto il male la stava facendo soffrire, era notevolmente smagrita e mi sembrava anche molto più piccola di come la ricordavo.
Nonostante i dolori, ebbe la forza di farmi le solite raccomandazioni e salutandomi con una carezza non scordò di ripetermi il suo solito..”sta- tento a strada!!”