Vale anche adesso, ma certamente valeva moltissimo una volta, quando non c’erano tanti supermercati ben forniti e soprattutto non c’erano portafogli altrettanto pieni, saper costruire e organizzare un bell’orto. Almeno per chi disponeva di terra, fosse anche un fazzoletto. Un orto come si deve garantiva prodotti da portare in tavola per diversi mesi, freschi nelle belle stagioni, o sotto forma di conserve nei mesi invernali. C’era tutta una tradizione e una sapienza che veniva da lontano per costruire le vanèse, selezionare e conservare i semi, cosa mettere vicino a cosa, piantare e trapiantare le pianticelle, curarle e farle crescere rigogliose.
Questo per le verdure. Per la carne c’erano il pollaio, magari anche le conigliere, ma soprattutto el mas-cio. Però bisognava difendere l’orto dagli animali, che volentieri sarebbero andati a fare scorpacciate di insalate e a rovinare tutto. E se coi polli e conigli poteva essere facile perché bastava qualche precauzione come una recinzione anche leggera, così non era coi maiali, specie se abituati a girare con una certa libertà. Quando mio nonno, Piero Maragonseo, faseva su el mas-cio, per gli abitanti della contrada (via Colombare) era un avvenimento.
Qualche settimana prima cominciavano già a circolare le ciacole sul possibile peso del maiale e le varie possibilità di una resa migliore rispetto all’anno prima; il mattino “dell’esecuzione” poi, una decina di persone si radunavano nella corte proprio davanti al grande portico per assistere all’evento e magari commentare se, a seconda della durata dell’agonia della povera bestia, il santissaro avesse iniziato bene o male il proprio lavoro. Tutto veniva preparato per tempo; el caliero pieno d’acqua veniva appeso alle catene di ferro tutte infumegae che scendevano all’interno del camino del fogoear, pertanto, la nonna Ina doveva solo alzarsi presto per dar fuoco alle fassine de visea che il nonno aveva bruscato in primavera e poi legato con cura. Anche la cusina-economica, di marca rigorosamente Aequator, faceva la sua parte: stracarica de pignatte colme d’acqua e riempita di legna, tra brontolii, scoppi e sfoghi di vapore pareva una locomotiva! Il nonno e lo zio Carlo avevano, non senza qualche difficoltà, agganciato al soffitto del portico due robuste corde che scendevano a terra sino a sfiorare il pavimento di cemento; accorciate a misura, ad esse veniva appeso il maiale per le gambe posteriori favorendo così l’opera di squartamento. Finito tutto, queste corde diventavano per noi bociasse un’ottima altalena, ma bisognava stare molto attenti a non darsi troppo slancio: un attimo di distrazione e si sbatteva contro il muro con le immaginabili conseguenze … La vanduja era li in bella mostra nel cortile, pronta a ricevere il maiale appena sgozzato; sistemata in essa la bestia, venivano versati fiumi di acqua bollente, la pelle veniva raschiata e pulita con cura tanto da farla venire liscia e rosa come quella di un essere umano.
Tutto era pronto e ognuno aveva il proprio compito da eseguire. Io, che per l’occasione mi prendevo un paio di giorni di vacanza da scuola, dovevo tenere il maiale per la coda; il nonno, lo zio e qualche volonteroso dovevano invece tenerlo fermo chi per le orecchie e chi per le gambe. Anche la nonna, con in mano il catino, era pronta a raccogliere il sangue che, mescolato poi al cacao, uvetta, pinoli e qualche altro ingrediente, serviva per fare una gustosissima torta ultracalorica.
“Eeee..zacchete”, ed il lungo coltello del santissaro, penetrando a fondo da appena sopra alla spalla sino all’aorta, poneva fine alle grida stridule che la bestia aveva emesso sin dalla porta del porcile, immaginando forse la propria sorte; seguiva ancora qualche convulsione, per la disperazione della nonna che a malapena riusciva a raccogliere il sangue sufficiente, e tutto era finito.
Dopo aver appeso il maiale alle corde e apertagli la pancia, si toglievano per prima le buee, che ben lavate dovevano contenere la carne per fare salami, salsicce, sopresse ...e si gonfiava la vescica che serviva per conservare lo strutto. Divisa la bestia in due parti e, lasciatala appesa per ventiquattrore a passarse, la si appoggiava poi sulla grande tavola di legno chiaro e con i bordi rialzati (che nell’ampia cucina veniva solitamente sistemata sopra a quella di uso comune) e la si scarnificava scegliendo le varie parti adatte ad essere, dopo averle macinate, insaccate. Rammento benissimo con quanta cura la nonna, scelto il pezzo migliore ( ossia l’osso sacro e la polpa che sta attorno) me lo cucinava ai ferri: doveva essere una cosa proprio ambita visto che provocava sempre il bonario risentimento dei miei zii che si dovevan accontentare delle costine!
Ah dimenticavo, bisognava procurare poi lo stampo per le martondee!!
Le suddette martondee altro non erano che il primo insaccato ottenuto ed anche quello che si doveva consumare subito, dato l’alta degradabilità dei componenti: avevano la forma di polpette ma erano di più grandi dimensioni, il loro impasto era tenuto insieme da una pellicina sottile e striata da tante venette: a tal proposito, la forma la si poteva ottenere solo con l’ausilio dell’apposito stampo….dicevano i grandi! Il compito di procurarlo spettava a me ed agli altri ragazzini presenti che, muniti di un paio di sacchi di juta, dovevamo andare fin su sul Monte dei Mori o dei Marangonsei a chiedere a tale famiglia se ce lo prestavano. Le persone che abitavano là, già d’accordo con i nonni e gli zii, mettevano di nascosto in quei sacchi dei grossi sassi e raccomandandoci di non aprirli, data la cura e la fatica che avevano posto per legarli ben stretti col fil de fer, ci guardavano poi mentre con notevoli sforzi, cercavamo di trascinarli fino a casa.
Dopo parecchio tempo son venuto a sapere che tutto ciò altro non era che un’espediente per levarsi di torno dei rumorosi e mai fermi marmocchi. Quando i primi salami prendevano forma, venivano appesi su delle stase davanti al fogo-earo. Compito mio era di tener il fuoco vivo per far in modo che i salumi ottenuti si asciugassero a dovere prima di essere portati in cantina, e per questo allora sotto con la legna nonostante i goccioloni di grasso che cadevano sulla testa. Il lavoro proseguiva così tutto il giorno, con buona lena; ogni tanto il santissaro si fermava per un giosso de nero e poi ricominciava a macinare, insaccare, legare, appendere, fino a riempire tutte le stase, per poi alla fine godersi lo spettacolo: tutti sti sa-aeadi , musetti, sopresse semplici o investie , ossocoi, pansette, bondoe, bondoete e luganeghe.
Tutto contribuiva a rendere il soffitto della cucina bello come un affresco! Era proprio una festa e, nonostante i primi veri freddi dicembrini, si era tutti accalorati e dimentichi del rigore del clima. Passati poi tre o quattro giorni, i salumi venivano trasferiti in cantina per la stagionatura, non tutti però: la metà il nonno, da buon mezzadro, li portava nella cantina del Paron, che ne aveva il diritto. Così tutti gli anni.
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Una volta solo le cose an>darono diversamente… Tutto cominciò dal giorno che a mas-cia ga fato. Non finivano più di nascere, furono così tanti che le tettine della scrofa non bastavano per tutti ed il più piccolo si trovò spesso fora teta, e cioè senza pasto, indebolendosi sempre di più. Lo si poteva riconoscere oltre che dalle dimensioni notevolmente minori , anche da un ciuffo di peli neri sulla testa che contrastava con il resto della pelle tutta rigorosamente rosa. Era una pena vederlo affamato e indebolito mentre cercava di insinuarsi in mezzo ai fratelli in cerca del tanto agognato capezzolo. Niente da fare! Respinto, spostato e calpestato, non gli restava altro che mettersi in un angolo e sperare che qualcuno gli cedesse il posto.
Era l’unico maialino che, mentre tutti i fratelli ben pasciuti dormivano, restava sveglio dalla fame, ma ormai la scrofa si era alzata e non c’era verso di farla nuovamente sdraiare. Alla nonna però venne un’idea: con un mio vecchio biberon riempito di latte di vacca e un po’ di miele, fece una poppa artificiale e provò a darglielo. Ci fu solo un istante di indecisione, poi la fame fece il resto ed il maialino si pappò il latte in un amen. E così tutte le volte che gli altri mangiavano, la nonna portava il biberon a Martìn, (lo avevo chiamato così), e lui la aspettava vicino alla piccola recinzione che impediva il disperdersi dei cuccioli, per poi, ben pasciuto, andare a dormire insieme a tutti gli altri sotto la paglia che fungeva da lettiera.
Qualche tempo dopo, una sera, la nonna tornò un po’ tardi dai campi e dimenticò di preparare il ciuccio a Martìn. Se ne ricordò solo quando lo vide o meglio lo sentì grugnire la davanti alla porta della cucina con un fare indispettito per la dimenticanza. Il birbante, visto che i fratelli stavano poppando e che la nonna non arrivava, aveva saltato il recinto per presentarsi a reclamare il solito mezzo di latte al miele!! E così poi fece tutte le altre volte: non occorreva portargli il pasto, veniva lui a prenderselo!! Quando venne il tempo di vendere i maialini e di tenere solo quello da allevare, si decise di tenere Martìn. La cura di latte e miele lo aveva fatto diventare grosso e forte come gli altri e poi ormai lo si poteva considerare come una mascotte !
Ogni mattina aspettava impaziente che nonno Piero venisse ad aprire le porte dello staeotto, tuffava il muso nel lebo sbaffandosi le spuentaure che la nonna gli aveva preparato per poi trotterellare libero e felice nel cortile e nei campi. A volte lo accompagnava anche Lea, la cagnetta bastardina bianca e nera che, era solita nascondersi tra l’erba alta e saltare fuori d’improvviso abbaiando. Ricordo che lui imperterrito si spostava appena e con un grugnito proseguiva per la sua strada, stava fuori poi per tutto il giorno per rientrare solo all’imbrunire.
D’estate amava stare disteso sotto l’ombra della grande saresara che troneggiava nella corte; a volte poco più in la il nonno batteva la falce, e il “deng deng” del martello informava la borgata che il giorno dopo si sarebbe falciato el fen. Quell’anno in casa de Piero Maragonseo si mangiarono ben pochi ortaggi: Martin, non contento delle suche e dei meoni che trovava in mezzo al sorgo, era entrato nell’orto e aveva divorato tutti i sucati, meansane e pomodori; non ancora contento aveva poi rivolto l’attenzione anche alla tenera saeata e ai germogli dei radici appena piantati e destinati ad essere messi in “bianco”, e cioè al momento giusto trapiantati in cassette che venivano poste in un luogo buio per far si che si sbiancassero per poi essere consumati durante l’inverno magari, con una calda fetta de poenta brustoeà.
Il nonno lavorò un paio di giorni per risistemare il recinto, ma inutilmente, quelle assi messe per protezione forse servivano a tenere a bada le galline, non certo un quintale e passa di furia affamata! E così al termine del lavoro poco dopo Martin aveva nuovamente divelto tutto sbafandosi il poco raccolto rimasto. Ancora insoddisfatto, il suo olfatto lo portò a grufolare nel campo di patate situato nel tratto dove anticamente il milanese Visconti aveva fatto il “vallo” con l’intento di deviare il Brenta dal suo corso.
Questo tratto rettangolare era pieno di sassi, quanti ne ho visti portar via dal nonno con la carriola, non finivano mai, il terreno però sapeva come ripagare cotanta fatica, infatti le patate, che del resto era l’unico prodotto in grado di crescere, erano buonissime, di tipo bianco e farinoso, proprio quello che ci voleva per fare gli gnocchi ed il purè che a me piaceva tanto.
Me la rivedo ancora la nonna con in mano una “canevera” di banbù che cerca di scacciare Martìn, appena però lei girava l’angolo per sbrigare le faccende di casa, il furbacchione ritornava per continuare l’opera vandalica. Alle volte Martìn andava dietro la casa a mangiare le radici di una pianta dai fiori rossi a forma di grappoli che cresceva spontanea, le masticava a lungo per ridurli in poltiglia e dopo averli inghiottiti si sdraiava all’ombra a dormire. Qualche anno dopo venni a sapere che quella pianta dai fiori a grappolo era la Valeriana Rossa, le cui radici avevano la proprietà sedative, antispasmodiche e antinevralgiche. Praticamente era una sua maniera di smaltire l’indigestione.
Si pensò bene allora di tenerlo chiuso nello staeotto, ma lui, approfittando di un momento di distrazione della nonna che gli portava da mangiare, inforcò la porta sparendo nei campi. Stette via un paio di giorni, lo si vedeva in lontananza che girovagava ma, non c’era verso di richiamarlo. Evidentemente temeva di essere nuovamente rinchiuso! Quando aveva voglia di frutta andava sotto gli alberi a cercare i pomi e i peri caduti, ci pensava lui a tenere pulito il frutteto. Imparò anche a farli cadere con dei colpi di groppone bene assestati sul tronco della pianta, ogni volta che sentiva cadere il frutto smetteva di battere e controllava il punto di caduta, poi individuato l’obiettivo con un grugnito si avventava inghiottendolo in un boccone.
Fu anche di qualche utilità, come quella volta che impaurì la poja che si stava avventando sui pitarei, permettendo agli stessi di rifugiarsi nella crio-ea dove la ciocca , accortasi del pericolo li stava inutilmente richiamando. O quando, in un afoso pomeriggio d’agosto, assieme alla Lea, si era parato davanti a due strani ceffi che erano entrati nel cortile e, tra il dondolare della testa e grugniti minacciosi, aveva svegliato il nonno che stava dormendo, il quale accortosi della situazione li allontanò redarguendoli. Io non avevo nessun timore di lui, gli grattavo sempre la groppa e quando estasiato si sdraiava, allungava il muso per farsi grattare il sottogola. Spesso lo rincorrevo o mi rincorreva lui; quando non lo vedevo bastava che lo chiamassi : Martiiiiiin Martiiiin….di sicuro mi rispondeva con il suo solito acuto strillo, poi grugnendo arrivava trotterellando nonostante la mole. Andava d’accordo con tutti, persone o bestie che fossero, solo col Rosso c’era un’antipatia reciproca.
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Il Rosso altro non era che uno splendido gallo, più grande della norma; si era distinto già da pito per la ferocia con cui beccando i suoi fratellini, imponeva la propria volontà. Cresciuto aveva esteso il proprio carattere dominante nei confronti di tutti gli abitanti del pollaio, galline , oche o anitre che fossero. Dal portamento nobile e dal piumaggio sgargiante che andava dal rosso rame al blu cobalto fino al giallo più vivo, con frequenti cooo…co co co co..teneva tutti sotto controllo e pretendendo rispetto e sottomissione, era capace persino di fronteggiare ed attaccare le persone.
Io, per esempio, ne avevo il terrore : spesso, vedendomi da lontano, piegando il collo in avanti e aprendo le ali, correva verso di me per beccarmi in testa e ferirmi con quei potenti rostri acuminati, costringendomi a scappare per rifugiarmi da uno dei nonni oppure da Martìn, che caricandolo a testa bassa lo ricacciava nel punaro. Di una sola cosa Martìn aveva paura: del temporale. Un mattino di luglio, in particolare, e si sa che i temporali che si scatenano prima di mezzogiorno sono i peggiori, ne arrivò improvvisamente uno veramente pauroso verso le undici, ma non dal Garda come al solito, ma dal Furlàn, e a detta dei grandi quando veniva da est il pericolo accresceva. Il nonno lo teneva d’occhio sperando non oltrepassasse il Brenta, perché, diceva lui, passato il fiume “a jera fata”; con questa espressione intendeva dire che, ormai nulla, neppure la corrente d’aria della Valsugana, lo poteva più allontanare e si poteva sperare solo nella Provvidenza Divina o nei riti tra il sacro ed il profano, tramandati da secoli, che la nonna puntualmente eseguiva! Infatti in quei casi la nonna Ina predisponeva nella corte tre forche con le punte in alto messe in modo che si sostenessero a vicenda e poi, acceso l’incenso e foglie di ulivo che metteva nella paletta di ferro della stufa, andava a infumegare avanti e indietro accompagnandosi con litanie.
Fu tutto inutile, la tempesta cominciò a cadere sempre più fitta e suta. Si videro le prime foglie bucherellate, i fiori, le bellissime dalie e le boche de leon che la nonna coltivava con amore cominciarono a spezzarsi, el sorgo a spearse e le visee perdere i graspeti e caii: Un vero disastro!
Lo sconforto stava prendendo sempre più piede quando, come a volte succede in queste tragedie che sembrano piccole ma per un contadino sono immani, a volte ripeto, basta un niente per far si che l’avvenimento venga ricordato più per la situazione comica che per i danni. E così avvenne: la saeta cadde improvvisa e fu come se il tempo si fermasse. D’un tratto una luce accecante e subito dopo il rumore, fortissimo. Il fulmine si era scaricato sulla povera nogara posta ad una ventina di metri dalla corte, spezzandola a metà. La paura fece fare un balzo alla nonna che, terrorizzata, gettò via paletta e incenso e scappò in cantina, accompagnando la fuga con più di qualche masaneta. Il rumore fece si che anche Martìn, che stava dormendo poco distante dall’albero colpito, scappasse ed evidentemente il terrore fu tale che strillando corse a rifugiarsi nello sta-eoto, rimanendovi fin al dì dopo.
Da quel giorno quando el tempo tambarava, il nonno teneva sempre d’occhio el mas- cio, e se lo vedeva che rientrava nel porcile, chiamava tutti a far su marei de fen, perché cosi’ diceva –“ de sicuro riva el temporal”. E così giorno dopo giorno il momento tanto atteso gli altri anni e, stavolta tanto temuto, stava per arrivare. Martìn era uno spettacolo: evidentemente la dieta libera di cui s’era giovato, lo aveva fatto diventare un esemplare da esposizione. Era grosso che riusciva a stento trottare, il peso e la mole lo costringevano ad assumere un’andatura goffa e pesante, faceva fatica buttarsi a terra per farsi grattare la gola, e ancor di più rialzarsi. Era proprio un bel mas-cio da saeadi!
Però l’allegria che precedeva il momento fatidico non era quella di sempre, di malavoglia se picò el calier nel fogoear e le corde nel portego. Io preferii andare a scuola e gli ultimi istanti di Martìn mi furono raccontati dallo zio…si perché il nonno solo a parlarne el se ingroppava…
Lo zio mi disse che quando aprì le porte del porcile, Martìn usci’ fuori subito come sempre, e andò tranquillo verso il nonno che, vicino alla vanduja, lo chiamava mostrandogli un bella pagnotta. Non sembrò far caso ad un uomo mai visto che teneva un braccio dietro la schiena: mica poteva immaginare che quello era il suo carnefice e quel braccio nascondesse un affilato coltellaccio! Datogli il pane si aspettò che Martin grugnendo per la soddisfazione lo mangiasse. Il nonno poi insegnò a Jijo Marangonseo, el santissaro, come grattarlo in modo che, come al solito, si sdraiasse ed allungasse il collo, poi si girò e non volle guardare, e fu in quel momento che il lungo coltello penetrò a fondo nella carne tenera, fino all’aorta. Martìn emise un acuto grugnito di dolore ed anche di sorpresa.
Senza la forza di rialzarsi girò la testa come in cerca di aiuto, non vide la nonna che, stavolta, non volle saperne di prendere il sangue per la torta, né lo zio che girato di schiena si era nascosto dietro la saresara, vide solo il nonno che a testa bassa per non vedere, si allontanava su per el cavìn che portava verso la riva.
Forse provò anche a cercarmi con lo sguardo, per vedere se almeno il piccolo compagno di tanti giochi era là per aiutarlo, forse tentò di emettere quel solito grugnito stridulo come quando rispondeva al mio richiamo. Questo non si può sapere, certo è che Martìn morì dopo pochi istanti.
Il santissaro aveva iniziato bene il proprio lavoro.