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Personaggi aliesi di una volta_2
 

Fonti documentali:
Periodico "La VOCE" di Alia;
Rubrìca "Sportello delle Civiltà" del Sito Web It Alia www.assarca.com

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La Mammana

Il pianto di un bimbo che nasce è sempre motivo di stupore, si tralasciano i vari psicologisrni che lo vorrebbero pianto di dolore, per l'abbandono della condizione di simbiotica beatitudine con la madre, e si gioisce del pianto perché primo segnale di una nuova vita.

Questa gioia. a parte alle madri, è concessa ad un' altra figura fondamentale, che "tempu anticu" era detta "la mammana", che poi diventò "la levatrici" che oggi infine è l'ostetrica. "Le mammane" imparavano il loro mestiere, nel migliore dei casi, seguendo una sorta di "corso professionale" che si svolgeva presso alcuni ospedali di città: alla fine di questo "stage" ricevevano un attestato che le abilitava alla professione.

In altri casi - forse i più comuni - imparavano dalla semplice osservazione delle "levatrici". più esperte - magari le loro madri - che avrebbero trasmesso loro tutti i segreti di questo mestiere; o, ancora poteva succedere che, in certe circostanze d' emergenza, fossero il bisogno e la necessità a farla da padrone e così, volenti o nolenti, ci si doveva improvvisare ostetrici e alla fine anche i più fifoni, di fronte alle doglie di una partoriente, avrebbero dovuto fare del loro meglio - si pensi per esempio alla figlia di "Mamy" in "Via col vento".

 Erano, infatti, tempi duri per quanto riguarda la "comunicazione a distanza" o i servizi di trasporto. Immaginate che poteva anche capitare di partorire nel bel mezzo di una passeggiata in campagna…Nei casi migliori invece, la futura mamma veniva curata ben benino a casa propria. Le si preparava un buon "brodu di palummieddu cauro", qualche bicchiere di cognàc come anestetico, panni caldi e acqua disinfettata con le pillole di "sublimato".

A quel punto era il turno della madre e del piccolo nascituro e, tra le attese del padre e dei parenti più prossimi, tra i consulti del vicinato e i loro pronostici sul sesso del piccolo, tra l'eccitazione dei bambini mandati fuori ad aspettare col naso in sù l'arrivo della cicogna, finalmente si sentiva il sospirato pianto, una bottarella sulle spallucce e la dichiarazione definitiva: "è un maschio!" oppure: "è una femminuccia!" - e, si sa, nel secondo caso non era proprio quello che si sarebbe detto un lieto evento! -.

 Le levatrici, a questo punto, si preoccupavano di pulire madre e bambino e di sistemare con un po' di seta l'ombelico del piccolo. Questa operazione, pare fosse particolarmente significativa., e ancora di più il suo risultato finale; ad Alia si dice, infatti, che si "lu uddìcu talìa a 'gghiri a muntata, è genti allegra e fortunata" si talìa a 'gghiri a pinnina sunnu sfurtunati d'ammatina". Il compenso andava dalle 25 alle 50 lire, accompagnato - o sostituito - da qualche regalo "in natura" - formaggio, vino, uova, galline...- . Per chi si trovava a corto di liquidi o di altri beni, alias era povero, esisteva una "mammana" pagata dal Comune detta "la cumunali".

Al momento del battesimo, "la mammana" teneva il bimbo tra le braccia e gli scopriva il capo per la benedizione. I padrini, quindi, avevano l'onere di fare un regalo - possibilmente in denaro - sia a lei che "a lu parrinu chi vattiava e a lu saristanu chi dava fuocu", in questo ultimo caso il regalo-compenso era proporzionato al numero di candele che accendeva. A volte, la povertà o il lutto recente facevano sì che "lu picciriddu " fosse "vattiatu a lu scuru", e quindi con la breve luce di una sola candela.

"A tiempu anticu a l'Alia c'erano due mammane: la za' Giustina, ca' era cumunali, e la signura Amalia ca ' mmeci era privata. La za' Giustina" si ricorda come una infaticabile signora "cu la vistina a cintu e lu falari e, nni la sacchetta, la pastigghia di sublimatu" che tirava fuori all'occorrenza per disinfettare l'acqua "di lu vacili" con cui avrebbe lavato madre e bambino. Le proprie mani e un paio di forbici, un po' d'acqua e qualche panno caldo, gli unici attrezzi del mestiere e, se proprio fosse servito il medico, nel caso, per esempio, di qualche complicazione, si poteva sempre chiamare "lu dutturi Napuli".

Senza dubbio un mestiere delicato quello della "mammana" , della "levatrice" o dell'ostetrica che dir si voglia, delicato e pregno di segreti, come quelli legati alle "nascite clandestine". A proposito…si vocifera che qualcuno stia cercando un "fatidico quaderno" in cui queste nascite sarebbero state segnate…perciò state bene attenti, drizzate le orecchie e aguzzate lo sguardo perché, tra qualche giorno, potremmo vederne delle belle!
 
Laura Seragusa
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pubblicato nel Periodico parrocchiale "La VOCE" di Alia, nr.3/99, pag. 13


Lu 'zzi Minicu saristanu

A cinquant'anni dall'elevazione a Santuario della nostra chiesa Madre e la contemporanea pubblicazione di un numero speciale del nostro periodico, penso sia doveroso ricordare in queste pagine la figura di un sacrista d'eccezione che ha operato nella nostra parrocchia.
Il mio pensiero va a Domenico Scaccia, da tutti chiamato lu 'zzi Minicu saristanu.

Nacque ad Alia il 18 Luglio 1893, sposato con Giuseppa Cortese da cui ebbe quattro figli, di cui tre femmine e un maschio. Fin da giovanissima età fece il sacrista insieme al padre, Antonino, dapprima nella chiesa di San Giuseppe, successivamente alla Matrice dove lavorò per circa 50 anni.


Quali erano le sue mansioni? Non tutti le conoscono, anche perché da diversi anni la nostra chiesa è priva di questa figura, I suoi compiti riguardavano la pulizia e il decoro, la sorveglianza della chiesa sia di giorno che di notte. Era presente alle cerimonie liturgiche più importanti, indossando veste talare e cotta, collaborando con il sacerdote durante tutte le funzioni liturgiche. Era incaricato anche del suono delle campane e della carica dell'orologio.

Più volte, quand'ero ragazzo, andavo con lui sul campanile per gustarmi in diretta il suono delle campane e per ricaricare l'antico orologio con la manovella.

Ogni notte dormiva in chiesa nel suo alloggio ricavato in uno sgabuzzino dietro il fonte battesimale, entrando in chiesa a destra. Qui aveva sistemato un lettino con accanto il suo inseparabile fucile o fucuni - come lui era solito chiamarlo - per proteggere la Chiesa da male intenzionati. Nel suo giaciglio trascorreva le notti fino alle 4 del mattino, quando, dopo aver suonato 'u patri nostru, raggiungeva la propria casa.

Aveva un aspetto severo, ma era solito ridere sotto i baffi. Un uomo dall'animo buono. Era lo spauracchio per i chierichetti e i ragazzi di Azione cattolica: se qualcuno si comportava male in chiesa durante le funzioni o il catechismo, subito si sentiva la frase: guarda ca chiamu lu 'zzi Minicu! Bastava ciò perchè tornasse tutto alla normalità.

Collaborò con diversi parroci: da monsignor Chimenti al parroco Abate, da padre Botindari all'attuale parroco Disclafani. Svolgeva il suo ruolo con particolare dedizione. Era il braccio destro del clero. Suggestiva ad opera sua la "calata" della grande tenda la notte del sabato santo, allorquando, su una sedia normalmente traballante, tirava già la corda che teneva l'enorme telo, dietro il quale appariva la statua del Cristo Risorto, posta in alto al centro dell'altare maggiore. La scena, che provocava tanta emozione tra i fedeli, lo rendeva protagonista principale della notte di Pasqua.

Finita la guerra, nel rispetto della tradizione familiare, il figlio Nino, reduce dal fronte, diventò un diretto collaboratore del padre per, successivamente, sostituirlo. Lu zzi Minicu Scaccia moriva il 26 maggio 1965.

Rino Concialdi
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pubblicato nel Periodico parrocchiale "La Voce", nr.2/2007, pag.24

 
Lu urdunaru e la sò riétina

Forse pochi di voi ricorderanno e molti altri forse non conosceranno affatto la figura di "lu urdinaru". Lu urdinaru era chiamato così proprio perchè il suo compito fondamentale era quello di ordinare, o meglio, coordinare le "riétine" dei muli che, in estate dovevano trasportare i prodotti della terra dagli appezzamenti dei ricchi possidenti - nobili o borghesi -  ai magazzini degli stess; in inverno, invece, trasportavano le sementi.

I muli - che ovviamente non appartenevano agli "urdinara " ma ai loro padroni - procedevano in fila indiana legati uno dietro l'altro con una grossa corda, da qui il nome "riétina". Ogni "riétina" era composta da circa 9 muli di cui otto erano adibiti al trasporto dei frutti della terra - grano, orzo, fave, ecc..- , che venivano posti in grosse "visazze" e "visazzotte" e queste a loro volta, sulla schiena dei muli; il nono mulo, invece, detto "caporétina", trasportava "lu urdinaru".

Il mestiere dell' "turdinaru" era molto duro: si soleva dire che "s 'avia 'a susiri di stidda in stidda", infatti si metteva in cammino appena "affacciava la puddara" - il piccolo carro - e si ritirava alla "stidda di l'Avi Maria". In verità non dormiva quasi mai . A sera, fatti rientrare i muli nella stalla, doveva pensare prima al loro pasto, poi al suo. Cominciava, quindi, a sistemare la paglia nelle mangiatoie e finalmente poteva assaporare il suo tanto atteso piatto di pasta, non senza un sorso di buon vino.

A questo punto, illuminato da una candela ad "arsolio" - petrolio - , e seduto sul suo morbido letto ..., che altro non era se non "la ghiuttena" - una panca fatta di pietra ricoperta di pelle di pecora -, prima di concedersi il meritato riposo, doveva riparare le "visazze" e le "visazzotte " che, essendo fatte di "lona" - canapa -, potevano anche strapparsi. Per fare questa rammendatura, utilizzava "a zzaccurafa" - un ago molto lungo e grosso - e lo spago.

Finalmente era l'ora del sonno, muli permettendo!
Infatti, quelle docili bestioline avevano la simpatica abitudine di cominciare a "trippare", a litigare e a scalciare, finchè "l' urdinaru" era costretto ad alzarsi per "arrifriscare" loro la paglia, cioè dare una mescolata alla paglia aggiungendone di nuova.

Una volta al mese, " l' urdinaru" aveva la "vicenna" , un giorno in cui gli era concesso di tornare a casa, anche per cambiare i propri, ormai, sudici abiti.

La sua retribuzione era "lu partutu" che consisteva in un tot di olio, frumento, pane, formaggio, vino e anche un pò di denaro.

"Li urdinara" più ambiziosi "armàvano" i muli con "cianciani" , "lanigghi" e "fruntala ", ossia con campanelle. pon-pon di lana variopinta e con cordelle colorate che servivano per adornarne la fronte. Le spese per questi abbellimenti erano tutte a carico dell' "urdinaru " e qualora non le avesse sostenute sarebbe stato giudicato "udinaru tintu ".
 
La gente poteva percepire da lontano l'arrivo delle "riétine" a causa del rumore delle campanelle e poteva anche distinguere il suono di una "riétina" da quello di un' altra: lo squillante tintinnio delle "riétine" del Cavaliere Guccione - che ne possedeva otto o più - , era facilmente distinguibile da quello più pacato della "riétina" di donna Nina Guccione.
 A questo punto avrete certo capito quanto fosse sacrificato il nostro urdinaru , era però rassegnato e la durezza del lavoro nell'atmosfera bucolica dei nostri monti, non poteva che trasformarsi in poesia:

"Guarda chi vita fa lu urdinaru,
'ca notti e jornu camina a lu scuru,
metti a pigghiari capizzi di li mura,
e la so vita è sempri china di dulura".
 
Laura Seragusa
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pubblicato nel Periodico parrocchiale "La VOCE" di Alia, nr.1/96, pag. 6


Teresa Arrigo

La signorina Teresa Arrigo, eccezionale maestra di vita.
Curava la formazione dei fanciulli non soltanto sotto l'aspetto religioso, ma anche preoccupandosi della loro educazione civica e della loro preparazione scolastica.

Non so quale titolo di studi avesse; so di certo che avendo una bella casa con giardino, la metteva a disposizione dei bambini della Parrocchia i quali vi si riunivano settimanalmente durante il periodo scolastico. Certamente questa Bella Persona possedeva una grande propensione alla maternità ed una notevole spinta al sociale. Fiamme Bianche, Fiamme Verdi, Fiamme Rosse ed Aspiranti, erano chiamati i gruppi di Azione Cattolica curati dalla signorina Teresa Arrigo (nella foto, tra i fiori del suo giardino), collaborata da tante assistenti.

Con particolare affetto, ricordo, la signorina Anna Andollina, che, con il suo sorriso luminoso, regalava a noi bambini quella dolcezza carente spesso nelle famiglie, dove, le mamme erano troppo stanche per la numerosa prole da tirare su, per i lavori di casa e di campagna che non davano tregua. Quelli erano gli anni `40 - '50 quando Alia contava circa diecimila abitanti, e tanti erano i bambini.

La signorina Teresa curava la formazione dei maschietti dai cinque ai quattordici anni, non soltanto sotto l'aspetto religioso. Infatti, la sua casa, più volte la settimana, diventava una piccola accademia dove disegnare, colorare, mandare a memoria i quaderni del catechismo, leggere ed esporre brani biblici, cantare e recitare. Queste erano le attività principali. Vi si riunivano figli di contadini, artigiani, impiegati, braccianti, decorosamente poveri, quasi tutti allo stesso modo, cui veniva offerta una ricca opportunità educativa: essi si trasmettevano vicendevolmente esperienze di gioco, di vita scolastica e familiare. Le famiglie erano contente di vederci crescere insieme, di sentirci esprimere con un linguaggio più ricco e soprattutto di vederci sognare il nostro futuro con al centro la famiglia, il lavoro, l'impegno scolastico.

Così iniziava la storia di uomini e di donne, di famiglie, di lavoratori i quali, forti della formazione strutturatasi all'ombra di quella chiesa costruita sulla roccia, avrebbero espresso la propria personalità e creatività nei più svariati settori produttivi e professionali. E' la storia di ciascuno di noi, vicini e lontani, che con la stessa fede dei nostri padri, costruttori del Tempio Sacro dedicato a Maria Santissima delle Grazie, ci sentiamo come loro eredi, orgogliosi custodi del Santuario. E' soprattutto la storia di tante persone che, operando nel silenzio all'interno della nostra piccola comunità parrocchiale, proprio come Teresa Arrigo, donano agli altri senza chiedere nulla in cambio.

Filippo Chimento
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pubblicato nel Periodico parrocchiale "La VOCE" di Alia, nr.2/2008


Il Siciliano di Nonna Rosa

Il siciliano di nonna Rosa scorreva limaccioso ed esotico come il Mississippi River, dalle cui foci l'ava proveniva, e suonava forestiero non solo a chi, come me, era nuovo alla vita e alle frequentazioni, ma, anche, a chi aveva, con lei, lunga dimestichezza.

Il suo "cockney", frutto di personale elaborazione, non era più gestito nell'ampio spazio di percezione delle campane della sua americana Saint Mary, bensì in quello, più limitato, del suono della campanella dei Sacri Cuori, che la chiamava alla Messa Cattolica di Patri 'Ucciuni.

Il suo era un "cocktail" di parlate neo latine, anglosassoni e creole, centellinato con lo stesso amore con cui delibava il vino maritale della vigna di Li Timpi. Era l'impasto di uova, petrosino, cipolla, cacio, carne o pesce, peperoncino, pronto, nel "lemmo", per essere trasformato in polpette, nel quale, affondavo tre ditini congiunti, a mo' di gancio, per riempirmi la bocca, lasciando trasecolata la gatta rosciana di nonna.

Il suo farraginoso e composito eloquio aveva un forte potere evocativo. Una folla di persone, senza tempo, veniva fuori dalle sue parole, prendendo corpo e muovendosi, a guisa di elisie anime: il padre, Giò Purpera, padrone di pescherecci a Tusa e, boss, in Louisiana, la sempre invocata, madre, Maddalena Greco, il fratello maggiore, Vicienzu, le due sorelle, Francis e Sara, spose dei loro primi cugini Cefalù; Margherita, sorella del cuore, in corrispondenza epistolare con nonna, in una lingua transnazionale, ma di chiara origine occidentale, dall' ossimoro di una calligrafia "a peri di jaddina", dacché il figlio Giò, di soli sedici anni, era fuggito per l'America, riparando dalla zia, nell'ancestrale New Roads; il fratello più piccolo, Charly, coetaneo e compagno di giuochi di papà e di zio, tirato su, si può dire, da nonna, assieme ai figli, sino a pochi momenti prima del traumatico distacco della sorella, della figlia, della cugina, della nipote, dal già consistente numero di membri della patriarcale famiglia dei Purpera, per seguire, novella Creusa, il marito, in un ritorno, se si vuole, paradossale e controcorrente, se non fosse avvenuto il quale, però, bene o male, non saremmo qui a scrivere.

La sua lingua, barocca, come la sua cucina, ma piena di principi attivi, mi ha sostenuto nel periodo della fanciullezza e della lunga e inquieta adolescenza, e nel momento, per me critico, del freddo transito dal dì alla notte dei pomeriggi invernali, quando, avvicinandomi al braciere, in cerca di calore, lei, dolcemente mi preveniva nel sinestetico, rituale, atto di "arriminari lu luci", e mi mostrava come la "tassùra" facesse appiccicare la cenere alla paletta.

L'involontario riaffiorare di parole come "dense-Milk", "cciànza" - chance -, "burcetta ", "giannetta", di locuzioni come " 'Un essiri grieviu", "Chi nick e nack", "Si vesti comu 'na nunna", di topònimi, come "Niùrùd" - New Roads -, "Novalenza" - New Orleans -, "Pittinèu" , "Pèttini Russult" - Baton Rouge -"Bàciala"- Batchelor -, "Morganza, Roccaurci "- raccourci -, ricorrenti nel suo discorso, mi fanno trasalire e mi riportano, vicino a lei al calduccio del braciere, io di sessanta e nonna di centoventi.

Il suo dialetto era una squisita e composita "ruit salade", dagli effetti inebrianti. Era il bel piatto di patate fritte, condito con sale e aceto, alla maniera ariscia, ma senza pesce, o con lo zucchero di canna, alla cajun, o con zucchero di barbabietola, all'alisa, per rimediare alla lamentata mancanza delle patate americane.

La lingua di nonna era il suo fumante minestrone che faceva prudere il naso a papà, che, dopo novant' anni, della fanciullezza, a Pointe Coupee, ricorda il solo zio Charly, per aver litigato, con lui, per una "rumariddina", sino a pochi minuti prima di partire.

Era il suo odoroso brodo di carne, dai cento elementi vegetali e animali; forse il più qualificato simbolo della sua ibrida e sostanziosa lingua. E mentre digito, tentando un atterraggio all'americana, per concludere questo breve viaggio nella memoria affettiva, invano cerco di ricordarmi di una "fruit salade" infantile, con cui l'allusiva e paziente ava rispondeva alla nostra richiesta di monetine da cinque e da dieci, di cui eravamo alla continua ricerca, in quello scorcio di tempo tra i '40 e '50. Di essa, però, non mi sfugge l'inizio: "E papa ghive nickell - E mama ghive nine - E nona dòn un pìcci'...", la cui esegesi sarebbe difficile a chi non avesse la minima idea, del crogiuolo di razze e di lingue che era la Louisiana, a cavallo tra l'8 e il 900.

Didacus
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pubblicato nel Periodico parrocchiale "La VOCE" di Alia, nr.3/04, pag.3




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Edizione RodAlia - 24/02/2010
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