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Storia delle Confraternite aliesi
 
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(da "Storia di Alia -1615 1860-" di Eugenio Guccione)


La nascita delle Confraternite

Le confraternite furono per Alia la prima forma di vita associativa. Esse, nel passato, ebbero un'importanza di gran lunga superiore a quella che, oggi, viene loro riconosciuta. Si cadrebbe in un grave errore, se si pensasse che la loro origine fosse collegata ad assicurare semplicemente una degna sepoltura. Ciò era soltanto uno degli scopi e neanche uno dei fondamentali. La funzione e il fine delle confraternite erano di carattere prettamente socio-pedagogico in senso religioso. Aspetto questo che si sviluppò in maniera solidaristica.

Con tali associazioni Alia si inserì in un'antica tradizione, la cui origine risaliva in Sicilia al secolo XI. Uno sviluppo si era avuto nel '500, allorquando esse si erano diffuse in molti centri dell'Isola dando vita a varie e intense attività assistenziali, come il soccorso agli infermi e ai carcerati, la cura dei poveri, l'apertura di ospedali e di monti di pietà. Ad Alia non nacque alcuna dí coteste istituzioni, ma è certo che, le confraternite conitribuirono acreare il tanto necessario spirito comunitario.

La prima confraternita sorse ad Alia nel 1692 ad opera di un quaresimalista, padre Vincenzo Filippone da Palermo, appartenente all'ordine dei Frati Minori Riformati di San Francesco. Questi "sul principio di sua predicazione disse sul pulpito che fondar volea in questa terra dell'Alfa una nuova Compagnia, sotto titolo del Santissimo Sagramento per onore del medesimo, e bene delle anime...". La notizia la ricaviamo da un documento dell'epoca, che, nel 1829, fu allegato ai "Capitoli" della stessa confraternita nella pratica per la richiesta al Sovrano del riconoscimento ufficiale. L'associazione è ancora chiamata "compagnia" nel senso di comunità ed è detta "nuova" perché, a quanto pare, frate Filippone, nei suoi giri di predicazione per i paesi, era solito lanciare l'iniziativa per la fondazione di sodalizi del genere.

L'idea di una confraternita ebbe immediato successo ad Alia, tanto che le numerose, e forse inattese, adesioni misero in preoccupazione il religioso, il quale fu costretto a fare una cernita. Si legge nel documento che il "buon Padre" aveva appena dichiarato "questi fervidi sentimenti, che subito vi accorsero molti devoti per arrollarsi, ma il prudente promotore ricevé ed arrollò questi soli, ed infrascritti Biagio Miceli, Giuseppe Barcellona, Domenico Lisciandra, Giovan Battista Ompranzano". Costoro "più degli altri si prontarono con tanta gara, egenerosità a far tutto ciò, che bisognava ed a' medesimi Balla compagnia, prima che terminasse la Quaresima". Non vollero, insomma, lasciarsi sfuggire la preziosa occasione offerta dal predicatore e approfittarono della sua presenza ad Alia per definire ogni cosa e dare vita all'associazione prima che questi tornasse a Palermo. Padre Filippone fu contento di tanto entusiasmo ed anch'egli volle accelerare i tempi della costituzione.

Era indispensabile l'autorizzazione del vescovo di Cefalù. "Quindi pervenuto detto Padre Predicatore a questo numero di fratelli necessario all'orazione di una nuova Compagnia ne passò ossequioso le suppliche all'Illustrissimo e Reverendissimo Monsignor Matteo Orlando, soggetto pio e Vescovo degnissimo di Cefalù di poter formare la detta Compagnia, ed impetrarne la licenza dal benigno Prelato...".

Dal documento si deduce che il religioso voleva, a qualsiasi costo, far nascere la confraternità. Sapeva quali difficoltà ci sarebbero state per sè e per í primi aderenti, qualora, terminata la quaresima, egli fosse stato costretto a ripartire. Molto probabilmente avrebbe perso i contatti con i fedeli di Alia e l'iniziativa, sebbene avesse avuto tanto successo, sarebbe stata abbandonata al presentarsi dei primi ostacoli. E, così, "incontenente il detto Padre Predicatore nello stesso corso quaresimale elesse li primi superiori della nuova Compagnia, soggetti per altro sperimentati, ed atti a portar tal carica, e d'accordo comune de' fratelli sudetti, cioé Governadore Biagio Di Miceli, consigliere maggiore a Giuseppe Barcellona, e consigliere minore a Domenico Liasciandra"'. I tre davano ogni garanzia poiché erano stati giurati della civica amministrazione e si erano distinti per la loro condotta e per la loro attività.

Occorreva, intanto, fare la prima comparsa in pubblico. E l'occasione si presentò propizia con la Settimana Santa. Come giorno fu scelto il Giovedì Santo, durante il quale la Chiesa, anche allora, ricordava l'istituzione della divina Eucaristia. E non poteva esserci ricorrenza migliore per una compagnia sotto il titolo del "Santissimo Sagramento". La prima uscita dei confrati, secondo il piano di padre Filippone, avrebbe dovuto lasciare una buona impressione tra gli aliesi. E, in effetti, tale desiderio fu pienamente soddisfatto. Anzi, stando alla cronaca di quel giorno, la confraternita ebbe un trionfo. Il religioso "la fè uscire con giubilo universale del popolo, e la condusse processionalmente alla Chiesa maggiore, in cui cibati li fratelli tutti col divin pane dal Reverendo Beneficiale della Terra Don Giuseppe Di Martino furono ammessi nel medesimo giorno a due per ogni ora a far la guardia al Santissimo Sepolcro, ed adorare devotamente a Gesù Cristo Sagramentato ivi per nostro amore racchiuso". Tale pratica sarà osservata per i secoli successivi e giungerà sino ai nostri giorni.

Padre Filippone, subito dopo le "fatiche quaresimali", continuò a curare la compagnia, "da lui con assai sudori efervore fondata", preoccupandosi di dare ad essa uno statuto e, precisamente, di "prescriverle le leggi da osservarsi da ciaschedun fratello". Tali norme, per disposizione del Vescovo, vennero esaminate ed approvate dall'abate don Pietro Mazzara, che, allora, era il vicario generale della Diocesi. Al fondatore, allo scopo di permettergli il perfezionamento dell'associzione in tutti i suoi aspetti, fu concesso di rimanersene ad Alia oltre la Pasqua per qualche settimana ancora. Nel frattempo egli, con la collaborazione degli stessi confrati, dovette elaborare lo statuto e recarsi a Cefalù per sottoporlo all'attenzione delle autorità ecclesiastiche ed attenderne la ratifica.

La nota relativa all'origine storica della prima confraternita si chiude con una raccomandazione, che, per il suo valore umano e religioso, riteniamo opportuno riportare integralmente.
Eccola: "Questa è una semplice, ma fedele notizia, quale si lascia scritta per sapere li fratelli presenti e futuri la fondazione della loro Compagnia, cioé in qual'anno fu fondata, chi ne fu il fondatore, e quali furono li primi fratelli. Intanto non si scordino li fratelli, che sono, e saranno in questaprima e venerabile Compagnia eretta in questa terra di Alia, che in ogni aggiuntamento faranno nell'avvenire, raccomandarla caldamente all'Augustissimo Sagramento, che la moltiplicasse, proteggesse, fortificasse giusto sotto la Sua santissima insegna farà sempre la sua comparsa. Siccome ancora ricordarsi mantenere al Reverendo Padre Fondatore quanto li primi fratelli, a nome pure di tutti i loro successori gli promisero di recitare un'Ave in comune a sua intenzione, e dopo la sua morte suffragare la di lui anima con offici e messe solite agli altri fratelli defunti, locche puntualmente eseguendo, ne riceveranno in questa e nell'altra vita il condegno premio dal Signore Iddio, cui soli honor et gloria in saecula saeculorum. Amen".

Siffatta segnalazione, rivolta ai confrati contemporanei e a quelli del futuro, muoveva, senza dubbio, da una solida e profonda fede religiosa, ma, in pari tempo, svelava l'insopprimibile esigenza o speranza dell'uomo, di ogni luogo e di ogni epoca, d'essere ricordato, in qualche modo, anche dopo la morte. Non conosciamo quale sia stata la sorte dell'umile supplica dipadre Vincenzo Filippone, fondatore della Compagnia del Santissimo Sagramento. Non sappiamo se e come i confrati passati e presenti si siano ricordati e si ricordino di lui. Non sappiamo se quelle promesse del 1692 siano state e siano ancora mantenute. Ma, tra le tante carte passateci per le mani, ci è parso che questa avesse tutto il sapore di un contratto morale, le cui obbligazioni, continuando ad esistere la confraternita, dovrebbero permanere in ogni loro vigore. E questo potrebbe essere un motivo in più per riprodurre testualmente, come si è fatto sopra, la pia raccomandazione del padre fondatore.

Regolamento della "Compagnia del SS. Sagramento"

Le norme, che regolavano la confraternita e che vennero ritoccate nel 1829 per il riconoscimento ufficiale, riguardavano ogni aspetto della sua attività.
Innanzi tutto il vestiario: i confrati, nelle processioni e negli altri servizi ufficiali, dovevano portare un abito e un'insegna allo scopo di ben distinguersi dalla folla. L'abito consisteva in "un sacco di penitenza con sua visiera di tela bianca, con suo orlo infocatointorno". In più il "cappello di feltro bianco, con la corona di dieci d'osso, e laccio bianco alla sinistra,ed alla destra il fazzoletto piano di tela bianca senza piegatura, nè incerati. Guanti bianchi non plicati, e fazzoletti neri".

L'insegna, ossia il distintivo, era rappresentato da "un'aquila dorata con due teste sopra latta di rame, e sopra la testa il Santissimo Sagramento, e nell'uno e nell'altro lato dell'aquila l'insegne de' Santi Apostoli Pietro e Paolo circondati di sfera dorata". Quest'insegna doveva essere posta sul petto "nella sinistra parte della visera".

Era stato stabilito per statuto che il numero dei confrati non avrebbe dovuto superare il centinaio. Le donne non potevano farvi parte. In quelnumero, però, erano anche compresi i due sacerdoti che avrebbero dovuto assicurare alla compagnia gli esercizi spirituali e avrebbero dovuto assistere, durante l'agonia i "fratelli moribondi". Quel limite non era arbitrario. Era ben motivato, in quanto, come era stato scritto nella stessa carta costitutiva, "con esperienza si è veduto che il numero de' fratelli nella Compagnia sia causa di maggior disturbo, e dispersione, e fra puochi meglio la fraternità e la carità si corserva...".

L'esperienza, di cui si fa cenno, era stata, ovviamente, fatta da padre Vincenzo Filippone. E ciò conferma che egli, come si è detto, non era nuovo nella fondazione di compagnie come quella da lui stesso voluta ad Alia. Per il "buon governo e regimento" della compagnia erano previste sedici cariche: un governadore, due consiglieri, due maestri di novizi, il maestro di cerimonie (ed un aiutante), un cancelliere, un tesoriere, un razionale, due visitatori di infermi, due sagrestani e tre nunzi. Tutti costoro non dovevano altro considerarsi che servitori del "Santissimo Sagramento e della Compagnia". Presentare il comando come un servizio fu una prerogativa di tutte le confraternite, in cui si mirava, appunto, a creare uno spirito di reciproca, cristiana solidarietà.

L'elezione del governadore e dei consiglieri era prevista annualmente in una domenica del mese di novembre. Era necessaria la presenza dei superiori uscenti e, almeno, la metà più uno dei confrati. Prima di questa adunanza il cancelliere era tenuto a preparare e ad affiggere nell'oratorio "a luogo che da tutti legger si possa" la lista di coloro che potevano concorrere alle tre importanti cariche. La pubblicità dell'elenco consentiva a chiunque di presentare eventuali e ben fondati ricorsi. Nel giorno destinato alle votazioni, venivano estratti a sorte nove dei candidati, corrispondenti al triplo del numero dei superiori che bisognava eleggere. Durante il sorteggio gli elettori dovevano starsene seduti al proprio posto e dovevano rimanervi "senza potersi muovere [...] nel corso delle operazioni". In precedenza ad ognuno di loro erano state consegnatedue palline, una bianca per il "si" e una nera per il "no".

Pronta la lista dei nove candidati estratti, s'iniziava la "votazione segreta de' fratelli preferiti". Si poteva essere eletti governadore in età superiore ai 23 anni o con un'anzianità di fratellanza di almeno 5 anni, mentre per tutte le altre cariche bastava aver compiuto il noviziato e aver trascorso un periodo di 6 mesi nella compagnia. Per la scelta dei candidati, fermi sempre gli elettori al proprio posto, passava da "ognuno di loro il massaro della Chiesa con un sacchetto", nel quale ogni votante deponeva la pallina a favore o contro per il "primo sortito dal bussolo". Effettuato il primo giro si raccoglievano e si registravano i voti, tanto quelli negativi, tanto quelli affermativi ottenuti dal candidato numero uno. A tenere la contabilità delle palline bianche e delle palline nere era il cancelliere, il quale, subito dopo, procedeva per il "secondo sortito, e così progressivamente finché esaurirà la votazione per tutti nove". Colui il quale riportava il maggior numero di voti era proclamato governadore e i due successivi in graduatoria consiglieri. In parità di voti veniva preferito il "più antico di fratellanza". Il Governadore in atto aveva "il diritto di dare due voti per ognuno, come si aggrada".

Non era consentito che ci fossero rapporti di stretta parentela o di affinità tra il governadore e i consiglieri. La norma era esplicita e, categoricamente, proibiva "di essere Governadore e consigliere due congiunti, come sono padre e figlio, suocero e genero, due fratelli germani, consanguinei e uterini". Potendo accadere ciò restava "in officio il più anziano in età" e si procedeva a nuova elezione per scegliere un altro. Il motivo di tanto rigore era ovvio: occorreva evitare che la compagnia cadesse sotto la gestione di cricche familiari. Severità e controlli erano anche esercitati per impedire 1'accaparramento delle cariche. I confrati non avrebbero dovuto procacciarsele, nè rifiutarle. Bisognava avere la "libera fiducia" degli elettori. E quando questa arrivava, gli eletti non dovevano nè respingerla, nè tradirla. "E perché non istà bene - si legge a tal proposito - procurarsi officii, o vero impedire ch'egli, o altro sia eletto, s'ordina che nessun fratello possa direttamente o indirettamente maneggiarsi per ottenerli, o per rifiutarli".

Siamo di fronte ad esempi di vera democrazia, in cui la tutela della libera volontà di ogni singolo membro era posta a garanzia dell'intera comunità d'appartenenza.
In seguito all'elezione dei superiori, i medesimi confrati eleggevano, con uguale sistema, gli altri officiali, ma era necessario che sulle rispettive cariche da assegnare si raggiungesse un accordo prima della votazione affinché ognuno dei candidati fosse consapevole del "servizio" che avrebbe dovuto svolgere. Tutte le cariche si rinnovavano annualmente, tranne quelle del cassiere e del razionale o contabile. Il primo veniva cambiato quando le circostanze lo richidevano, mentre il secondo era a vita e, in caso di nuova elezione, veniva "proposto dal Governadore e consiglieri in terna alla legittima autorità". I confrati erano tenuti a portare "la debita riverenza e ubbidienza" ai superiori. Erano previste punizioni anche severe per coloro í quali fossero stati "pertinaci e presuntuosi di non volere ubbidire alli detti Governadore e suoi consiglieri" o avessero semplicemente "mormorato" contro di quelli.

Il principio d'autorità, come si vede, era pienamente riconosciuto. I superiori e, in particolare, il Governadore stavano al di sopra di tutti. "Siano obbligati tutti i fratelli -era ribadito nel Capitolo VI del regolamento -onorare il Governadore come capo di essi; se gli dà tutta quella potestà ed autorità, che a tal si deve, potendo imporre a' fratelli per le loro trasgressioni e pe' loro difetti quelle penitenze per correzione, che li parerà ad esempio degli altri". Ma tale posizione, badiamo bene, non era un privilegio. Rimaneva una posizione di servizio. Al governador e e ai consiglieri si doveva rispetto in quanto costoro esprimevano la volontà dell'intera compagnia ed agivano esclusivamente per la realizzazione degli scopi e del bene generale della stessa confraternita.

Abbastanza attenta - e a ragion veduta - la selezione dei novizi, ossia di coloro che, già in età di 17 anni, manifestavano il desiderio di volere entrare nella compagnia. A prendersi cura di loro erano i "maestri dei novizi". Costoro erano moralmente impegnati ad informarsi sull'effettiva età degli aspiranti, sulla loro vita, sulla loro condotta, e a controllare la "fede autentica del battesimo", cioè accertarsi se quelli erano stati regolarmente battezzati. Quando i "fratelli supplicanti" erano accettati, dovevano trascorrere un periodo di prova detto "noviziato", durante il quale i superiori venivano informati sul loro comportamento e, alla fine, decidevano se accettare o riprovare o respingere i novizi. I "maestri", per agevolare la formulazione di tali giudizi, erano tenuti a collaborare col governadore e con i consiglieri e, quindi, a "dare loro rapporto" anche sui "difetti" dei fratelli novizi. Coloro i quali erano accertati dovevano portare alla .compagnia "per ragioni della sua entrata una candela di oncia una", mettersi in regola con il pagamento della retta e "al più fra due mesi farsi l'abito conforme", altrimenti avrebbero corso il rischio di essere "cancellati".

Altro compito specifico e delicato era quello dei "visitatori degli infermi", che si prodigavano di "consolare gli ammalati e disporli a ben morire".
Si trattava dell'adempimento di una delle "sette opere di misericordia" ma, per gli associati del Santissimo Sagramento, voleva essere qualcosa di più, nel senso che essi si impegnavano ad assistere i confrati moribondi nel passaggio all'altra vita. Ed era predisposto tutto un servizio affinché nessuno fosse privato di tanto conforto. I "visitatori degli infermi", secondo il regolamento della compagnia, "subito che sapranno che qualcheduno de' nostri fratelli fosse infermo avendone avvisato prima li Superiori, lo vadano a visitare, ed essendo l'infermo bisognoso, lo significheranno a' Superiori, acciò con denari della Compagnia sia sovvenuto". E sarà opportuno, "mentre avrà sentimenti, disporlo a far testamento, e se è debitore a qualcheduno, restituire per rimedio dell'anima sua"

Spetterà al medico stabilire quando l'ammalato dovrà ricevere l'Eucaristia. E, giunto il momento, "debbano intervenire i fratelli senza sacco, e con torcia della Compagnia, aiutando anche il fratello nel tempo del passaggio di questa vita". L'intera durata dell'agonia, del cui inizio dovranno immediatamente essere avvisati i superiori, sarà accopagnata da apposite preghiere che, dopo la scomparsa del confrate, si intensificheranno con messe e con particolari uffici funebri. Tutti dovranno partecipare a tali funzioni sacre. E chi non sapesse leggere e, di conseguenza, non potesse seguire, dovrebbe recitare "cento ave e cento requiem in suffragio di quell'anima".

La compagnia interveniva ai funerali in vario modo, secondo il grado del defunto. "Sono obbligati li fratelli vestiti con sacco andare a pigliare il detto cadavere nel feretro col panno di nostra Compagnia, attorno del quale, se sarà Govervadore andranno sei fratelli con torci, se sarà consigliere numero quattro, ed aciascun altro fratello numero due colli torci della Compagnia"". Il diverso numero dei confrati e delle torce per l'estremo omaggio al defunto non voleva essere che una semplice nota di distinzione in riconoscimento al tipo di servizio che la persona scomparsa prestava in favore della compagnia.

Gli obblighi dei confrati

Gli obblighi dei confrati erano, per lo più, di carattere religioso.
Ed erano sanciti in statuto, affinché tutti ne potessero essere a conoscenza ed osservarli. La loro presenza nelle principali cerimonie delle festività liturgiche dell'anno era espressamente richiesta e sollecitata. Il maggiore impegno si richiedeva durante la Settimana Santa e, in particolare, nei giorni di mercoledì, giovedì e venerdì, durante i quali l'oratorio del Santissimo Sagramento rimaneva aperto e si cantavano gli "offici divini", propri della circostanza. "Il Giovedì Santo - prescriveva il regolamento - si faccia anche il mandato, i Superiori lavino i piedi a numero dodici fratelli eletti da loro, a questo effetto li faranno notare in una lista affissa nell'Oratorio".

Il giorno di "Tutti i Santi" "dovevano pur dire l'officio de' morti". I confrati erano anche invitati a partecipare agli incontri nell'oratorio "ogni domenica e festività della Madonna, perquelli esercizi spirituali che in nostro cerimoniale prescrívesi". Essi, in questo campo, ricevevano ogni assistenza da parte del padre cappellano, che, previa la proposta di una terna di sacerdoti locali, avanzata dai superiori, veniva scelto dal Consiglio generale degli Ospizi. A lui era affidata la formazione degli associati.

Le adunanze, gli "aggiustamenti", si svolgevano ogni domenica. Vi si discuteva tutto ciò che direttamente o indirettamente potesse avere attinenza alla vita della compagnia. La presidenza era tenuta dal governadore o, in sua assenza o suo impedimento, da uno dei due consiglieri. Era fatto obbligo al cappellano di essere presente alle riunioni. Il sacramento della confessione doveva essere praticato da tutti i confrati almeno quattro volte all'anno "cioé al dì del Santo Natale del Signore, il Giovedì Santo, nella solennità del Santissimo Sagramento, ed il dì dell'Ascensione della Beatissima Vergine Maria". Altro appuntamento spirituale, possibilmente con confessione e comunione, era quello della terza domenica di ogni mese, giornata in cui nell'oratorio veniva esposto il Sacramento e un superiore teneva 1' "ora santa".
Oltre la presenza veniva raccomandata la puntualità. E coloro che mancavano "senza legittimo impedimento" dovevano essere "ad arbitrio de' superiori penitenziati".

Il cappellano, fra gli altri suoi doveri, aveva l'esplicito ed antipatico compito di redigere una specie di libro nero , nel quale avrebbe dovuto tenere la contabilità delle "mancanze" dei confrati, e, in particolare, di coloro che non si accostavano al sacramento della penitenza. E, periodicamente, egli avrebbe dovuto informarne i superiori, affinché costoro prendessero i dovuti provvedimenti disciplinari. Il motivo di tanta severità era da attribuirsi al fatto che la vita dei confrati, per loro stessa scelta e impegno, doveva essere, in tutti i suoi aspetti, irreprensibile amerito personale di ognuno e a comune vantaggio della compagnia e anche d'esempio agli altri.

E la carta costitutiva non chiedeva poco. "La vita de' fratelli - vi si legge -deve essere tale quale a buoni cristiani si appartiene, non solamente fuggendo l'occasione di peccare, mortificando i sentimenti, e raffrenando le passioni da' vizi e peccati anche veniali, ma all'acquisto di virtù col consiglio del loro Padre Spirituale diligentemente attendendo, frequentando li Santi Sacramenti ed ascoltando volentieri le prediche, con tale apparecchio, che la parola di Dio, come sparsa in buon terreno, possa il suo frumento produrre". Il confrate, in altre parole, doveva essere un modello di vita per il perfezionamento di se stesso e degli altri. Guai, però, a venir meno alla promessa data e a tramutarsi in elemento di scandalo. Non sarebbe stato degno di rimanere più nella compagnia.

Nel 1829, prima del riconoscimento ufficiale da parte del Governo, i "Capitoli" furono integrati da 17 clausole che vennero aggiunte a cura del Consiglio generale degli Ospizi della Valle di Palermo. Si trattava, come vedremo, di alcune puntualizzazioni e di determinate garanzie richieste dalle autorità statali, con le quali, evidentemente, crebbero gli obblighi per i confrati. Furono, altresì, "proibite le imposizioni delle tasse sotto qualunque titolo" e furono permesse le "sole contribuzioni volontarie da eseguirsi senza astringere i contribuenti con la forza giudiziaria e senza che sia lecito di ricercarli con andare alle case, ma chi voglia debba darle spontaneamente ne'giorni de' congressi in mano del Cassiere". Potrebbe sembrare una questione di stile, ma, in effetti, il Governo borbonico voleva evitare l'arricchimento delle confraternite e, molto probabilmente, scoraggiare le adesioni.

Le "contribuzioni" e le "rendite", in ogni modo, dovevano essere devolute a scopi assistenziali e, precisamente, in "legati da distribuirsi alle zitelle povere orfane figlie di fratelli per il loro maritaggio", in eventuali "giornaliere sovvenzioni da darsi ai fratelli già divenuti vecchi, inabili alla fatica, infermi e bisognosi", in un determinato "numero di messe da farsi celebrare nella morte de' fratelli" e in sostegno di alcune "funzioni della Chiesa". Tali benefici e suffragi potevano, però, essere goduti dai soli confrati che avessero contribuito alla cassa della compagnia. Quanti non avessero voluto versare la "stabilita contribuzione" o l'avessero semplicemente " attrassata per due mesi", non avrebbero potuto avanzare alcun diritto. Ci troviamo di fronte a una prima rudimentale forma assistenziale, che, per coloro i quali ne compresero l'importanza e si misero nelle condizioni di poterne usufruire, dovette essere, per quei tempi, assai provvidenziale.

I confrati in difetto non potevano essere giustificati per "ignoranza dei Capitoli", ossia perché non fossero a conoscenza delle norme del regolamento della compagnia. Tirar fuori un motivo del genere sarebbe apparso un inutile e ingenuo pretesto, che i superiori, in un loro eventuale intervento disciplinare, avrebbero dovuto tenere in conto come aggravante a carico dello sprovveduto confrate. Tutti gli associati, infatti, avevano l'obbligo di conoscere i "Capitoli", sia perché si presumeva che essi avessero aderito alla compagnia ben edotti degli scopi e dei doveri ivi illustrati, sia perché molte adunanze dell'anno sociale erano espressamente dedicate alla delucidazione e alla discussione delle norme costitutive. Il capitolo XXIII sanciva, in maniera inequivocabile, che "in ogni aggiustamento, salvo sempre quello nel quale, o si deve fare la comunione, o altra funzione, finito l'officio, si faranno leggere dal Cancelliere dieci di questi Capitoli, e finiti ricominciarli, acciò per sempre ognuno tenga a memoria quello che deve osservare". Non bastava, come si deduce, leggere e commentare tutte le norme, a dieci per volta, ma, appena terminata una prima lettura, bisognava riprenderla daccapo e, così, per sempre.

Nel 1829 gli iscritti alla "Compagnia del Santissimo Sagramento" erano 81. Di essi 40 erano borgesi, 26 villici, 6 possidenti, 1 civile, 1 agrimensore, 1 fabbricatore. Il ceto prevalente, come si vede, era quello agricolo. E ciò non solo per una più spiccata sensibilità nei riguardi di un'associazione di carattere religioso, ma anche perché il paese continuava a reggersi su un'economia e su delle attività prettamente rurali. Non si trascuri, fra l'altro, il fenomeno molto consueto degli artigiani nona "tempo pieno", che preferivano, anche per motivi fiscali, farsi classificare come borgesi e come villici, in quanto erano in grado di poter dimostrare di trarre il maggiore sostentamento di se stessi e della loro famiglia dal lavoro dei campi.

Altre congregazioni e loro funzione etico-sociopolitica

La "Compagnia del Santissimo Sagramento" non restò la sola ad Alia. Altre, che tennero quella come modello, ne sorsero tra la fine del secolo XVIII e i primi del XIX. Ma questo, come si è accennato, fu anche il periodo durante il quale il Governo borbonico metteva gli occhi sulle confraternite.
E, più per paura che per la manifesta esigenza d'ordine, pretese che venissero ufficialmente riconosciute per averle, ovviamente, sotto controllo.

La prima presa di posizione avvenne nel 1781, allorquando il Governo contestò ai vescovi la competenza di stare a capo delle confraternite e diesserne il punto di riferimento per ogni fondamentale questione. Fu stabilito che il presule non avesse altro diritto che di visitarle periodicamente "quoad spiritualia tantum", mentre al magistrato secolare spettava "esaminare le regole e i capitoli" di ciascuna di esse senza che potesse"intromettersi la corte vescovile". E, così, tutti i loro beni passarono sotto il controllo statale.

Due anni dopo il viceré Caracciolo sancì che i soci di ciascuna compagnia non oltrepassassero il centinaio. Con i fermenti carbonari del 1820 e 1821 il Governo, in effetti, temette che le confraternite, per un certo spirito democratico che le animava, potessero dare spazio a individui rivoluzionari e ad iniziative politiche estremiste e trasformarsi in associazioni sovversive, e per giunta, sotto la protezione della Chiesa.

Il 20 maggio 1820 furono emanate delle istruzioni così restrittive che, riecheggiando il tenore di due precedenti e lontane circolari dell'll febbraio e delI° agosto 1781, ponevano le antiche compagnie religiose sotto una più rigorosa vigilanza delle autorità politiche. Il punto, in cui il Governo borbonico maggiormente si scopre, manifestando una certa preoccupazione per l'attività dei confratí, è quello relativo alle loro assemblee. L'art. 16 delle clausole, che furono aggiunte ai 25 "Capitoli" della "Compagnia del Santissimo Sagramento", così stabiliva:"I confrati debbono riunirsi di giorno a porte aperte"". Il motivo di tali precauzioni era ed è comprensibile: il sospetto che si potesse complottare contro lo Stato.

I confrati di Alla -anche se alcuni di essi li possiamo immaginare presenti e attivi, a titolo strettamente personale, tra gli arrabbiati incendiari dell'archivio comunale -dovettero essere ben lontani dal pensare che essi, poveri e umili campagnoli, potessero, in certo qual modo, incutere paura alle alte autorità governative. Ma queste, per la loro parte, decise a tutelare l'assolutismo regio e il conseguente accentrato sistema politico-amministrativo, non erano proprio fuori dalla realtà, se cominciavano a diffidare delle confraternite, che, qua e là, soprattutto in Sicilia, si diffondevano all'ombra non sempre e non ovunque prettamente "spirituale" della Chiesa. Quelle compagnie, per il loro sistema di organizzazione, potevano tramutarsi in pericolose "scuole di democrazia". Villici, borgesi e mastri che, fuori, per lo Stato, non contavano niente, all'interno della confraternita erano "qualcuno".
Potevano liberamente eleggere le più alte cariche ed esservi eletti. Nelle adunanze potevano esprimere le loro opinioni e, come si soleva dire, "avevano voce in capitolo" alla stessa maniera di tutti gli altri.

Dentro le confraternite i princìpi di libertà e di uguaglianza erano perfettamente armonizzati. Gli stessi superiori, come si è precedentemente detto, erano educati a considerare la loro carica come "servizio" e non come "comando". L'autorità e la deferenza erano riconosciute ad essi in quanto "servitori" e non in quanto "maggiori in grado".

La lavanda dei piedi a 12 confrati; effettuata, allora, dai superiori, era l'estremo atto di umiltà e di servizio di costoro a vantaggio della compagnia. La loro superiorità era d'ordine morale, non sociale. Tutti indistintamente erano tenuti ad osservare determinati obblighi di carattere religioso e di carattere comunitario. Il reciproco rispetto dei diritti di ognuno stava alla base dell'intero sodalizio e ne costituiva la forza vitale. L'abitudine a siffatta vita associativa era inevitabilmente abitudine alla vita democratica'". Basti pensare che le confraternite, seppure riconoscessero nella Chiesa un loro organo di guida e di controllo, non erano altro che una forma di comunità autogestita.

Ebbene, dovettero essere tali o analoghe considerazioni a turbare il sonno al sovrano del Regno delle Due Sicilie e ai suoi viceré e a metterli in guardia da quei confrati che, appunto, nello Stato erano sudditi passivi con soli doveri e nella confraternita agivano da soci attivi e anche con molti diritti.

Ad Alia, intanto, le restrizioni governative non atrofizzarono lo spirito associazionistico creato dalla "Compagnia del Santissimo Sagramento", i cui "Capitoli" furono approvati solo il 22 giugno 1831. E gli aliesi, all'imposizione del "numero chiuso", non più per motivi di opportunità interna, ma per esplicita norma governativa, risposero con la creazione di nuove confraternite.

Sorsero, in tal modo, la "Compagnia della Madre Sant'Anna" sotto titolo di "Maria Santissima de' Sette Dolori", che fu ufficialmente riconosciuta il 10 maggio 1831, la "Compagnia di Maria Santissima di tutte le grazie", riconosciuta il 16 aprile 1833, e la "Confraternita del Patriarca San Giuseppe" sotto il titolo dell' "Opera Santa", ossia della Carità, riconosciuta 1'8 marzo 1845. I relativi decreti erano stati preparati alla Corte di Napoli e portavano la firma del re Ferdinando II. Nell'attesa dei primi tre, la cui registrazione ritardava oltre il previsto, i rispettivi superiori chiesero l'autorizzazione affinché le loro compagnie, con regolare vestiario, potessero continuare a partecipare alle processioni, delle quali era "già imminente l'ottava del Corpus Domini"

Le quattro compagnie aliesi erano, nel complesso, regolate alla stessa maniera. Erano animate da uguale spirito fraterno, vivevano nel medesimo clima religioso e "democratico" ed erano cristianamente impegnate in analoghe forme assistenziali. Le differenze, anche se apparenti, erano minime e di poco conto.

Il vestiario, chiamato in seguito "abitino", per esempio, variava da confraternita a confraternita. Quello della "Compagnia del Santissimo Sagramento" ci è già noto, mentre per la "Compagnia della Madre Sant'Anna", all'inizio era così prescritto: "il sacco e visiera bianca, ed il mantello di seta color punzò, con suo orlo celestino, guanti color del mantello, calzati con scarpa rossa, ed orlo celestino".

L'insegna o distintivo consisteva in uno scudo in cui vi era "ricamata, o dipinta la Sacra famiglia, cioè Gesù, Maria, Sant'Anna, San Giuseppe e San Giachino", la quale insegna doveva portarsi "in petto nella sinistra parte della visiera". I vestiari della "Compagnia di Maria Santissima di tutte le grazie" e della "Confraternita dell'Opera Santa" (San Giuseppe) si caratterizzavano rispettivamente per i loro colori azzurro e marrone e per le loro insegne riproducenti i relativi santi protettori.

La "Compagnia della Madre Sant'Anna", dapprincipio si distingueva dalle altre per il suo sistema elettorale a voto palese nella scelta dei superiori e degli altri officiali. "Sonato il campanino, -prescriveva il regolamento - a posti tutti li fratelli a sedere si alzino dal maggiore sino al minore di uno, in uno, ed accostandosi al tavolino, ove è posto a sedere il Cappellano con calamaio, penna e carta, dia ognuno il suo voto a quelle persone quale parrà degna di occupare quel posto. Dati li voti come sopra, chi avrà più voti sarà eletto Governadore...". Stabilitasi, quindi, una graduatoria degli altri candidati votati, venivano assegnate le altre cariche. Questo sistema elettorale scoperto, nel 1831, con il riconoscimento governativo della confraternita, venne abolito e sostituito con quello a voto segreto, che, se da un lato garantiva una certa libertà di scelta, dall'altro agevolava l'infiltrazione di qualcuno non gradito dalle autorità ecclesiastiche e, viceversa, ben visto da quelle politiche.

La carta costitutiva di questa stessa compagnia si soffermava, a differenza di quella delle altre, a descrivere nel dettaglio i compiti dei sacrestani dell'oratorio.

A costoro spettava tenere puliti l'oratorio e le annesse sepolture, in cui non dovevano fare entrare alcuno "senza l'espresso permesso de'superiori".
Ma avevano anche qualche altro compito speciale: "È loro incarico - stabiliva il regolamento -situare li fratelli defunti nel catatojo, e dopo finito il tempo vestirli e situarli nella nicchia, a' quali per tale officio toccano tarì tre, e quando questi non gli saranno dati, gli spettano le scarpe del defunto fratello". Il "catatojo", cui faceva riferimento la norma sui sacrestani, era una camera sotterranea nella quale venivano deposti i cadaveri in attesa di disseccarsi e di essere collocati nelle apposite nicchie.

I sotterranei delle Chiese del luogo, con gli annessi oratori, tuttora esistenti, erano in quell'epoca adibiti a sepolture, per lo più, a incavi scoperti.

Il problema della sepoltura, in un primo tempo secondario per le compagnie aliesi, finirà per imporsi e per essere considerato tra i fondamentali se non proprio, come oggi avviene, il principale. Se ne ebbe un primo segno, in seguito al funesto propagarsi del colera, con la costituzione della "Confraternita dell'Opera Santa", detta anche della "Carità" e avente come patrono il Patriarca San Giuseppe, che fu fondata con il precipuo scopo di assicurare il "seppellimento dei cadaveri degl'indigenti". Nelle processioni il corteo dei confrati di cotesta congregazione si apriva con una grande Croce in legno e la scritta "Charitas", proprio a volere indicare il sacrosanto impegno di soccorrere i poveri nell'ultimo, loro estremo bisogno.
Con la proibizione della sepoltura nelle chiese e con l'apertura del cimitero fuori del centro abitato, laddove furono anche previste tombe sotto terra, la confraternita di San Giuseppe provvide, come le altre, a costruire sepolture collettive per i propri iscritti, che, in gran parte, furono artigiani. [...]


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tratto da Storia di Alia (1615-1860) , Eugenio Guccione, Salvatore Sciascia Editore
Capitolo VII
Tra associazionismo, assistenza e pubblica istruzione


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Edizione RodAlia - 21/03/2010
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