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Ambito di Ricerca:Tracce di storia locale
   
Il Movimento dei "Fasci dei lavoratori" a Lercara Friddi
 
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II Movimento dei "Fasci dei lavoratori" a Lercara Friddi *

Ringrazio vivamente il professore Alfredo Li Vecchi, che rivedo con piacere dopo il Convegno dell'aprile scorso a Campofiorito, il concit­tadino Nino Barraco, la cui presenza onora i nostri incontri culturali, e l'amico, da oltre vent'anni, Nonuccio Anzelmo, per avere dissertato tanto egregiamente sul Movimento dei Fasci siciliani, offrendo nuovi indizi di valutazione ed ampliando il campo di conoscenza.

Ringrazio anche le studentesse universitarie Pierangela Maniscalchi e Lisa Catalano per l'encomiabile iniziativa e per l'invito a partecipare a questo appuntamento storico, ormai doveroso dopo centodieci anni.

Premetto che nel mio intervento tratterò soltanto tre fasi dell'avve­nimento. II primo riguarda una testimonianza oculare di un momento del "Natale di sangue", ("Natale di sangue" è un'efficace definizione dello storico professore Giuseppe Mavaro); questa testimonianza è apparsa nel libro "Lercara Friddi", pubblicato nel 1965 dal sacerdote Giuseppe Canale.

1- Sono lieto di portare a conoscenza la testimonianza, affidata ad un nastro magnetico nel 1961, di mio nonno Nicolò) (1872-1962) il quale aveva appena ventun'anni quando si trovò in mezzo alla folla tumultuante.

Bisognerebbe ascoltare la registrazione per constatare il pathos che lo coinvolgeva nel rievocare i fatti vissuti e cogliere il suo stato d'a­nimo; comunque, le espressioni onomatopeiche che ascolterete, ne offrono una certa indicazione.

In verità speravo di farla ascoltare dalla "viva voce", ma non ho tro­vato il registratore vecchio tipo.

Dice testualmente mio nonno.

"Lu jornu 25 dicembri, ji era `mmenzu la chiazza, vitti `na pupula­zioni nda la strata di li Niculosi, m'avvcinavu, e arristavu dda `mmezzu. Nun putia iri, ne di sutta di la strata, ne di `ncapu.

C'eranu li carrubbinera misi a schera e nun passava nuddu. Lu restu di la strata era vacanti, larga, e dda `mmezzu eramu tutti stritti comu nda ‘na padedda.

Mentri era dda, affaccià un galantomu e dissi "Populu di Lercara, carmativi, si vuliti cosa, faciti acchianari `na cummissioni di quattru pirsuni, mi dici chi boli e vi lu cuncedu".

Ci acchianaru quattru, e siccumu eranu’ mbriachi, nun ci sappiru diri nenti; e scinneru senza cuncludiri nenti. Appena scinneru, la pupulazioni si misi a trari corpi di petra.

Ji vitti lu periculu, vulia sgriddari ma nun putia, picchi sutta e `ncapu c'eranu li carrubbinera cu li fucili pronti a sparari. U' sbirru allura cu la scupetta fici focu e sparà `na pocu di corpi... caderu cincu o sei cristiani.

Subitu `ntisi un corpu di trumma.

Capivu ca era lu signali di sparari. E mi dissi "Mortu ci sugnu, pi mortu e mortu, ora mi fazzu la facci tosta e biu si pozzu sgriddari". Accussi fici.

Arrivannu a la cantunera di don Pitrinu Cardinali, m'intisi cafud­dari nda la facci. Chi è, chi è; nun putia capiri chi cosa era... Eranu corpi di vricci.

Un omu, chi stetti quattordici anni ni mia a travagghiari, iddu e so patri, s'abbicinà e mi dici: "Eh ! mastru Cola, chi faciti ddocu, v'ammazzanu". (1)

"Picchi - dicu - cca ponnu sparari a li petri, a li valati".

"Ah ! no ! ... du campanaru sparanu, di la Matrici, arrassativi".

Subitu iddu m'affirrà e mi strascinà sutta lu finistruni di Scarlata, dda sutta a lu latu di la Chesa, quantu accussì nun ci putia sparari nuddu.

Comu nuatri sgriddammu tanticchedda di `mmezzu lu populu, nda la chiazza vidia scappari cristiani cu scocchi di sangu chi ci curria.

E c'era unu, chi si chiamava Niria Amatu, cu `na scocca di sangu chi ci curria tantu d'accussì...s'appuiava a lu vastuni... e arrivannu a la cantunera di don Pitrinu Cardinali, lu vitti sdummariari 'nterra.

Picchì tutti sti fatti? Picchi li sbirri, chi eranu a la porta, facianu supicchiarii a tutti. Pi forza s'avia sgabillari la farina, lu vinu, tutti li cosi di daziu, e li sbirri facivanu supicchiarii serii.

… E cu la scusa di arriscediri, tuccavanu li fimmini. Lu populu si ribillà e li porti foru livati".

Questa la testimonianza, ma ritengo utile commentare alcuni passaggi.

Si tramanda che proprio quella strada, dove abitavano i Nicolosi, sia stata oggetto di scomunica da parte di un liguorino, padre Vincenzo Farina, accusato, ingiustamente, di avere tradito l’ospitalità dei Nicolosi. (Ed è a tutti noto che presentemente si attribuisce a tale maledizione l'origine degli eventi negativi del paese).

Ebbene, per effetto di questo avvenimento, dei fatti del 1820, di quello delittuoso del 1848 contro i Nicolosi, della sommossa dei Fasci, e, non ultimo, della presenza delle carceri, per circa cento anni si detestava transitarvi.

Ad un certo punto, mio nonno dice: "Ci acchianaru quattro, e siccomu eranu 'mbriachi,... scinneru senza cuncludiri nenti".

Il fallimento del colloquio conferma che l'organizzazione locale non disponeva di un leader capace di affrontare una trattativa, che l'insurrezione fu anticipata e si svolse all' insaputa di Bernardino Verro, da Corleone, organizzatore dei contadini in un vasto territorio interno della Sicilia.

Il 20 dicembre, infatti, questi, prima di ripartire da Lercara aveva detto: “Domenica attendo notizie", e rivolgendosi alle donne: "Voi donne abbiate ancora pazienza, perché quando sara l'ora, voi dovete essere le prime".

Oltre alla sede del Fascio, luogo d'incontro con Verro era la casina di campagna che si trova in contrada Canalotto, di proprietà di Raia Federico, oggi, completamente ristrutturata, appartenente ai Caltabellotta.

Pietro Cardinale era il titolare della farmacia ubicata nell' ex bar Catalano, di cui abbiamo ammirato le artistiche scansie.

La presenza di guardie sul campanile della Chiesa Madre fa pensare che le Autoritá si erano predisposte per affrontare un'eventuale degenerazione della ribellione. E molto dura fu la repressione condotta da Francesco Crispi, il quale, in precedenza aveva soggiornato a Lercara presso la famiglia Napoli e, certamente, si guardò bene dal ritornarvi dopo il 1893.

L'ultima considerazione concerne la frase:

"E cu la scusa d'arriscediri, tuccavanu li fimmini".

Certo, le donne dei notabili e dei benestanti transitavano tranquilla­mente, mentre era ignominioso il comportamento, manifestamente morboso, delle guardie nei confronti delle contadine; ed era molto grave che il gesto di umiliazione era inferto da soggetti di estrazione proletaria, i quali, probabilmente avevano subito soprusi, ed ora, inve­stiti di un potere, espletavano con cinismo il proprio ruolo.

Questo specifico comportamento, ampliando il concetto, ci riporta al periodo feudale in cui i "signori" approfittavano della miseria dei "sudditi", e alla constatazione che la fine del feudalesimo, datata 1812, è stata formale poiché poco o nulla è cambiato, atteso che l'autoritari­smo, la prepotenza e le manifestazioni di vassallaggio persistono in molti settori dell'ordinamento sociale odierno, a prescindere dalla lati­tudine, dal colore della pelle e dal grado di civilizzazione.

Quasi un moderno feudalesimo, modificato e conforme all'evolu­zione, ma, più devastante in quanto nell'epoca moderna si dispone di maggiori mezzi e di raffinati sistemi e, soprattutto, di sagace e sofisti­cata dialettica.

Ed è estremamente preoccupante notare che l'uomo, spesso, tronfio di potere e di ricchezze, esercita il dominio con orgoglioso disprezzo, convinto di essere il “signore" della storia.

2 - A questo punto ripercorriamo insieme i luoghi dei tumulti seguendo il volume "Un periodo di storia municipale lercarese, dal 1889 al marzo 1894” di Giuseppe Scarlata. (Cartoleria Raffaelli, Palermo).

Il giorno 24 dicembre, alle ore 13 circa, Rosa Miceli, sposa di Orazio Rubino, soprannominata "Cellini", (intesa "Paulidda", mi riferì il nipote del marito, Filippo Rubino), presa una bandiera, unitamente a Lucia Iandolino, (sposa di Macaluso Luigi, abitante in via Ireneo Pucci) e a Santa Piazza, "invitarono gli uomini alla rivolta", percor­rendo le vie del paese, al grido: "Viva il Re, viva la Regina, viva Crispi, abbasso le porte". Era stato detto loro di andare avanti poiché i soldati non avrebbero sparato alle donne.

Si recarono, quindi, al Casino Concordia, ne sfondarono la porta e s'impadronirono di una bandiera; poi, passarono ai circoli Unione e Nazionale. Qui, trovarono la resistenza della "Forza pubblica".Impegnata un'accanita colluttazione, anche con lancio di sassi, due carabinieri ed una guardia municipale rimasero feriti; il delegato di Pubblica sicurezza e il Tenente dei carabinieri riportarono contusioni.

Vennero arrestati la Cellini ed altri dimostranti e furono strappate loro le bandiere. La folla divenne furibonda e promise che si sarebbe dispersa se fossero stati prosciolti gli arrestati. Le autorità credettero, ma i dimostranti, avuto ciò che volevano, gridarono "Alle porte!", e cominciarono a distruggere i casotti daziari con picconi e pali, incendiando i mobili e distruggendo gli attrezzi, a porta Friddi, Croce, Vasca, Fontanella e Passo Palermo.

Antonino Amato, favorito dalla confusione, sfuggì alle mani dei "reali carabinieri"; Giovanni Montelepre e Francesco Loria presero la stadera a posto Fontanella, ne tolsero il braccio misuratore e lo gettarono in un pozzo; il Loria con una pietra ferì la guardia Francesco Palizzotto; Gioacchino Gattano obbligò una guardia a gridare "Viva il Fascio,", ingiuriandolo "sbirrazzu"; qualche altro calpestò sotto i piedi il berretto che aveva tolto ad una guardia; infine, fu minacciato con un coltello il ricevitore del dazio Garofalo per strappargli la cassetta contenente le somme riscosse.

A Porta Palermo i dimostranti trovarono i soldati e i carabinieri, che, presi a sassate ed essendo inferiore di numero, trovarono scampo nella fuga.

I tumulti terminarono a tarda notte, durante la quale giunsero nuove truppe, il sottoprefetto del circondario Giuseppe Sorce, il procuratore del Re e il Giudice istruttore. La città era in grande fermento.

Il giorno dopo, Natale, intorno alle ore 16, mentre i predetti personaggi, insieme al sindaco Giulio Sartorio, alla Giunta e al segretario Gioacchino Furitano, erano nel municipio, situato nell'attuale via Vittorio Emanuele II, il corteo dei dimostranti si assembrò nella via e assaltò a sassate la "Forza pubblica".

II Sottoprefetto si affacciò al balcone del Municipio e tentò di calmare i rivoltosi, promettendo l'abolizione dei dazi, ma un bastone lanciatogli contro lo costrinse a ritirarsi; ciò nonostante, animato da sentimenti pacifici, riprovò altre volte a parlare.

Frattanto, i soldati e i carabinieri stavano fermi sotto una pioggia di sassi e, subito dopo, furono costretti a caricare la folla, impadronendosi della bandiera. Però, i tumultuanti, procurandosene un'altra, tornarono alla carica rompendo il cordone dei carabinieri.

Fu un momento terribile!

Alle grida di sedizione, "la turba, fattasi ardita", diede più vigo rosa carica, i carabinieri la respinsero e nella colluttazione parti un colpo di fucile.

Fu quello il segnale della catastrofe. Si udirono tre squilli di tromba e i carabinieri, indietreggiando, spararono. Le vittime cominciarono a cadere. I più accaniti dei dimostranti cercarono di raccogliere uomini per tornare all’assalto; dai balconi si urlava "morte agli istigatori". Grida di dolore echeggiavano sinistri, disperdendosi nell'incipiente crepuscolo.

La sparatoria provocò la morte sul posto e nelle ore successive di sette persone; i corpi vennero rimossi nottetempo. I tumultuanti si sciolsero quando videro le tristi conseguenze dell'azione di forza. Alle ore tre del mattino con un treno speciale giunge un battaglione di bersaglieri.

Una parente del segretario Furitano, Felicetta Furitano (1911-2002) mi ha riferito, per averlo appreso in famiglia, che, durante l'attacco, le autorità sfuggirono alla ferocia degl'insorti dandosi alla fuga in modo rocambolesco: attraverso una grossa tavola, posta tra la finestra del municipio e quella della casa dirimpetto, nel cortile interno che parte dalla via Vittorio Emanuele II, passarono in una casa che si affaccia sull'attuale via Giuseppe Scarlata, dalla quale poterono dileguandosi.

Il Sottoprefetto fece affiggere un manifesto e il sindaco, per mezzo del parroco, soccorse i feriti, circa cinquanta, e i più gravi furono con dotti a Palermo presso l'Ospedale San Saverio: Andrea Filippello di Francesco, di anni 45, marito di Giuseppa Montagnino e padre di tre figli, guaribile in un mese; Vincenzo Martino di anni 42, contadino, marito di Pasqua Bongiorno e padre di due bambine, guaribile in trenta giorni; Rosa Minutilla di Giuseppe di anni 21, moglie di Domenico Sferlazza e madre di una bambina, in pericolo di vita, guaribile in quat­tro mesi.

Vi leggo quanto contenuto nel manifesto originale, in mio possesso:

"Cittadini. Sono venuto fra voi fiducioso con intendimenti pacifici, conciliativi. Tutto speravo dalla civile cittadinanza di Lercara. Deploro i fatti di Domenica e più quelli di ieri, rimpiango profonda­mente le conseguenze funeste ma inevitabili.

La mia fede non è però venuta meno, e sono fiducioso che ognuno si adopererà perché torni la calma, imperi di nuovo la quiete.

Solo in tal modo il Governo che qui rappresento potrà studiare con ponderazione il problema e trovare in breve quella soluzione che con­cilii il rispetto alla legge cogl’interessi dei cittadini.

Lercara, 26 dicembre 1893 ore 12 m.

Il Sottoprefetto"

3 - Relativamente al numero dei caduti e all' esattezza dei loro nomi, ritengo sia necessario un chiarimento.

Sono certamente sette - come ho scritto nel 1990 nel volume "Lercara Friddi - itinerari storici e tradizionali"- poiché nella parte seconda del registro dei decessi dell' anno 1893, conservato nell'Ufficio dello Stato Civile, sono sette gli atti compilati con provvedimento pre­torile, dal numero 8 al numero 14, riconducibili al tragico evento.

Conferma ciò, l’avere appurato che nei primi tre mesi del 1894 tra i deceduti non appaiono i nomi dei tre feriti gravi.

1 - Piazza Francesco, di anni 50, muratore, deceduto il 25 dicembre, alle ore cinque e trenta pomeridiane, figlio di Michele e di Eugenia Pirrello, sposato con Oliva Catarella;

2 - Seminerio Teresa, di anni 26, contadina, nata ad Aragona, dece­duta il 25 docembre, alle ore cinque e trenta pomeridiane, figlia di Bertino e di Francesca Aurenziano, sposata con Di Piazza Gaetano;

3 - Siragusa Michele, di anni 55, zolfataio, deceduto it 27 dicembre, alle ore cinque antimeridiane, figlio di Francesco e di Dorotea Vicari Vento, vedovo di Giuseppa Raia;

4 - Vicari Stefano, di anni 32, zolfataio, nato, domiciliato e residente a Serradifalco, deceduto il 26 dicembre, alle ore due antimeridiane, figlio di Francesco e di Giuseppa Diliberto, celibe;

5 - Mavaro Gaspare, di anni 22, bracciale, deceduto it 26 dicembre, alle ore due antimeridiane, figlio di Filippo e di Rosaria Randazzo, celibe;

6 - Di Gregorio Antonino, di anni 32, contadino, deceduto it 26 dicembre, alle ore una antimeridiane, figlio di Salvatore e di Rosa Chimenti, sposata con Domenica Pecoraro;

7 - Greco Maria, di anni 32, contadina, deceduta i126 dicembre, alle ore due antimeridiane, figlia di Francesco e di Giarratano Maria, spo­sata con Salvatore Ganci.

La discordanza, relativamente al nome o all'età o alla professione delle vittime, viene evidenziata mettendo a confronto quanto risulta in tale registro - che ritengo conforme alla verità - con il rapporto dei Carabinieri, inviato al Prefetto.

La dissonanza è eclatante per un nominativo.

Nel documento della prefettura, tra i caduti appare certo Lo Monaco Paolino fu Salvatore, di anni 28 contadino; ho accertato, invece, che nel precitato registro non vi è alcun Lo Monaco nella parte seconda, mentre nella prima, al n. 276, risulta essere deceduto, il 3 dicenbre 1893, tale Lo Monaco Paolo, di anni 63, falegname, nato a Vicari da Giuseppe, sposo di Vincenza Sanzone.

Aggiungo una ulteriore notizia e, cioè, che Piazza Santa, nata a Lercara i1 25 agosto 1868 in via Croce, figlia di Carmelo, mori a New York il 16 novembre 1905, e viene detto testualmente, di essere morta in prigione "a causa di fuoco".

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* Convegno su "I Fasci siciliani. Repressione e mietitura di un sogno, Lercara Friddi - Natale di sangue (1893-2003)", tenutosi nella Biblioteca comunale di Lercara il 22 dicembre 2003, presieduto dal sindaco Gaetano Licata.

(1) L'appellativo di mastru discende dal fatto che mio nonno, oltre alla coltiva­zione della terra, si dedicava all'estrazione e alla lavorazione del gesso, alle falde del colle Madore; attività svolta dai miei ascendenti sin dal XVII secolo.


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Edizione RodAlia - 18/07/2010
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