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Memorie di vita aliese_1
 
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nr.1

Feria di Agosto


Confortati dal grande esempio di Federico di Svevia e di Federigo degli Alberighi, allevavamo ogni specie di volatili nelle lunghe vacanze estive degli anni cinquanta: cornacchie, carnivore già in culla, calandroni, ingozzati cu' ciciri caliati e masticati, e cardiddi austini , cresciuti con un saporito pasticcio di mandorle secche sbucciate e crosta di pane, masticate. con l'aggiunta di un po' di tuorlo d'uovo sodo, nel critico periodo della muta, riempiendo, senza saziare, quelle piccole, voraci, boccucce, con palettine, all'uopo, foggiate.

I grandi maestri del Rabat erano lu zi' Tanu e lu zi ' Vicinzinu Concialdi e nostra nonna stessa, concordi nella tesi della superiore qualità di una nidiata di cardellini agostini, di sicuro avvenire canoro, dal primo nato al cacaniro.

In tempi più recenti, ma, pur sempre lontani, ci avrebbe pensato mio figlioccio a farmi adottare una covata di cardellini agostini, prelevati da un saùco di lu Cravaniu dopo aver fatto fesso il suo socio in uccellagione. Mirabile nidiata di ben 5 cardellini tutti maschi, e passati tutti brillantemente attraverso il delicato passo della muta, grazie al succitato pasto, che, assegnati a 5 padroni diversi, per un decennio e oltre, resero grazie a Dio e alla Madonna, con il loro canto, per averli fatti crescere in cattività, diversamente dagli Ebrei, refrattari a Nabucodonosor nell'esilio babilonese. Alle.. fronde dei salici appendemmo la lira... (Salmo 136), da cui S. Quasimodo: Come potevamo cantare con il piede straniero sopra il cuore...?

In tempi più lontani rispetto agli anni cinquanta, Patri Petta saliva, bel bello, da Quattru porti alla Matrice, per andare a dir messa, dimenticando ni la puttrina un nido di cardellini agostini, i quali con un ulteriore carico di amitto, camice e pianeta, furono portati, dal prelato, all'altare, e tutte le volte che Patri Petta si battìa lu piettu, dal mea culpa al Domine, non sum dignus, i cardellini, sentendosi così amorosamente solleticati e annacati, ritenendo trattarsi di parente stretto, rispondevano: Zi' Petta!..., Zi' Petta!. ... E fu una fortuna per quei nipotini finire in pectore a Patri Petta!....

In un fiat trascorreva l'agosto, tra poppate, letture, scampagnate e la miriade di stellari a sera, con la pretenziosa sequenza, di un classismo piccolo-borghese: Preservare e conservare ogni ceto regolare..., la macchinosa Offerta e la dolcezza amara della Salve Regina . E quannu austu stracuddava, ni pigghiava lu friddu, sentendo l'approssimarsi dell'autunno e, con esso, della scuola, e si cominciava a chiedere agli anziani si li matinati di Santa Muonica erano state asciutte o bagnate, nella speranza che ci sarebbe stato, almeno, un inverno mite, e quali mosse aveva fatto il cane dalla coda foriera di buon tiempu e malu tiempu, come il ringhioso Minosse, nell'Inferno dantesco, giudica e manda secondo c'avvinghia...

E intanto, nonostante gli sbalzi di umore, l'estate durava, e noi, sdraiati supini su un'aia ormai stantìa, interrogavamo le lune di agosto e di settembre, dai faccioni rassicuranti e ammiccanti, il cui lume, per quanto bianco e diffuso, non riusciva a cancellare il bianco lattiginoso dell'immensa Scala di San Japicu, che conduce in Paradiso, e il disegno di Lu triali, posto là come un teorema che non si sa dimostrare; e ci intratteneva, estatici e trasognati, la lunga e interminata trama di l'ariddi di San Giuvanni, iniziata nelle notti di giugno, e, a mezzo settembre, ancora, incompiuta.

Didacus
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pubblicato nel Periodico parrocchiale "La VOCE" di Alia, nr.3/98, pag.3



nr.2

"Angele Dei, qui es custos mei... "


E’ ura di famiari, dice nonna a se stessa, dopo che ha, già, portato la legna nel rettangolo terragno di cucina, nel cui angolo, prospiciente la porta, e la porta, il sole a mezzogiorno, campeggia il forno, rispetto agli altri membri di un complesso, unificato dall'architettura a gamma maiuscola e dal comune fine della cottura degli alimenti, a legna e a carbone, mentre il pane lievita , sotto coltre, sul tavolo, attorno al quale, a pranzo e a cena, seggono, tra grandi e piccoli, sino a 10 commensali...

In pochi, crepitanti, secondi, grazie alla sacra paglia, il forno s'incendia, si illumina e se ne scopre l'interno, ignoto, sempre, sinché le fiamme non ne abbiano rivelato, tutte le volte che si famìa, la sua antica, forma, ad emisfero; lu cielu, appunto, tutto di mattoni di nostrale stazzone...
Il suolo, ora, occupato da legna ardente, si manifesterà, parzialmente e con qualche aporìa, non appena nonna avrà fatto mutar posizione al fuoco, e nella sua interezza circolare, all'atto della scupuliata , prima di infornare il pane, al lume di la cannila ad uogghiu...

A mano a mano che la legna si consuma, altra ne mette l'ava, con gli occhi, frattanto, a lu cielu di lu furnu, per vedere se accenna a schiarirsi, indi provvede ad una prima rimozione di detriti incandescenti, dopo aver portato la legna tutta da un lato, armeggiando cu rastieddu e palittuni, e mettendo il tutto in quel portento di economy che è l’accupaluci.
Altra legna, altra sottrazione di ardenti carboni, fino a quando il cielo di mattoni non sia bianco come vuole lei, attenta, ancora, a che il suolo sia adeguatamente e uniformemente riscaldato, perché non succeda di sfornar pane scarsu di suolu..

Talora il forno, o, per il gran freddo, o, per altra causa, magari per il pane, troppu scriscintatu, poco maneggevole, quindi, e di difficile traslazione sulla pala e, di là, sul suolo del forno, attraverso quel destro movimento, ben noto a quanti frequentano pizzerie, restituiva un po' di pani, specialmente, tra quelli più vicini alla bocca del forno, crudi, anzi che no, per cui, destinati al rinforno, in una cu lu canigghiottu, per il cane ...

Pani a lu rinfurnu, dal caratteristico odore, colore, consistenza, sapor di bellica galletta, o di certa fetta biscottata di moderna, rinomata, industria alimentare...

Talaltra, il forno, già bello di candore e di splendore, ancor, rischiarato da sinistrorsa fiamma, accoglieva uno speedy stage di vasteddi, subito, gonfie, come air mattresses, colorite, invitanti...
E quando cielo e terra, in armonia, cantano la bianchezza e la luminosità di quel tempio circolare, in scala, tutto di mattoni cotti e stracotti, allor nonna, toglie l'ultimo fuoco, mette alla porta un fumante tizzone, scupulia, cu scupuni vagnatu, il forno, or buio, al lume della lampada ad olio, e, supportata, in questa delicata fase, da altra persona, amorevole, nell'atto di prendere ciascun pane dal letto, per deporlo sulla pala, esegue, nel minor tempo possibile, un'infornata di una quindicina di pani, compreso quello da rendere alla vicina ... Lu pani è grazia di Dio e un po' filari o mucari nna lu cufinu, e, quando è andato a male, neppur le omnivore galline ne vogliono...

A proposito di grazia di Dio, era nonna che, al mattino, cci pizziava il pane nella tazza, versandoci, poi, il latte bollito; pane sicuro, anche se, spesso, raffermo, e quelque morceau, all'essenza di agrumi... Dopo che noi, col cucchiaio, avevamo portato in bocca e consumato i pezzettini intrisi di latte, bevevamo il latte rimasto, trascurando il deposito di mugghicagghi del fondo della tazza ... Allor nonna frenava il nostro impulso a tagliare la corda, e ci diceva che non potevamo lasciare là, quegli angioletti, che, a turno, ci avrebbero custoditi, per tutto il santo dì... Me, tibi, commissum pietate superna; hodie, illumina, custodi, rege et guberna. Amen

Didacus
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pubblicato nel Periodico parrocchiale "La VOCE" di Alia, nr.3/97, pag.3



nr.3

Il Siciliano di nonna Rosa


Il siciliano di nonna Rosa scorreva limaccioso ed esotico come il Mississippi River, dalle cui foci l'ava proveniva, e suonava forestiero non solo a chi, come me, era nuovo alla vita e alle frequentazioni, ma, anche, a chi aveva, con lei, lunga dimestichezza.

Il suo ”cockney”, frutto di personale elaborazione, non era più gestito nell'ampio spazio di percezione delle campane della sua americana Saint Mary, bensì in quello, più limitato, del suono della campanella dei Sacri Cuori, che la chiamava alla Messa Cattolica di ”Patri ‘Ucciuni”. Il suo era un ”cocktail”di parlate neo latine, anglosassoni e creole, centellinato con lo stesso amore con cui delibava il vino maritale della vigna di ”Li Timpi”. Era l'impasto di uova, petrosino, cipolla, cacio, carne o pesce, peperoncino, pronto, nel ”lemmo”, per essere trasformato in polpette, nel quale, affondavo tre ditini congiunti, a mo' di gancio, per riempirmi la bocca, lasciando trasecolata la gatta rosciana di nonna.

Il suo farraginoso e composito eloquio aveva un forte potere evocativo. Una folla di persone, senza tempo, veniva fuori dalle sue parole, prendendo corpo e muovendosi, a guisa di elisie anime: il padre, Giò Purpera, padrone di pescherecci a Tusa e, ”boss”, in Louisiana, la sempre invocata, madre, Maddalena Greco, il fratello maggiore, Vicienzu, le due sorelle, Francis e Sara, spose dei loro primi cugini Cefalù; Margherita, sorella del cuore, in corrispondenza epistolare con nonna, in una lingua transnazionale, ma di chiara origine occidentale, dall' ossimoro di una calligrafia ”a peri di jaddina”, dacché il figlio Giò, di soli sedici anni, era fuggito per l'America, riparando dalla zia, nell'ancestrale New Roads; il fratello più piccolo, Charly, coetaneo e compagno di giuochi di papà e di zio, tirato su, si può dire, da nonna, assieme ai figli, sino a pochi momenti prima del traumatico distacco della sorella, della figlia, della cugina, della nipote, dal già consistente numero di membri della patriarcale famiglia dei Purpera, per seguire, novella Creusa, il marito, in un ritorno, se si vuole, paradossale e controcorrente, se non fosse avvenuto il quale, però, bene o male, non saremmo qui a scrivere.

La sua lingua, barocca, come la sua cucina, ma piena di principi attivi, mi ha sostenuto nel periodo della fanciullezza e della lunga e inquieta adolescenza, e nel momento, per me critico, del freddo transito dal dì alla notte dei pomeriggi invernali, quando, avvicinandomi al braciere, in cerca di calore, lei, dolcemente mi preveniva nel sinestetico, rituale, atto di ”arriminari lu luci”, e mi mostrava come la ”tassùra” facesse appiccicare la cenere alla paletta.
L'involontario riaffiorare di parole come ”dense-Milk”, “cciànza” - chance -, ”burcetta”, “giannetta”, di locuzioni come " 'un essiri grieviu", “Chi nick e nack", “Si vesti comu 'na nunna", di topònimi, come ”Niùrùd" - New Roads -, ”Novalenza" - New Orleans, ”Pittinèu", Pèttini Russult" - Baton Rouge - “Bàciala"- Batchelor -, Morganza, Roccaurci "- raccourci -, ricorrenti nel suo discorso, mi fanno trasalire e mi riportano, vicino a lei al calduccio del braciere, io di sessanta e nonna di centoventi.

Il suo dialetto era una squisita e composita ”fruit salade", dagli effetti inebrianti. Era il bel piatto di patate fritte, condito con sale e aceto, alla maniera ariscia, ma senza pesce, o con lo zucchero di canna, alla cajun, o con zucchero di barbabietola, all'alisa, per rimediare alla lamentata mancanza delle patate americane.
La lingua di nonna era il suo fumante minestrone che faceva prudere il naso a papà, che, dopo novant' anni, della fanciullezza, a Pointe Coupee, ricorda il solo zio Charly, per aver litigato, con lui, per una “rumariddina", sino a pochi minuti prima di partire.
Era il suo odoroso brodo di carne, dai cento elementi vegetali e animali; forse il più qualificato simbolo della sua ibrida e sostanziosa lingua. E mentre digito, tentando un atterraggio all'americana, per concludere questo breve viaggio nella memoria affettiva, invano cerco di ricordarmi di una “fruit salade" infantile, con cui l'allusiva e paziente ava rispondeva alla nostra richiesta di monetine da cinque e da dieci, di cui eravamo alla continua ricerca, in quello scorcio di tempo tra i '40 e '50. Di essa, però, non mi sfugge l'inizio: “E papa ghive nickell - E mama ghive nine - E nona dòn un pìccì...", la cui esegesi sarebbe difficile a chi non avesse la minima idea, del crogiuolo di razze e di lingue che era la Louisiana, a cavallo tra l'8 e il 900.

Didacus
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pubblicato nel Periodico parrocchiale "La VOCE" di Alia, nr.3/03/04, pag.3



nr.4

'Na mustarda ni la manica


La nonna materna, a tiempu di ficurini, ci riuniva di buon mattino ni' la casa morta, fresca d'estate e calda d'inverno, che, per quanto buia e sotterranea fosse, era rischiarata, attraverso un catarrattu, da un lucernario, praticato nel tetto solare di un camerino soprastante, certamente da un mastro di arte saracena, che aveva, così, dato luce alla casa morta (e con essa un soffio di vita), al camerino e all'attigua camera da letto, attraverso le fessure verticali della porta che le ingiurie del tempo e la vivacità di noi ragazzi avevano provocato...

Era in siffatto camerino che, ancor in tempi di mia memoria, c'era un signorino, cu' li manu a li scianchi... e noi, nei nostri lettini, nelle gelide alborate invernali, speravamo ardentemente di non vedere la luce filtrare per le connessure della porta e di sentire incrinato il suono di la campana dl la Matrici chi lu zi' Minicu, cadenti cielo, sonava a lu Patrinostru o pi la prima missa, o chiddu di li du' campani di lu roggiu, (la grannuzza e la nicaredda), segno sicuro che c'era la neve e noi potevamo rimanere al calduccio del letto, e se ci fossimo alzati non era per andare a scuola ma per vedere, attraverso la finestra della stanza da pranzo, il cortile Genco, colmo di neve immacolata, se non fosse per qualche insonne vicino che già spalava, e il candore della via Diaz, segnato già dai passi di uomini e bestie che la neve non fermava...

Proprio sutta lu catarrattu di la casa morta, ora morta davvero, quando l'estate era matura, agghiurnava 'na 'mposta di ficurini, proveniente, cu' carteddi e panàra, di L'api, di Li tempi o di Raciura, intorno a cui facevamo girotondo, larga corona di nipoti, per un non più usato breakfast, la nonna ad armeggiare con un vecchio coltello da cucina, per rendere inerme lo spinoso frutto e noi, a turno, a delibare il nostro ficodindia, dolce di salutare fruttosio; australi, muscarieddu o sanguigno che fosse; companatico di fidduna di pani di casa, per saziarci meglio e pi' non 'ntuppari (ci diceva la nonna), fino a quando non si fosse esaurita la 'mposta, che si rinnovava miracolosamente il mattino successivo... "Nonna nonna, na ficurinia sanguigna a mia "No, a tia ti tocca muscaredda, chista sanguigna è pi' to' suoru... ".

La casa morta risonava di parole del lessico opuntiano o allusive della spinosa questio, gridate, contro il galateo, a bocca piena; di lazzi e motti, e la nonna materna, anche lei austera e dolce, come un'opunzia, disarmava, moderava e amministrava in modo equo, ricorrendo solo di rado a lu sarmientu coi più riluttanti dei nipoti, maestra di lingua e affabulatrice: "Pi' Sant'Antoniu (era il suo santo), 13 giugno, si scuòzzulanu li ficurini, pi' San Giovanni, 26 giugno, ci cari la grazia a li vavalucieddi... Quando l'estate, al culmine dell'età, dava segni di malessere, e l'autunno, un po' becchino, la sbirciava con intento. la nonna, la zia, una vicina di casa, un'ospite palermitana, cominciavano a mondare una buona partita di fichidindia, che mettevano a cuocere ni la quarara granai, bistrattandoli con una robusta paletta di legno.

A un certo punto si levava la poltiglia dal fuoco vivo di la furnacella e, dopo averla passata al setaccio, vi si rimetteva, continuando la cottura, arriminannu e aggiungendo, man mano, della farina, a sfilucchiari, uso pitirri, finchè non avesse acquistato la densità di lu pitirri... Allora si toglieva definitivamente, dal fuoco e si versava sul marmo, dove si poteva modellare a piacimento, a freddo, incidendo col coltello secondo le regole della geometria solida, o riempiendone, a caldo, formette, che davano questa o quella figura alle mostarde.

I piccoli solidi e le creaturine così ricavati dalla materia informe, diversi tra loro, ma tutti dello stesso spessore, si disponevano sulle tavole di l'astratto per l'asciugatura al sole, che dava loro un'accresciuta consistenza gommosa, la dolcezza dei sapori autunnali, il colore e la trasparenza dell'onice. Intanto, na lu stipu, dintra li burnii, le ricordo ancora le mostarde, mentre si velavano di zucchero, come nevischio sui personaggi del presepe, qualcuna somigliante a lu Bamminieddu 'ni la culla, e mi dicevano che il Natale era vicino...

Una mostarda, poi, poteva essere la posta per un ambo alla tombola tra vicini di casa, la sira di la Vecchia e..., al mattino, te la potevi ritrovare, in forma di Gesù Bambino, 'ni la manica, rigonfia e legata, come sacco, del tuo cappottino rosso, bene in vista dinanzi al tuo lettino, quando avresti riaperto gli occhi, sgranandoli, che la Vecchia Strina, colà, aveva sistemato, a guisa di spaventapasseri, per tenere lontano dai sogni di fanciullo un po' spaurito il volo breve di un barbagianni, dal piumaggío morbido, come gomitolo di lana Angora, o quello, a zig zag, di un pipistrello, dalle ali nude e fredde; che, irragionevolmente e accidentalmente, addirittura, s'mpiglia nni la cuttunina…”Taddarita, vieni cca, ca ti dugnu a to' papà; to' papà è all'Acqualonga; tira, tira, ca t'allonga…”

Didacus
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pubblicato nel Periodico parrocchiale “LA VOCE” di Alia, nr. 4/95, pag.3




nr. 5

”A lu Zarbu” col turbante


Se si va a consumare “zabbina" a “Lu Zarbu", a stomaco vuoto e, in testa, non necessariamente, il turbante, ma, almeno, un'infarinatura di cose arabe, sentiamo subito che c'è nell'aria ancor prima che nelle parole e negli atti dei personaggi di la “mànnira" , qualcosa dell' incanto degli ancestrali “cunti di la nanna". Entri ”na lu pagghiàru, cu tettu a la saracina" attraverso una porticina che interrompe la solidità di ”lu cassu, tuttu petra e taju" , arenaria dura del Miocene, e, vedendo ”lu cràtulu", patruni e sociu di mannara"muovere lentamente ”lu zubbu", attento a non fare attaccare la ”lacciata a lu funnu di la quaràra di ramu stagnatu", non gli dirai, subito, quel che sai, e cioè, che, nella lingua araba, ha lo stesso nome un arnese ad esso somigliante, ma di ben diversa funzione..

Lu ”cràtulu", pur non perdendo di vista ”quaràra e furnàca", si permette qualche ”smàfara" per manifestare l'alto gradimento del visitatore, per quanto non invitato, ed essendo, ormai, prossimo il momento che precede l'affioramento della bianca creatura, che seduce l'anima, ancor prima dei sensi, lascia ”lu zubbu pi' la cazza", pòrta dall'attempata sposa, bella come una cassata. Il crinale tra bollitura e non bollitura è sottile, ma esiste, deve esistere...

Ed ecco che la ricotta comincia ad affiorare come neve che venga dal basso, in un mondo al contrario, o, se si vuole, come Venere, partorita dalla spuma del mare. E una cazzàta a me, una a te, sino all'esaurimento, la ricotta viene assegnata, con rigoroso criterio, nella quantità e nell' ordine, a recipienti in carne ed ossa e di giunco.

Prima di abbassare la saracinesca su questo piccolo bazar di tre o quattro ”lemmi" , di sicura o sospetta radice araba, checché ne pensi Silvio, mi scappa detto: ”Non la Coop, ma gli Arabi, sei tu!...". Sono sicuro, però, che anche il nostro premier annuirebbe, contento, se gli capitasse, di leggere queste righe, anche se considererà segno di progresso, la sostituzione di ”fasceddi di juncu", cilindrici, di varia misura ”vacilieddi di ramu e mazzi di liama, sischi, tini e siscuna di castagnu", tronco-conici, risultato della giustapposizione di ”duvi", tenuti da ”circhi", con i tanti, di varia foggia, colore e grandezza, comodi, contenitori di plastica.

Se al Premier saltasse in mente, poi, di interdire l'uso di ”li quarari di ramu stagnatu, nna li nuostri casi e nna li nuostri pagghiara" che ci consente di vivere ancora nel Miceneo, imponendo le pentole di alluminio, zitterebbe per sempre il grido, duro a morire: ”Cu àvi quaràri di stagnari?! . di lu quararàru", che, come il rosso di sera e di mattina o il colore della luna, aiuta la gente a capire che tempo farà.

Didacus
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pubblicato nel Periodico parrocchiale “LA VOCE” di Alia, nr.3/02, pag.3



nr.6

"La 'mposta"


“Partì la 'mposta!“ - a qualcuno capitava detto in quella specie di agenzia di notizie che era “lu bar di lu zi' Giurlannu<“/i>. E la “ 'mposta“ era partita davvero. Si partiva nelle notti di luna di settembre, non per scansarsi la calura estiva, ché non c'era più “austu riustu capu di 'miernu!“, ma perché fosse possibile, “a la scurata“ del dì successivo, giungere dalle parti di Scillato, dove avveniva una prima sosta, in un boschetto ameno e ricco di acque o presso una masseria ospitale, sulla via per Gibilmanna.

La“ 'mposta “, con la luna crescente e col suo seguito tintinnante di muli carichi di frumento, “na li visazzi o na li sacchi“, dalla succursale aliese, attraverso trazzere larghe e strette, in discesa e in salita,si muoveva, guidata da un esperto “urdunaru di burgisi“ che per devota consuetudine fornivano “riétina“ e “capu-riétina“ per il trasporto del frumento di la Madonna di “Gibilimanna“,“patruna di l' àrii..“

Arrivavano a “Lu passu di lu Bamminu“, e, da oltre il passo, deviando a destra, per una via che saliva gradatamente, per ore ed ore, tra Malascarpa e Coscascinu, attraverso “li vuoschi di la Granza e di lu Cordellinu“, sfiorando come una tangente l'area cerdese, ma senza nulla aver a che fare col paese della Targa allora, del Carciofo ora, giungevano finalmente a“Lu sciumi granni o sciumi Imèra..“.

Dopo aver guadato il fiume per una delle tante secche e averne percorso la riva destra, saliti un po', si era già dalle parti di Scillato.“Cu la nova stidda“, quando la luna era già a tre quarti del suo cammino notturno, dopo una invocazione in gergo a la Madonna di “Gibilimanna“,“la 'mposta“ riprendeva l'altra parte del viaggio che le rimaneva.Attraverso una delle regie trazzere si saliva fino a Collesano e di qui, arrivati alle falde del monte Dipilo, si deviava a destra per Isnello o a sinistra per Gratteri, secondo la preferenza di “lu urdunaru“, che poteva essere determinata dalle sue origini. Nell'uno o nell'altro caso, le due vie, dopo un cammino lungo, erto e divergente e uno scarto di altitudine di cinquecento metri almeno, vanno ad incontrarsi su un ampio pianoro avvolto dalle sugherete, di una bellezza indicibile, per i verdi prati e le limpide fonti, ristoro del pellegrino, e perché da esso, come da un alto parterre, si può contemplare, vicinissimo, ma ancora più in su, il Santuario, della Madonna di Gibilmanna, da un lato, a mezza costa di Pizzo Sant'Angelo, e dall'altro, come in un immenso, azzurro e profondo abisso, Cefalù, la Cattedrale, e l'ampio tratto di costa e di mare da Cefalù a Palermo...

La“riétina“ continua a salire per l'ultimo tratto di strada sino al Santuario e ai magazzini del Convento. È vigilia di festa a Gibilmanna. Gli spazi circostanti sono occupati da frotte di montanari madoniti e di gente di mare. Nella chiesa c'è il vespro e, tra incensi e fiori, i frati salmodiano, cantando: “Magnificat anima mea Dominum“ alla Madonna, dai delicati tratti gaginiani, che dall'alto della sua cappella guarda, riconoscente, i fedeli, col suo dolce viso di un pallore surreale... Accanto, il miracoloso Crocifisso che disse a frà Gabriele: “Qui comanda mia Madre!“. Dinanzi, vasi di basilico e gabbie di canerini, interferenti con incensi e salmi... “Se non fosse per la stanchezza. qui è un Paradiso!“ - pensò “lu urdunaru“; “Se non avessi moglie e figli, vorrei fare anch'io lu monacu, comu frat' Angilu!“. Domani, messa cantata e processione. Ma la “ 'mposta“, sciolto il voto, notevolmente alleggerita, sarà già a metà del suo cammino sulla via del ritorno.


Didacus
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pubblicato nel Periodico parrocchiale “LA VOCE” di Alia, nr.1/94, pag.3



nr.7

"Viaggiu a piedi scausi"


Anche noi ricordiamo di avere sfilato, ancora ragazzi, cu' rubbuni russu e sarpiddizza bianca, merlata, a piedi scausi, nella interminabile processione di lu du' Lugliu. Erano tempi duri, per noi studentelli, come pì burgisi e maistranzi, quelli che precedevano la festa, sia che ci trovassimo a Cefalù, sia a Palermo, sia a Termini Imerese, per le peripezie dell'ultimo scorcio dell'anno scolastico. Ci sentivamo cosi sballottati per il vasto mare dell'inquietitudine, da raccomandarci alla Madonna perché intervenisse a che fossimo rimandati, almeno, dato che la promozione ci appariva come un'Itaca bella e impossibile, che noi, anche in quel caso, avremmo compiuto un viaggiu a pieri scausi a la Madonna di li grazzi ....Era un modo, anche, per stabilire un aggancio con la festa, che, sennò, nelle condizioni difficili in cui versavamo, ci sarebbe apparsa, come la promozione, così distante e irraggiungibile, nonostante la sua vicinanza.

Il cittadino aliese, vicino o lontano, all'Alia o la campìa, in Sicilia o na lu New Jersey, in un frangente di pericolo o solo in difficoltà, si rivolge a Maria Sanctissima omnium gratiarum, patrona del paese e fuori, e allora egli farà un viaggio ad Alia, per sciogliere il voto, in occasione della festa di la Madonna, impressa nella sua mente e nel suo cuore come può essere l'indipendence Day per un americano e il Palio per un senese, ricorrenti l'uno il 4, l'altro il 2 luglio.

Di solito la promessa non è perentoria in relazione al tempo, perché mille difficoltà possono intervenire ad impedire una prossima realizzazione del viaggio, specialmente quando c'è l'oceano dì mezzo, ma non si transige sulla necessità di sciogliere il voto quando che sia. Anche dopo dieci anni. E talora, quando se n'è sciolto uno, ce n'è già un altro in lista di attesa. Talaltra sono i figli a sciogliere il voto di uno dei genitori. E' un impegno religioso che porta certi emigrati a ritornare ad Alia ancora una volta. "Devo venire immancabilmente ad Alia picchì aju na purmisioni a la Madonna ...", scrivono o telefonano accoratamente... Ma, in realtà, la promessa è anche un inoppugnabile motivo con cui nascondono, con pudore, l'incontenibile, immenso desiderio di ritornare neilla propria, dolce - amara, terra.

La processione di allora e di sempre, per omnia saecula saeculorum, imponente per il numero di persone che vengono da tutte le parti del mondo, è commovente per l'interminabile sfilare di fedeli, a piedi scalzi, con torcia accesa in mano, da cui colano abbondantemente grosse gocce di cera vergine che rendono sdrucciolevoli le strade e macchiano il devoto vicino sotto vento ...

"C'è Pina di l'Inghilterra'.": "Cè Tresa di lu Venezuela!"; "C'è totò di lu Sud Africa' ". si sente osservare, a fìl di voce, ma, con meraviglia, da qualcuno della gente che fa ala al passaggio dell'interminabile corteo.

Ci sono persone che non conosci e non conoscono te, perché ormai lontani da troppo tempo, o perché figli o parenti acquisiti, di altra nazionalità, che hanno imparato ad amare la Nostra Madre, grazie a un figlio con cui si sono imparentati. C'è un fervore, una commozione, una così forte emozione che ti stringono la gola e vorresti gridare a squarciagola come per liberarti, piangere a dirotto e gridare come un bambino: "Mamma! Mamma!", e non ti accorgi che stai chiamando la tua madre terrena, forse per chiederne conto alla comune Madre celeste.

È forse l'unico momento dell'anno in cui i cittadini aliesi, residenti e non, si sentono veramente uniti e affratellati dal comune, grande, amore per la Madre di tutte le grazie ... C'è gente importante, anche; voglio dire uomini e donne che, partiti un giorno ormai lontano da Alia, con fede, intelligenza e fortuna, si sono fatti strada: ecclesiastici, secolari, e regolari, suore, alte autorità civili e militari, professionisti, industriali, operai specializzati; qualcuno, dopo essere salito, alla stazione di Roccapalumba - Alia su un affollato treno a carbone, facendosi precedere da una valigia di fibra, magari con due giri di rumariddina o zabbara, per essere sicuro che non si aprisse, dando ragione al detto aliese: "Cu nesci, arrinesci..." e ad un altro, di cui chiedo venia come per un lapsus calami, perché meno appropriato alla circostanza, per quanto non meno colorito: "Quannu lu peri camina, lu cori sciala!..."

"Inni d'amor eleviamo alla Madre del Ciel! Canti ogni cuor la dolcissima Sua bontà", intona la banda musicale o il nostro padre Rosolino, dalla sua jeep, con la sua bella e, anche senza il megafono, altosonante voce tenorile, e la interminabile caterva di fedeli, a piedi nudi o con calzari di varia foggia, con o senza cerone, seguendo a ruota: "Madre di grazie a te corre il popol tuo fedel; dona la pace e l'amor, ad ogni cuor dischiudi il ciel...".

E l'odore di nafta bruciata, in quel tripudio di fede e di amore, no, non ti fa male, se pensi a quanta ne ingurgiti nel traffico cittadino, anzi ti porta a pensare al tempo in cui le macchine erano ancora rare e magari ad una gita in torpedone al Santuario di Gibilmanna ... "Madre di grazie a te corre ii popolo tuo fedel. Dona la pace e l'amor ad ogni cuor...".


Didacus
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pubblicato nel Periodico parrocchiale “LA VOCE” di Alia, nr.2/07, pag.8






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Edizione RodAlia - 26/11/2010
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