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retaggio delle genti.com. divulgazione culturale su particolari aspetti di località e di vissuta umanità. |
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LA 'NCANTINA CHE ODORAVA DI ZOLFO |
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Introduzione
Alcuni ripetono, con convinzione, che rievocare il passato sia una manifestazione nostalgica per un vissuto che non può ritornare; si, non può, anzi non deve. Però, rievocando, non si auspica il ripetersi di ciò che è stato, ma di prendere coscienza di un segmento temporale che ha inciso sulla psiche degli uomini che c’erano e sull’ordinamento della società; infatti, il loro modo di vivere e di operare fu condizionato ed orientato da quella esperienza, contribuendo a confezionare una nuova e diversa mentalità individuale e collettiva. Noi, quindi, siamo soggetti derivati e conseguenti, e le nostre modificazioni, a sua volta, determinano la formazione della futura coscienza e la base per il successivo sviluppo. Pertanto, conoscere il vivere di ieri è imprescindibile in quanto ci induce a dirigere le nostre azioni e ad agire in seno alla “cosa pubblica” in senso migliorativo. Da tale riflessione discende la ineludibile conclusione che volere costruire il domani ignorando quanto accaduto, equivale a costruire un edificio senza avere prima gettato le fondamenta. Per rafforzare il concetto, che sembra essere opinione diffusa fra gli uomini di buonsenso, desidero illustrare una similitudine che appartiene alla contemporaneità. Ci siamo dimenticati o non vogliamo accettare che il lavoratore della terra ha assicurato la sopravvivenza all’Umanità e che l'artigiano con la sua creatività ha inventato arnesi su cui è stata strutturata la tecnologia. Questa mancanza di memoria ha causato l'abbandono delle campagne, con relativo dissesto geologico, e disastrose tensioni sociali, sino ad ora non arginate, tanto da compromettere il rifornimento degli alimenti di sostentamento e da causare il depauperamento degli addetti e l'estinzione di attività artistiche. Per contro, si è incrementata una pletora di aspiranti ad un lavoro semplice, leggero o assente, e ad una remunerazione a volte inversamente proporzionale ai risultati conseguiti. Se, invece, si fosse meditato e modificato, in armonia con l'evoluzione dei tempi, la concezione e la struttura del sistema, si sarebbe data dignità a ta1i tipologie dì lavoro e garantita l' operosità dei lavoratori; inoltre, si sarebbe intuito di riconoscere, questi, meritevoli di attenzione e di considerazione, nel senso dì rapportarsi con loro come con le altre “categorie di lavoratori”, reputate rispettabili. Del duro lavoro manuale era necessario valorizzare la laboriosità, l' ingegnosità e le capacità fisiche e intellettive degli operatori. Rinnegare è un atteggiamento esecrabile verso i nostri antenati i qua1i esercitando tali umili mestieri ci hanno preparato l'agiatezza del presente. Una miopia va1utativa, la nostra, che crea contrasti, lutti, rabbia, dolore, pazzia, la cui mancata soluzione potrà essere fatale per tutti. E
la 'ncantina, che per centoott'anni è stata parte integrante della
vita lercarese ed ha coabitato con il complicato mondo delle miniere
di zolfo, ha assunto una connotazione Una nuova attività commerciale “A 'ncantina“ Nei centri della Sicilia in cui furono scoperti giacimenti di zolfo sorsero dei locali aperti al pubblico, aventi una propria tipicità, frequentati principalmente dai lavoratori delle miniere. Si trattava delle cosiddette “'ncantine”, assimilabili all'osteria, e alle “Putii di vinu”. Il temine 'ncantina è mutuato da “cantina”, vano di conservazione delle botte di vino; nella fattispecie, è associato al commercio e, per estensione, alla consumazione di alimenti che, a motivo dell'aggiunta di taluni ingredienti, sollecitavano la richiesta di vino. Non esponevano alcuna insegna scritta, essendo riconoscibili da due simboli: un tamo di alloro ed una lampada, posizionati sopra la porta d'ingresso. La lampada - in passato lantema ad olio - rappresentava un elemento di attrazione, dell'alloro non è stata tramandata la didascalia. Il suo significato simbolico è “gloria, vittoria”, che non sembra avere riscontro né con il vino, né con le pietanze, mentre trovo appropriato il riferimento al suo uso nei riti propiziatori e divinatori, quale “apportatore di bei sogni”. Non vi è dubbio che per averlo preferito vi fu una specifica motivazione; non è improbabile che si volesse dare il messaggio che l'infuso di alloro avrebbe facilitato la digestione dei cibi abbondantemente aromatizzati. Venivano offerte saporite pietanze, a base di interiora, condite con pepe: quarume “trippa” (stomaco di bovini), brodo di carcagnola (polpa delle gambe di animali), sangunazzu (sangue), zirenu (intestino grasso), stigghiola (budella di capretto, agnello e castrato, attorcigliate all'omento, parte peritoneale, e alla cipolla); inoltre, ceci, fave, fagioli, uova sode, olive, lumachine, polpette, broccoletti. Le interiora si acquistavano al mattatoio, situato in periferia, nei giorni della settimana in cui si praticava la macellazione dei bovini. Aggiungo una nota di costume. Sino all’inizio degli anni quaranta del secolo scorso, la credenza popolare attribuiva effetti curativi al sangue bovino. Per questo motivo, persone affette da anemia lo bevevano nell’istante in cui sgorgava dall’animale. Le ‘ncantine si sviluppavano a pianoterra, in un ampio vano o in più vani piccoli, con cucina o “angolo cottura”. Nella stanza di accesso erano collocate delle botti, il bancone per la vendita e tavoli con relative panche, che occupavano coloro che chiedevano soltanto da bere; in questo caso, al vino si accompagnavano noci e mandorle. Quelli che compravano il prodotto cotto da mangiare a casa, per il trasporto utilizzavano appositi contenitori di alluminio: porta-mangiare o porta-pranzu. Gli altri ambienti contenevano lunghi tavoli dove gli avventori banchettavano. Il vino e il passito si somministravano a tutte le ore, le vivande dal pomeriggio e sino alle ventitré. Erano frequentate dagli zolfatai, e non da tutti, e in numero esiguo da altri lavoratori, essendo ritenuto un luogo scadente e gli avventori considerati di temperamento instabile e facilmente irascibili. Un giudizio errato, constatato che la maggior parte di loro dimostrava sensibilità e carattere tranquillo; le penose condizioni di lavoro li esacerbavano, facendoli inveire contro il Cielo e contro gli uomini. Il minatore, dopo avere trascorso molte ore nelle buie gallerie del sottosuolo e respirato aria esautorata di umidità e di pulviscolo, dopo avere disidratato il corpo con l’emissione di sudore (in passato si nutriva anche di carrube), a motivo del faticoso lavoro e della elevata temperatura che raggiungeva i 40 gradi, sentiva l'esigenza di rifocillarsi e, soprattutto, di non pensare. Si intratteneva, quindi, nella ’ncantina per dimenticare la propria esistenza, frustrata sino nel profondo dei sentimenti. Consumava alimenti poveri, come ceci, fagioli e fave che, però, garantivano un certo apporto di proteine in sostituzione di quelle della carne, e una varietà di cibi dal sapore piccante che, inevitabilmente, richiamavano vino. Il rosso vino delle ubertose contrade lercaresi, coltivate a vigneti sin dal sorgere del paese, che dispensava euforia,vigore fisico ed una sensazione di potenza. Dava sfogo alla sua tristezza cantando e ripetendo versi attinenti la vita lavorativa. Una illusoria ed effimera parentesi di oblio e di grandezza.
Così iniziava una filastrocca: Tènnira trippicedda -favuzzi cotti - vinuzzu duci - .. . (Tenera trippa - fave cotte - vino dolce)
Con amarezza. Poviru surfararu sbinturatu comu nun mangia cchiù carni arrustuta. (Povero zoltafaio sfortunato che non mangia più carne arrostita). Lu celu mi ittà e la terra m’apparà. (il cielo mi buttò e la terra mi accolse). Si dumani nun mi presenta a travagghiari puru si sugnu stancu e scatraciatu ci voli lu bigghiettu du dutturi. (Se
domani non mi presento a lavorare anche se sono stanco e stravolto occorre il certificato del dottore).
Poi, imprecava contro il capomastro Arrivannu dda sutta lu fussuni/ mi mettu a carriari/ e si nun fazzu dudici vauna lu capumatru nun mi f'acchianari. (Giunto là sotto nel fossato (galleria) / inizio a lavorare e se non riempio dodici vagoni / il capomastro non mi fa risalire).
A volte esprimeva risentimento verso il compagno di lavoro Mi partu la matina di bon' ura cchiù di mezz’ura pi scinniri la scala, pigghiu lu vauni e cuminciu a caminari . . . Ma, a lu nummaru cincu scarrozzu e nun pozzu passari, picchì... (pronunciava il nome del compagno) nun lu voli aggiustari. (Parto la mattina di buon’ora, impiegando più di mezz’ora per scendere la scala, ma, giunto al numero cinque, slitto (il vagone slitta) e non posso transitare perché (il mio compagno...) non eff ettua la riparazione). Per comprendere il suo stato d’animo è bastevole conoscere lo svolgimento di un incontro con un minatore. Nel 1989 raccoglievo testimonianze da includere in un mio libro su Lercara, attraverso la memoria popolare, e, a tale scopo mi recai alla locale sezione dei “Combattenti e Reduci” per intervistare un vecchio zolfataio. Alla
mia domanda si irrigidì e si pose in posizione di difesa; mi guardò
negli occhi e muovendo il braccio destro dall'alto in basso, con il
pollice che toccava con forza l’indice, puntualizzò: “Non posso
dirle nulla della vita nelle miniere di zolfo perché io non voglio
ricordare... e se ricordo, impazzisco ”. Seguì un lungo silenzio
molto eloquente, interrotto solamente dal mio “Mi scusi... la
saluto”. A volte, i componenti della comitiva, che si intrattenevano nella ‘ncantìna, si deridevano reciprocamente e ordivano scherzi ai danni del compagno. Uno degli scherzi prevedeva che tutti gli avventori seduti uno accanto all’ altro, tranne colui della parte estrema, si alzassero improvvisa-mente, cosicché questultimo, ignaro dell’intenzione dei compagni, precipitava pesantemente a terra, proiettando il vino in ogni parte qualora avesse avuto il bicchiere in mano. Di solito, gli effetti della furbata sfumavano fra risate, pacche sulla spalla e frasi concilianti, ma potevano seguire scomposte discussioni e zuffe che assumevano una certa gravità se il malcapitato accusava danni fisici. Poiché i fumi dell’alcool provocavano forti ubriacature, che sfociavano in imprecazioni e in atti inconsulti, il gestore, assillato dalle continue pretese e a nulla essendo valsi i suoi rifiuti, per ridurre le implicazioni “allungava” il vino con acqua, sperando che il raggiro non venisse percepito. Se il cliente non aveva denaro, il gestore esigeva che la domenica successiva, giorno di paga, saldasse il debito. Frattanto, lo zolfataio sprecava denaro e le pulsioni di Bacco potevano dare luogo a gesti di intolleranza in famiglia. Sostanzialmente, un misterioso meccanismo psicologico si impadroniva della sua volontà; forse il subcosciente lo stimolava ad affermare la sua autorità e dimostrare a sé stesso e agli altri di essere qualcuno. Questo fenomeno, fortunatamente molto contenuto, determinava nelle altre categorie di lavoratori la perdita di stima ed una palese avversione e, benché logisticamente i minatori vivessero in maggioranza nei quartieri di confine o vicino alle zolfare, persisteva un senso di idiosincrasia da parte della restante popolazione, la quale ne evitava il contatto. Questa repulsione, accentuata negli agricoltori, trovava pratica ed eclatante conferma quando uno zolfataio aspirava a fidanzarsi con la figlia di un agricoltore. Vi sono ricordi popolari ancora molto vivi. Uno dei segni per manifestare il “no” categorico al pretendente consisteva nella “chiusura in faccia” dello sportello della finestra, la cosiddetta “purtiddata”. Analogo trattamento riservava lo zolfataio-gerente alla figlia dell’agricoltore. Nondimeno, non era raro il caso che il contadino, il cui raccolto era andato in malora, vedendo preclusa la possibilità di risollevarsi, vendesse quanto posseduto e preferisse il salario della miniera. Si racconta che un giovane, volendo sposare la figlia di un facoltoso esercente di zolfare, ricevette il rifiuto da parte del padre, il quale desiderava che sposasse uno zolfataio. Ebbene, il giovane spasimante non ci pensò due volte e pur di coronare il sogno d’amore, abbandonò la campagna e si pose alle dipendenze del futuro suocero. Alla ‘ncantina si recavano operai comuni per un frugale pranzo dal costo abbastanza modesto. In un certo periodo fu luogo di ritrovo dei sensali, cioè, dei mediatori per la vendita di mobili e immobili. Assidui clienti erano i carritteri di passaggio, i quali alloggiavano nei fondaci, e alcuni residenti a Lercara, dove se ne contavano moltissimi, impegnati nel trasporto del minerale, poiché la scoperta dello zolfo, “come un nuovo Eldorado” aveva allettato questi lavoratori di ogni parte della Sicilia. Sino al 1912 lo trasportavano al porto marittimo di Termini Imerese; dopo quella data, essendo stata estesa la linea ferrata, alla stazione di Lercara Bassa. Una lunga fila di carretti che attraversava il paese seguendo il medesimo itinerario.
Mangiando e bevendo raccontavano le loro esperienze e, soprattutto, non cessavano di vantare la bravura e la forza del proprio cavallo, e stornellavano: A l'acchianata di Musulumeli si rumpi ‘u suttapanza e pitturale. (Alla salita di Misilmeri si rompe il sottopancia e il pettorale). E nun lu fazzu cchiù lu carritteri cà lu cavaddu non voli acchianari (E non svolgo più il mestiere di carrettiere perché il cavallo non vuole andare avanti). Caccia cavaddu, caccia e camina cà a Palermu accattu la capizza. (Cammina cavallo, vai avanti e cammina perché a Palermo ti compro la cavezza). N un cantu ne’ p’amuri, ne’ p’amante ma cantu sulu pi sfuarimi la menti. (Non canto per amore, né per amante ma canto per alleggerirmi la testa). Aiu ‘n carrettu ca pari ‘na navi aiu ‘n cavaddu ca pari un papuri. (Ho un carretto che sembra una nave ho un cavallo che pare un bastimento). Accorda ‘sta canzuna paisanu. Vidi chi vita fa lu carritteri ca cerca di rinnuvari lu misteri, cu cavaddu e carrettu / pi mettisi a travagliari. Lu cavaddu nun voli tirari e lu pezzu nun lu fa girari, pi lu surfaru macinari. Quannu iddu non voli tirari/ cu la carina l’è frustari cà lu pani amma scuttari/ siddu voli campari. (Accompagna questa canzone, paesano. (modo di dire) Vedi che vita conduce il carrettiere il quale vuole rinnovare il mestiere, con cavallo e carretto / per potere lavorare. Il cavallo non vuole camminare e non fa girare la mola per raffinare lo zolfo. Se lui non vuole andare avanti sono costretto a frustarlo con la catena perché dobbiamo guadagnare se lui vuole vivere).
Mi nni scinnu a la marina pi vidiri passari genti assà e vidiri passsari lu re mpirsuna ca di la figghia sò minnamuravu, la manu ci vasavu ca nda lu mari la truvavu. (Scende alla marina per vedere transitare molta gente e passare il Re in persona perché sono innamorato di sua figlia, le ho baciato la mano / avendola trovata nel mare).
Nel
momento in cui il pensiero volava alla loro “Bella”, ”attaccavano”
: vaiu cantannu canzuni d’amuri. (Quando transito di qua, passo cantando vado cantando canzoni d'amore). Rita bedda cadì malata p’amuri chiama prestu lu dutturi pi vinilla a visitari. . .. ma pi l'amuri nun c’è midicinali. (La bella Rita si è ammalata per amore chiama presto il dottore per venirla a visitare ....ma per l’amore non vi è una valida medicina).
In quel tempo le distanze richiedevano molto ore di cammino; basti pensare che da Lercara a Palermo ne occorrevano quindici e suoi compagni di viaggio erano il cavallo, la strada, la fantasia e il canto. In seguito allo sbarco delle Forze Armate degli Stati Uniti d’America, a Lercara stazionarono soldati e ufficiali, alcuni dei quali dichiararono di essere figli di emigrati italiani e provavano a parlare la nostra lingua. Oltre a ciò, lercaresi che avevano soggiornato in America invitavano i soldati ad entrare nelle case, offrendo una accoglienza calorosa che culminava con battimani, abbracci e baci, e con la tavola imbandita di uova, olive, formaggio, pane e l’immancabile vino. Nella circostanza scoprivano che alcuni nelle loro città avevano rapporti di amicizia con figli di lercaresi emigrati tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento, che casualmente risultavano parenti con famiglie residenti a Lercara. Tuttavia, alcuni militari, ai quali il vino ricevuto non era soddisfacente, lo integravano con quello della ‘ncantina. Mangiavano lautamente e ne tracannavano parecchio, parlavano ad alta voce e cantavano a squarciagola; cantavano...e non si decidevano ad andarsene. La loro presenza incuteva timore per il portamento autoritario, la corpulenza e i gesti imprevedibili. Una situazione difficile da governare e, in casi estremi, il titolare con discrezione li spingeva garbatamente fuori dal locale. Non si reggevano in piedi e avanzavano per la via oscillando sino a quando, stremati, si sdraiavano per terra, respirando affannosamente. E se vedevano una donna, le si avventavano addosso in modo sconnesso e pericoloso, perciò, i ragazzini che giocavano per strada segnalavano anticipatamente il loro arrivo. Un modo particolare di bere allegramente con gli amici si basava su un “gioco”, denominato “’u toccu”, (tocco, toccamento). Quattro o più persone decidevano di giocarsi un quarto di vino a testa per ciascun giro, e, preliminarmente, procedevano all’assegnazione della bottiglia, affidandola alla sorte. Di comune accordo la fase iniziale veniva demandata al più anziano o al più giovane. I partecipanti si disponevano a cerchio, alzavano di propria volontà uno o più dita e il conduttore, iniziando da sé, faceva cadere la sorte su chi terminava la conta (con un tocco), secondo il totale delle dita alzate. Il designato ne beveva un bicchiere prelevandolo dalla bottiglia e nominava un padrone, e un Sotto-padrone, i quali proseguivano la conduzione del gioco. Il Padrone teneva la bottiglia e gli altri i bicchieri vuoti, uno dei quali veniva invitato a bere. Accadeva che il Padrone, invitato dal Sotto a indicare la persona, lasciava tutti all’asciutto, dicendo al Sotto: “La mè è vostra”, cioè a dire, “o bevi tu (tutta la bottiglia), oppure la bevo io”. In questa evenienza, uno dei due beveva tutto il contenuto, tenendo il bicchiere in bocca e versando il vino in continuazione. Se il Sotto non si opponeva alla designazione, il prescelto beveva il vino che si versava lui stesso, oppure lo rifiutava, rimettendolo in gioco. Il Sotto, opponendosi, indicava altri partecipanti a bere. Colui che veniva chiamato dal Padrone e dal Sotto, doveva bere in unica soluzione il contenuto della bottiglia. Se non riusciva a tracannarlo, pagava il costo e subiva la derisione di tutti per la sua incapacità. Era frequente che il Padrone, invitata una prima e una seconda volta la medesima persona, ricevesse il dissenso del Sotto il quale preferiva un altro individuo. Quando ciò accadeva per la terza volta, il Sotto poteva lasciare a bocca asciutta - urmu - il designato e tutti gli altri - lassari urmi - purché bevesse la parte restante della bottiglia con le modalità su riportate. Questo modo di procedere del Sotto si chiamava “rottura ”, cioè, “interruzione del gioco”. A volte, alcuni della comitiva, presi accordi preventivamente, riuscivano a bere soltanto loro, oppure, a fare ubriacare uno degli esclusi. Quando si effettuava più di un giro di “tocco”, i componenti accusavano vistosamente gli effetti dell’alcool con conseguenze deleterie, prossime alla rissa. Onde evitare che nessuno pagasse il conto, “l'incantineri” pretendeva che venisse corrisposto da tutti i partecipanti e in parti uguali, prima d’iniziare il gioco.
Alcuni modi di preparare le pietanze. Brodo di carcagnola - Gamba di animale bollita con pepe, sale e limone. Ceci - In ammollo per 6-7 ore in acqua tiepida (calore del latte); si aggiungono un cucchiaio di bicarbonato e uno di sale; a fine cottura olio e pepe. Fave - A bagno per 12-14 ore. Si cuociono con giri (bietole), aglio e 2 bucce di limone. Fagioli - Si tengono in acqua per 6-7 ore, poi, si miscelano con giri, carote, sedano e un cucchiaino di bicarbonato. Cuocere nella medesima acqua. Condire con olio. Uova sode, con patate, sale, pepe e olio. Sostituivano la trippa. Olive, con sarde salate in olio, aceto e origano. Lumachine - Dopo Pammollo vengono lavate e cotte a fuoco lento sino alla bollitura, condite con olio, aglio, pepe, sale e prezzemolo. Lumache - Cottura a fuoco lento sino alla bollitura. A parte si prepara la salsa (concentrato di pomodoro in latta, più salsa fatta in casa), con olio, aglio, pepe, sale. Le lumache si immergono in questa salsa e si cuociono per un’ora. Polpette - Un chilo e mezzo di tritato di vitello di secondo taglio, grammi 300 di mollica, 250 gr. di formaggio pecorino, una testa di aglio, una cipolla spezzettata, sale, pepe, menta, uova (14 o 16). Realizzare delle palline con il composto e friggerle. Per ultimo, affondare le polpette nella salsa preparata come per le lumachine. Sangunazzu - Sangue di vitello, mezzo litro di acqua, spezie, aglio, sale, pepe. Si cuoce a fuoco lento. Infine, la poltiglia viene insaccata in budelli. Stigghiole - Arrostite o fritte. Trippa- Con spezie e sale.
Aneddoti La memoria popolare tramanda molti aneddoti; ne ho raccolti alcuni che riporto di seguito: Un venticinquenne, uscito dalla ‘ncantina di via Giuseppe Verdi, barcollando raggiunse i gradini di accesso della casa accanto. Tirato un profondo respiro, iniziò a parlare fissando lo sguardo a terra; gesticolava con la mano destra, il cui indice formava variegati disegni in una continuità di movimenti. Il giovane, con voce sommessa e convincente, direi affabile, colloquiava con qualcuno in modo sconclusionato e incomprensibile. Ad un certo punto aumentò il ritmo e il tono e con espressione indignata alzò di scatto le braccia al cielo... e, abbassandole, si strinse la testa fra le mani, vistosamente reclinata... e tacque. * * * * * * * * * * * * * * * Un uomo, G. P., percorreva in salita il corso Giulio Sartorio al centro alla strada, stringendo un’anguria con il braccio sinistro; piegava le gambe e si muoveva a dritta e a manca, avanti e indietro, per mantenere l’equilibro. Nel contempo, parlava con l’ anguria e il colloquio, dapprima pacato, divenne incalzante tanto da fargli puntare ripetutamente l’indice della mano destra. Appariva evidente la sua collera per la mancata risposta alle sue argomentazioni. Non sopportando più l'affronto, alzò la voce e con espressione di rabbia scaraventò energicamente l'anguria a terra, frantumandola. Poi, volendola punire ulteriormente, con movimenti scomposti e imprecando, schiacciò con i piedi i vari pezzi, rendendoli tanto liquidi da provocargli la caduta a gambe per aria, facendogli percorrere qualche metro. Fermatosi, rimase a testa bassa e a braccia penzoloni. * * * * * * * * * * * * * * * Due compari, dopo avere mangiato e bevuto, si alzarono per rientrare a casa. Uno di loro barcollò e l’altro gli disse: “Ti sostengo io, tu sei ubriaco”. Fecero qualche passo, e, oscillando, furono sul punto di stramazzare a terra se non si i fossero aggrappati ad un tavolo e a una sedia. Allora,
il primo, biascicando rispose “Tu vuoi aiutare me? non lo capisci
che non sei capace di stare in piedi! Vieni , appoggiati a me”. * * * * * * * * * * * * * * * Nel
tardo pomeriggio uno zolfataio leggermente ubriaco, camminava andando
avanti e indietro. Nel modo di guardarsi attorno sembrava che non
volesse fare intendere ai passanti di non essere sobrio e si
adoperava di mostrarlo muovendosi soltanto in assenza di persone e
aggrappandosi velocemente a qualsiasi sostegno: lo stipite di un
ingresso, la ringhiera che costeggia il lato superiore del corso
principale, un'autovettura. * * * * * * * * * * * * * * * Siamo
in periodo pre-bellico, in via Sant’Alfonso, nel mese di agosto,
all’imbrunire. Tre uomini un po’ brilli camminavano muovendosi
sinuosamente e nel contempo si schernivano. Dalle parole lecite
degenerarono sino alle ingiurie; infine, uno di loro estrasse un
coltello dalla tasca. *
* * * * * * * * * * * * * *
Primi anni Quaranta. A
tarda sera un ubriaco, “fradicio”, percorreva via Vespri - intesa
“Malampo” - cercando di guadagnare qualche metro per rientrare a
casa. Si appoggiava al muro delle case per una breve sosta e
ripartiva velocemente sperando di riappoggiarsi. *
* * * * * * * * * * * * * *
Nei
decenni scorsi nevicava tanto da formare uno spessore di cinquanta
centimetri e oltre di neve. In un pomeriggio di febbraio uno
zolfataio si soffermò nella ‘ncantina per alcune ore e quando
decise di rientrare a casa, vuoi per il crepuscolo incipiente, vuoi
per le dense nuvole che oscuravano il cielo, le strade si
presentavano pressoché deserte. 1969: chiusura delle miniere Anche
questi locali chiusero i battenti. Ne rimase un modico numero che
assunsero una diversa visibilità, nel senso che chiunque vi accedeva
e comitive vi trascorrevano la serata per gustare, festosamente,
prodotti genuini; poi, ne rimasero soltanto due: una gestita da
Carmela Pellitteri in via Sant’Anna n. 56, l’altra da Francesco
Lo Bue in via Alfonso Giordano, n. 50.
Relativamente alla prima, la signora Carmela Pellitteri riferisce: “Nel
1963 io e mio marito Vincenzo rilevammo la licenza intestata a
Domenica Vicari, sposata Pietro Sferlazza, dando continuità all
’esercizio ubicato in via Regina Margherita. Nel 1966 trasferimmo
l'attività nella via Sant'Anna, n. 56, nei locali già utilizzati a
‘ncantina da Gioacchino Romano. Desidero storicizzare due avvenimenti che si sono svolti in questo locale. Con l’arrivo dei mezzi di trasporto a motore, i carrettieri si trasformarono in autotrasportatori, ma in loro rimase lo “spirito” del mestiere svolto per decenni. E proprio la nostalgia, nel novembre 1987, stimolò Giovanni Di Liberto di Francesco a radunare un gruppo di carrettieri del territorio. Un incontro caloroso e commovente, condito con ricordi, esperienze e imprese conseguite, nutrito con vari piatti e ammorbidito con il vino. E tra un bicchiere e l’altro, intonarono le più belle stornellate, arricchite dalle peculiari variazioni di ciascun paese, che segnarono l’apoteosi dei Canti di questa categoria. Caratteristica la posizione che assumeva il cantore di turno: la mano destra sulla guancia vicino alla bocca e la testa reclinata. In questo modo rievocarono il lavoro, il cavallo, la propria esistenza, la donna del cuore. Gli stornelli, ormai standardizzati, negli incontri venivano improvvisati. I partecipanti intervenivano in sequenza e a turno rispondevano al compagno che li precedeva continuando a trattare il tema impostato dal primo cantore. Di questo “storico” raduno rimane una fotografia e una musicassetta, che può ritenersi un reperto antropologico in quanto esprime i sentimenti più segreti dell’uomo, dell’uomo che ama il lavoro, che lotta per vivere, che è felice con poco, che subisce i patimenti della natura umana. Si tratta di cantilene che riportano ad un mondo ancestrale, un frammisto di preghiera e di lamento; l’invocazione di chi vive in solitudine in un microscopico pianeta, avvolto da uno spazio siderale, che sgorga potente dalla viscere e pur se espressa con un fil di voce si innalza sino a congiungersi al Creatore.
L'altro, molto significativo, si verificò il 10 agosto 2004,giorno nel quale l’Amministrazione comunale organizzò un convegno per ricordare la radiosa figura dello scienziato Alfonso Giordano, il “padre” degli zolfatai, il quale scoprì in loro e curò una letale malattia, istituì degli organismi di assistenza, determinò la formulazione della legge per la tuteladei ragazzi (carusi) e delle donne. Al termine del convegno, un ristretto numero di amministratori, oratori, il nipote Alfonso Giordano, magistrato, vari pronipoti, convenuti da ogni parte d’ltalia, e il direttore del Giornale di Sicilia di Palermo, dottor Antonio Ardizzone con la Consorte, vi cenammo seduti a due lunghi tavoli. In quella gioiosa atmosfera, carica di cultura e di commozione, aleggiò certamente “il grande spirito” del Giordano e per poche ore quell'ex ‘ncantina odorò di zolfo. Per la seconda, Francesco (detto Franco) Lo Bue, racconta: “Sono
nato nel 1940 e, terminata la frequenza scolastica, all’età di 14
anni iniziai a lavorare, come “collaboratore ” nella ‘ncantina
di mia zia Concetta Lo Bue, situata da vent’anni nella via Abramo
Lincoln in un grande vano terrano che dal lato opposto si affacciava
sulla via Arciprete Gaspare Giglio. Considerazione finale Delle
‘ncantine rimane solamente vivo ricordo negli anziani che hanno
conosciuto questo “mondo”, e tramandano fatti e circostanze
divertenti, legati alla natura dell’ambiente; un ambiente amato
dagli zolfatai, prima, successivamente frequentato da tutti, e, sul
finire, ricercato, benché da parecchio tempo non presentasse più
il suo “biglietto da visita”: la fronda di alloro e la lampada. Rimangono eccellenti testimonianze. Sicuramente vi si sono fermati viaggiatori in transito e tra questi l'inglese Jessie White, giornalista e scrittrice, vedova del garibaldino Mario, che negli anni 1890-91 visitò la Sicilia. Giunse alla stazione di Lercara Bassa da dove, con la carrozza, “la posta”, salì al paese. Scrive “Si fece colazione all'osteria del luogo, con formaggio indigeno, assai migliore del cosiddetto svizzero, mele, vino leggiero e saporito, ma torbido come lo è in generale il vino originario della Sicilia” E
Carlo Levi, venuto a Lercara nel 1951, durante uno sciopero degli
zolfatai, annota: “Ci eravamo fermati, per caso, proprio davanti
all ’unica osteria, un ’osteria senza insegna e, a quell’ora,
senza avventori. Non c’era, del resto, nulla da mangiare, se non
del formaggio e delle uova”.
Il carrettiere Mi sembra doveroso parlare di questa categoria di lavoratori, ormai scomparsa, dal passato glorioso, che vive soltanto nei ricordi degli anziani. Il carretto è stato un valido mezzo di trasporto e possedere un cavallo ed un carretto era segno di autonomia lavorativa e di buona condizione socio- economica. Per esercitare il mestiere occorreva munirsi del libretto di circolazione rilasciato dal Comune che prevedeva le caratteristiche del carretto al quale veniva assegnata una targa di identificazione. Il suo utilizzo si sviluppò a cominciare dalla metà dell’Ottocento e subito assunse un carattere folkloristico, essendo invalso l’uso di dipingere tutte le sue parti, dagli artistici bassorilievi alle sponde. Suggestive le scene delle fiancate in cui sono raffigurati episodi dei “Paladini di Francia”, dei Vespri Siciliani, di Giuseppe Garibaldi, della Cavalleria Rusticana e immagini della Vergine e di Santi. Sgargianti le decorazioni pittoriche predominanti il rosso, il verde e l’azzurro - e i colori dei finimenti del cavallo: pennacchi, piume, pettorali, lustrini, sonagli, guarnizioni di borchie, lustrini, fiocchetti, specchietti, pettorali e sottopancia di lana e seta. Una “casa ambulante” in miniatura, il carretto. Infatti, sotto il pianale di carico, dove veniva sistemata la merce, pendeva una rete di corda - detta rituni - che accoglieva il fiasco di acqua, la colazione, oggetti personali, attrezzi per la manutenzione, stivali di cuoio, crusca ed altro; ad un apposito gancio si ancorava la coffa, contenitore di foglie di palma selvatica, per la conservazione della biada, e ad un altro la lanterna a petrolio, dondolante a seconda dell’andatura, la cui fiamma illuminava la strada e segnalava la presenza alle autovetture; furono installati persino dei catari-frangenti. Un telone copriva la merce, un mantella cerata preservava il conducente dalle intemperie. A seconda della consistenza del fondo stradale, agli zoccoli del cavallo venivano applicati ferri con chiodi oppure delle scarpe di gomma alla gamba anteriore e a quella posteriore diametralmente opposta. Il passo era costante nella zone pianeggianti e lento nell' affrontare la salita; per contenere la discesa si immobilizzavano le ruote con robuste corde. Fra l’altro, a seconda della pendenza, il carico veniva spostato in avanti o nella parte posteriore. Problematiche le pozzanghere del fondo stradale che affossavano le ruote. Un fatica immane per il cavallo e per il conducente. La tipologia del lavoro portava il carrettiere a percorrere le vie della Sicilia, solitarie e talvolta sinistre, sotto il torrido sole e le avversità atmosferiche. Essendo costantemente esposto all’azione dei ladri, quando possibile viaggiava in comitiva e per evitare di essere derubato del denaro incassato trasferiva la somma a mezzo Ufficio Postale. In vista della notte raggiungeva il più vicino paese per trovare rifugio nel Fondaco e mettersi in sicurezza con il cavallo e il carretto; tuttavia, nel fondaco si verificavano furti, per cui non si toglieva le scarpe e per cuscino utilizzava la sacca contenente la crusca. E poiché non tutti i gestori dei fondaci preparavano da mangiare, spesso consegnava della pasta da cuocere, oppure si recava nelle bettole; nei centri minerari “ ‘ncantina’. Sorse, così, il modo di cuocere la pasta, “a la carrittera”: con aglio, olio, pomodoro, basilico e sale. Chi poteva permetterselo conduceva con sé un giovane aiutante e altro cavallo, detto “balancino”, che sosteneva il cavallo a superare le asperità della strada e, guidato dal giovane raggiungeva in anticipo il paese più prossimo per accaparrarsi il posto al fondaco. Quando richiesto, intervenivano dei carrettieri della zona a sostenere il collega in difficoltà; ovviamente, dietro compenso. Non viaggiava mai privo di merce. Per esempio: se all’andata raggiungeva Alcamo o Partinico portandovi zolfo, grano, formaggio o fieno, al ritorno caricava vino per integrare quello prodotto a Lercara. Durante questi lunghi tragitti alleggeriva la pesantezza della monotonia e la solitudine improvvisando stornelli incentrati sul proprio lavoro o sulla propria ragazza. A Lercara carretti se ne contavano moltissimi, impegnati nel trasporto dello zolfo fuso, e del frumento e della farina del mulino Bongiovanni, situato in fondo alla via Mulino. Transitavano per le vie uno dietro l’altro come in processione. Terminata la giornata di lavoro, il carrettiere si recava all' abbeveratoio o alle fontane per rinfrescare le gambe del cavallo e il carretto con gettiti d’ acqua prelevata con una bacinella di rame, detta “scutiddaru” e inumidiva il fieno destinato al cavallo. Ritornato a casa “spaiava”, cioè, staccava il cavallo dal carretto e provvedeva ad ancorarlo accostandolo al muro della propria abitazione, con le aste alzate e, se necessario, bloccando le ruote con grosse pietre. La presenza di tanti carretti diede vita a nuove botteghe di artigiani: “carrozzieri” per la riparazione dei carretti, e “sellai” per la confezione dei finimenti e delle bardature, collaborati da giovani apprendisti. La possibilità di ingenti incassi, indusse persone facoltose a fornire il carretto a chi non riusciva ad acquistarlo e ad approntare il cavallo “al guadagno”, cioè, con la compartecipazione all’utile. Accanto a questa “industria”, sorsero cooperative di carrettieri che si aggiudicavano delle grosse commesse, e “imprese” individuali; una di queste la gestivano i coniugi Giuseppe Tinnirello e Giovanna Di Salvo i quali disponevano di circa dieci carretti che affidavano a giovani, assegnando loro le destinazioni e la merce da trasportare e commerciare. In cambio ricevevano il salario di una giornata. Questo modo di operare era facilitato dal fatto di disporre di un ampio complesso abitativo che consentiva il ricovero dei carretti, l’alloggio degli animali, la conservazione della biada e la fornitura dell’acqua e del vino. Il tutto supportato da un contabile. Il carretto divenne obsoleto quando si divulgarono i mezzi di trasporto merci a motore a tre ruote (Ape e Moto-Ape) e a quattro ruote, per cui il carrettiere si trasformò in autista e trasferì nel nuovo mezzo il fascino della coloritura e alcuni finimenti. Ai nostri giorni il carretto fa parte di sfilate folkloristiche nelle feste patronali e si presenta sempre più coreografico; i colori vivaci e l'originalità delle raffigurazioni continuano ad interessare precipuamente le nuove generazioni.
Desidero concludere questo escursus, riportando una calorosa testimonianza di Carmela Di Liberto, figlia di Giuseppe, carrettiere. “Mio padre era Giuseppe Di Liberto, conosciuto come “Peppe Ricotta ”, il quale con questo lavoro è riuscito a mantenere la numerosa famiglia, composta dalla moglie e da nove figli. Un lavoro pesante e molto pericoloso essendo esposto al sole, alla pioggia e ai malintenzionati. Ci raccontava che per raggiungere Castellammare o Menfi impiegava parecchi giorni. Qui, vendeva zolfo e generi alimentari (cereali, olive, mandorle). Andava a dormire nei Fondaci e di solito mangiava pasta condita con aglio, olio e sarde salate, mentre il cavallo veniva alimentato con crusca, avena o paglia; il suo letto era costituito da un sacco di paglia. Alloggiare nei fondaci, anziché per strada, dava sicurezza, perché con la fame che allora imperava, vi era il pericolo di essere derubato e la probabilità di ritornare a casa a piedi e senza denaro. Mio padre “adorava ” il suo carretto e il suo cavallo e ne era orgoglioso. A quei tempi, possedere un cavallo di buona razza ed un carretto significava stare bene economicamente. Purtroppo questo tipo di lavoro costringeva mio padre a stare poco tempo con la famiglia, ma doveva lavorare tanto per mantenerla. Successivamente ha sostituito il carretto con una “Moto Ape a tre ruote”, che per noi piccoli è stata una festa e una gioia immensa, come se avesse comprato un Tir. Comunque, continuò ad avere sempre la passione per il cavallo, infatti, commerciava asinelli di razza e a volte li cedeva in affitto a venditori ambulanti di frutta e pesce. Questa sua passione e dedizione l’ ha trasmesso in famiglia, tant’è che ancora oggi conserviamo gelosamente il suo carretto, considerandolo qualcosa di prezioso perché ci ricorda il passato e non vogliamo fare sparire la memoria. Mio padre è stato un grande lavoratore, ci ha insegnato a lavorare facendoci capire che il lavoro dà dignità all’ uomo e noi figli, seguendo il suo insegnamento, ci dedichiamo al commercio e trasmettiamo ai nostri figli la passione per il carretto e per i cavalli”.
Versi
di Felice Dolcimascolo dedicati alle trattorie
risorte laddove erano le vecchie 'ncantine e il cui menu,
pur
memore delle frugalità tipiche di un tempo, si arricchisce di nuove
voci adatte alla contemporaneità:
Saluti
a tutti
a cu è assittatu, e a cu è a l'additta saluti a tutti... di Totò Cacaladditta. Stigghiola e quarumi putiti truvari manciari carni e pisci di mari li grossi crastuna e l'attuppateddi. La trippa è bianca o cunzata cu 'u sucu la centupeddi stricata cu 'u Sali attaccatu a la carni c'è l'ossubbucu e manciannu dù sardi vi sintiti a mari. Costi d'agneddu fatti arrustuti pi ccu ci piaci aju li favi vugghiuti, lu sangunazzu fazzu vugghenti l'arricriari all'amici e parenti. Li mulinciani ni pozzu parrari a' parmigiana li sacciu cunzari sucu di casa cu agghia cunzata e cu 'a ricotta salata po' cummigghiata Cu rispettu li sarbietti di pezza vi portu pi stujarivi 'u sivu du pedi du porcu, cu trasi nni mia cu pedi cuntenti un nnesci di cà cu 'i panzi vacanti. Un sarbu nenti du manciari d'aeri chistu vù giura Totò Pillitteri si restano cosi Totò po' li etta picchì si mancia friscu a “LaTavernetta”. Cunzati cu 'a menta aju li purpetti e picurinu quantu cinnè, cu mancia 'na vota nni Cacaladditta chistu vi giuro... ci torna arrè. Nzalati virdi e cu la cipudda accussì virdi ca pari sudda accia e finocchi pi sgrasciu cà c'è vinu bbonu e passitu a tinchitè. Sambuca e Marsala l'arriala la ditta di Salvatore Cacaladditta. |
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Edizione RodAlia - 29/11/2012 |
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