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retaggio delle genti.com. divulgazione culturale su particolari aspetti di località e di vissuta umanità.
 
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LA 'NCANTINA CHE ODORAVA DI ZOLFO
 
parte prima di "a 'ncantina"


immagine allegata

Introduzione

Alcuni ripetono, con convinzione, che rievocare il passato sia una manifestazione nostalgica per un vissuto che non può ritornare; si, non può, anzi non deve. Però, rievocando, non si auspica il ripetersi di ciò che è stato, ma di prendere coscienza di un segmento temporale che ha inciso sulla psiche degli uomini che c’erano e sull’ordinamento della società; infatti, il loro modo di vivere e di operare fu condizionato ed orientato da quella esperienza, contribuendo a confezionare una nuova e diversa mentalità individuale e collettiva.

Noi, quindi, siamo soggetti derivati e conseguenti, e le nostre modificazioni, a sua volta, determinano la formazione della futura coscienza e la base per il successivo sviluppo. Pertanto, conoscere il vivere di ieri è imprescindibile in quanto ci induce a dirigere le nostre azioni e ad agire in seno alla “cosa pubblica” in senso migliorativo.

Da tale riflessione discende la ineludibile conclusione che volere costruire il domani ignorando quanto accaduto, equivale a costruire un edificio senza avere prima gettato le fondamenta.

Per rafforzare il concetto, che sembra essere opinione diffusa fra gli uomini di buonsenso, desidero illustrare una similitudine che appartiene alla contemporaneità.

Ci siamo dimenticati o non vogliamo accettare che il lavoratore della terra ha assicurato la sopravvivenza all’Umanità e che l'artigiano con la sua creatività ha inventato arnesi su cui è stata strutturata la tecnologia.

Questa mancanza di memoria ha causato l'abbandono delle campagne, con relativo dissesto geologico, e disastrose tensioni sociali, sino ad ora non arginate, tanto da compromettere il rifornimento degli alimenti di sostentamento e da causare il depauperamento degli addetti e l'estinzione di attività artistiche. Per contro, si è incrementata una pletora di aspiranti ad un lavoro semplice, leggero o assente, e ad una remunerazione a volte inversamente proporzionale ai risultati conseguiti.

Se, invece, si fosse meditato e modificato, in armonia con l'evoluzione dei tempi, la concezione e la struttura del sistema, si sarebbe data dignità a ta1i tipologie dì lavoro e garantita l' operosità dei lavoratori; inoltre, si sarebbe intuito di riconoscere, questi, meritevoli di attenzione e di considerazione, nel senso dì rapportarsi con loro come con le altre “categorie di lavoratori”, reputate rispettabili.

Del duro lavoro manuale era necessario valorizzare la laboriosità, l' ingegnosità e le capacità fisiche e intellettive degli operatori.

Rinnegare è un atteggiamento esecrabile verso i nostri antenati i qua1i esercitando tali umili mestieri ci hanno preparato l'agiatezza del presente. Una miopia va1utativa, la nostra, che crea contrasti, lutti, rabbia, dolore, pazzia, la cui mancata soluzione potrà essere fatale per tutti.

E la 'ncantina, che per centoott'anni è stata parte integrante della vita lercarese ed ha coabitato con il complicato mondo delle miniere di zolfo, ha assunto una connotazione
antropologica che è doveroso consegnare alle generazioni a venire.

Una nuova attività commerciale “A 'ncantina

Nei centri della Sicilia in cui furono scoperti giacimenti di zolfo sorsero dei locali aperti al pubblico, aventi una propria tipicità, frequentati principalmente dai lavoratori delle miniere. Si trattava delle cosiddette “'ncantine”, assimilabili all'osteria, e alle “Putii di vinu”.

Il temine 'ncantina è mutuato da “cantina”, vano di conservazione delle botte di vino; nella fattispecie, è associato al commercio e, per estensione, alla consumazione di alimenti che, a motivo dell'aggiunta di taluni ingredienti, sollecitavano la richiesta di vino.

Non esponevano alcuna insegna scritta, essendo riconoscibili da due simboli: un tamo di alloro ed una lampada, posizionati sopra la porta d'ingresso. La lampada - in passato lantema ad olio - rappresentava un elemento di attrazione, dell'alloro non è stata tramandata la didascalia. Il suo significato simbolico è “gloria, vittoria”, che non sembra avere riscontro né con il vino, né con le pietanze, mentre trovo appropriato il riferimento al suo uso nei riti propiziatori e divinatori, quale “apportatore di bei sogni”.

Non vi è dubbio che per averlo preferito vi fu una specifica motivazione; non è improbabile che si volesse dare il messaggio che l'infuso di alloro avrebbe facilitato la digestione dei cibi abbondantemente aromatizzati.

Venivano offerte saporite pietanze, a base di interiora, condite con pepe: quarume “trippa” (stomaco di bovini), brodo di carcagnola (polpa delle gambe di animali), sangunazzu (sangue), zirenu (intestino grasso), stigghiola (budella di capretto, agnello e castrato, attorcigliate all'omento, parte peritoneale, e alla cipolla); inoltre, ceci, fave, fagioli, uova sode, olive, lumachine, polpette, broccoletti.

Le interiora si acquistavano al mattatoio, situato in periferia, nei giorni della settimana in cui si praticava la macellazione dei bovini.

Aggiungo una nota di costume. Sino all’inizio degli anni quaranta del secolo scorso, la credenza popolare attribuiva effetti curativi al sangue bovino. Per questo motivo, persone affette da anemia lo bevevano nell’istante in cui sgorgava dall’animale.

Le ‘ncantine si sviluppavano a pianoterra, in un ampio vano o in più vani piccoli, con cucina o “angolo cottura”.

Nella stanza di accesso erano collocate delle botti, il bancone per la vendita e tavoli con relative panche, che occupavano coloro che chiedevano soltanto da bere; in questo caso, al vino si accompagnavano noci e mandorle. Quelli che compravano il prodotto cotto da mangiare a casa, per il trasporto utilizzavano appositi contenitori di alluminio: porta-mangiare o porta-pranzu.

Gli altri ambienti contenevano lunghi tavoli dove gli avventori banchettavano. Il vino e il passito si somministravano a tutte le ore, le vivande dal pomeriggio e sino alle ventitré.

Erano frequentate dagli zolfatai, e non da tutti, e in numero esiguo da altri lavoratori, essendo ritenuto un luogo scadente e gli avventori considerati di temperamento instabile e facilmente irascibili.

Un giudizio errato, constatato che la maggior parte di loro dimostrava sensibilità e carattere tranquillo; le penose condizioni di lavoro li esacerbavano, facendoli inveire contro il Cielo e contro gli uomini.

Il minatore, dopo avere trascorso molte ore nelle buie gallerie del sottosuolo e respirato aria esautorata di umidità e di pulviscolo, dopo avere disidratato il corpo con l’emissione di sudore (in passato si nutriva anche di carrube), a motivo del faticoso lavoro e della elevata temperatura che raggiungeva i 40 gradi, sentiva l'esigenza di rifocillarsi e, soprattutto, di non pensare.

Si intratteneva, quindi, nella ’ncantina per dimenticare la propria esistenza, frustrata sino nel profondo dei sentimenti. Consumava alimenti poveri, come ceci, fagioli e fave che, però, garantivano un certo apporto di proteine in sostituzione di quelle della carne, e una varietà di cibi dal sapore piccante che, inevitabilmente, richiamavano vino.

Il rosso vino delle ubertose contrade lercaresi, coltivate a vigneti sin dal sorgere del paese, che dispensava euforia,vigore fisico ed una sensazione di potenza.

Dava sfogo alla sua tristezza cantando e ripetendo versi attinenti la vita lavorativa. Una illusoria ed effimera parentesi di oblio e di grandezza.


Così iniziava una filastrocca:

Tènnira trippicedda -favuzzi cotti - vinuzzu duci - .. .

(Tenera trippa - fave cotte - vino dolce)


Con amarezza.

Poviru surfararu sbinturatu

comu nun mangia cchiù carni arrustuta.

(Povero zoltafaio sfortunato

che non mangia più carne arrostita).

Lu celu mi ittà e la terra m’apparà.

(il cielo mi buttò e la terra mi accolse).

Si dumani nun mi presenta a travagghiari

puru si sugnu stancu e scatraciatu

ci voli lu bigghiettu du dutturi.

(Se domani non mi presento a lavorare

anche se sono stanco e stravolto

occorre il certificato del dottore).


Poi, imprecava contro il capomastro

Arrivannu dda sutta lu fussuni/ mi mettu a carriari/

e si nun fazzu dudici vauna lu capumatru nun mi f'acchianari.

(Giunto là sotto nel fossato (galleria) / inizio a lavorare

e se non riempio dodici vagoni / il capomastro non mi fa risalire).


A volte esprimeva risentimento verso il compagno di lavoro

Mi partu la matina di bon' ura

cchiù di mezz’ura pi scinniri la scala,

pigghiu lu vauni e cuminciu a caminari . . .

Ma, a lu nummaru cincu scarrozzu

e nun pozzu passari, picchì...

(pronunciava il nome del compagno)

nun lu voli aggiustari.

(Parto la mattina di buon’ora,

impiegando più di mezz’ora per scendere la scala,

ma, giunto al numero cinque, slitto (il vagone slitta)

e non posso transitare perché (il mio compagno...)

non eff ettua la riparazione).

Per comprendere il suo stato d’animo è bastevole conoscere lo svolgimento di un incontro con un minatore. Nel 1989 raccoglievo testimonianze da includere in un mio libro su Lercara, attraverso la memoria popolare, e, a tale scopo mi recai alla locale sezione dei “Combattenti e Reduci” per intervistare un vecchio zolfataio.

Alla mia domanda si irrigidì e si pose in posizione di difesa; mi guardò negli occhi e muovendo il braccio destro dall'alto in basso, con il pollice che toccava con forza l’indice, puntualizzò: “Non posso dirle nulla della vita nelle miniere di zolfo perché io non voglio ricordare... e se ricordo, impazzisco ”. Seguì un lungo silenzio molto eloquente, interrotto solamente dal mio “Mi scusi... la saluto”.
Provai tenerezza e condivisione per quest'uomo il quale aveva dato un taglio netto al passato, tanto triste da non potersi nemmeno pensare.

A volte, i componenti della comitiva, che si intrattenevano nella ‘ncantìna, si deridevano reciprocamente e ordivano scherzi ai danni del compagno. Uno degli scherzi prevedeva che tutti gli avventori seduti uno accanto all’ altro, tranne colui della parte estrema, si alzassero improvvisa-mente, cosicché questultimo, ignaro dell’intenzione dei compagni, precipitava pesantemente a terra, proiettando il vino in ogni parte qualora avesse avuto il bicchiere in mano.

Di solito, gli effetti della furbata sfumavano fra risate, pacche sulla spalla e frasi concilianti, ma potevano seguire scomposte discussioni e zuffe che assumevano una certa gravità se il malcapitato accusava danni fisici.

Poiché i fumi dell’alcool provocavano forti ubriacature, che sfociavano in imprecazioni e in atti inconsulti, il gestore, assillato dalle continue pretese e a nulla essendo valsi i suoi rifiuti, per ridurre le implicazioni “allungava” il vino con acqua, sperando che il raggiro non venisse percepito.

Se il cliente non aveva denaro, il gestore esigeva che la domenica successiva, giorno di paga, saldasse il debito.

Frattanto, lo zolfataio sprecava denaro e le pulsioni di Bacco potevano dare luogo a gesti di intolleranza in famiglia. Sostanzialmente, un misterioso meccanismo psicologico si impadroniva della sua volontà; forse il subcosciente lo stimolava ad affermare la sua autorità e dimostrare a sé stesso e agli altri di essere qualcuno.

Questo fenomeno, fortunatamente molto contenuto, determinava nelle altre categorie di lavoratori la perdita di stima ed una palese avversione e, benché logisticamente i minatori vivessero in maggioranza nei quartieri di confine o vicino alle zolfare, persisteva un senso di idiosincrasia da parte della restante popolazione, la quale ne evitava il contatto.

Questa repulsione, accentuata negli agricoltori, trovava pratica ed eclatante conferma quando uno zolfataio aspirava a fidanzarsi con la figlia di un agricoltore.

Vi sono ricordi popolari ancora molto vivi.

Uno dei segni per manifestare il “no” categorico al pretendente consisteva nella “chiusura in faccia” dello sportello della finestra, la cosiddetta “purtiddata”. Analogo trattamento riservava lo zolfataio-gerente alla figlia dell’agricoltore. Nondimeno, non era raro il caso che il contadino, il cui raccolto era andato in malora, vedendo preclusa la possibilità di risollevarsi, vendesse quanto posseduto e preferisse il salario della miniera.

Si racconta che un giovane, volendo sposare la figlia di un facoltoso esercente di zolfare, ricevette il rifiuto da parte del padre, il quale desiderava che sposasse uno zolfataio.

Ebbene, il giovane spasimante non ci pensò due volte e pur di coronare il sogno d’amore, abbandonò la campagna e si pose alle dipendenze del futuro suocero.

Alla ‘ncantina si recavano operai comuni per un frugale pranzo dal costo abbastanza modesto. In un certo periodo fu luogo di ritrovo dei sensali, cioè, dei mediatori per la vendita di mobili e immobili.

Assidui clienti erano i carritteri di passaggio, i quali alloggiavano nei fondaci, e alcuni residenti a Lercara, dove se ne contavano moltissimi, impegnati nel trasporto del minerale, poiché la scoperta dello zolfo, “come un nuovo Eldorado” aveva allettato questi lavoratori di ogni parte della Sicilia.

Sino al 1912 lo trasportavano al porto marittimo di Termini Imerese; dopo quella data, essendo stata estesa la linea ferrata, alla stazione di Lercara Bassa. Una lunga fila di carretti che attraversava il paese seguendo il medesimo itinerario.


Mangiando e bevendo raccontavano le loro esperienze e, soprattutto, non cessavano di vantare la bravura e la forza del proprio cavallo, e stornellavano:

A l'acchianata di Musulumeli

si rumpi ‘u suttapanza e pitturale.

(Alla salita di Misilmeri

si rompe il sottopancia e il pettorale).

E nun lu fazzu cchiù lu carritteri

cà lu cavaddu non voli acchianari

(E non svolgo più il mestiere di carrettiere

perché il cavallo non vuole andare avanti).

Caccia cavaddu, caccia e camina

cà a Palermu accattu la capizza.

(Cammina cavallo, vai avanti e cammina

perché a Palermo ti compro la cavezza).

N un cantu ne’ p’amuri, ne’ p’amante

ma cantu sulu pi sfuarimi la menti.

(Non canto per amore, né per amante

ma canto per alleggerirmi la testa).

Aiu ‘n carrettu ca pari ‘na navi

aiu ‘n cavaddu ca pari un papuri.

(Ho un carretto che sembra una nave

ho un cavallo che pare un bastimento).

Accorda ‘sta canzuna paisanu.

Vidi chi vita fa lu carritteri

ca cerca di rinnuvari lu misteri,

cu cavaddu e carrettu / pi mettisi a travagliari.

Lu cavaddu nun voli tirari

e lu pezzu nun lu fa girari,

pi lu surfaru macinari.

Quannu iddu non voli tirari/ cu la carina l’è frustari

cà lu pani amma scuttari/ siddu voli campari.

(Accompagna questa canzone, paesano. (modo di dire)

Vedi che vita conduce il carrettiere

il quale vuole rinnovare il mestiere,

con cavallo e carretto / per potere lavorare.

Il cavallo non vuole camminare

e non fa girare la mola

per raffinare lo zolfo.

Se lui non vuole andare avanti

sono costretto a frustarlo con la catena

perché dobbiamo guadagnare

se lui vuole vivere).


Mi nni scinnu a la marina pi vidiri passari genti assà

e vidiri passsari lu re mpirsuna

ca di la figghia sò minnamuravu,

la manu ci vasavu ca nda lu mari la truvavu.

(Scende alla marina

per vedere transitare molta gente

e passare il Re in persona

perché sono innamorato di sua figlia,

le ho baciato la mano / avendola trovata nel mare).


Nel momento in cui il pensiero volava alla loro “Bella”, attaccavano” :
Quannu passa di cca, passu cantannu

vaiu cantannu canzuni d’amuri.

(Quando transito di qua, passo cantando

vado cantando canzoni d'amore).

Rita bedda cadì malata p’amuri

chiama prestu lu dutturi pi vinilla a visitari.

. .. ma pi l'amuri nun c’è midicinali.

(La bella Rita si è ammalata per amore

chiama presto il dottore per venirla a visitare

....ma per l’amore non vi è una valida medicina).


In quel tempo le distanze richiedevano molto ore di cammino; basti pensare che da Lercara a Palermo ne occorrevano quindici e suoi compagni di viaggio erano il cavallo, la strada, la fantasia e il canto.

In seguito allo sbarco delle Forze Armate degli Stati Uniti d’America, a Lercara stazionarono soldati e ufficiali, alcuni dei quali dichiararono di essere figli di emigrati italiani e provavano a parlare la nostra lingua. Oltre a ciò, lercaresi che avevano soggiornato in America invitavano i soldati ad entrare nelle case, offrendo una accoglienza calorosa che culminava con battimani, abbracci e baci, e con la tavola imbandita di uova, olive, formaggio, pane e l’immancabile vino.

Nella circostanza scoprivano che alcuni nelle loro città avevano rapporti di amicizia con figli di lercaresi emigrati tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento, che casualmente risultavano parenti con famiglie residenti a Lercara.

Tuttavia, alcuni militari, ai quali il vino ricevuto non era soddisfacente, lo integravano con quello della ‘ncantina.

Mangiavano lautamente e ne tracannavano parecchio, parlavano ad alta voce e cantavano a squarciagola; cantavano...e non si decidevano ad andarsene.

La loro presenza incuteva timore per il portamento autoritario, la corpulenza e i gesti imprevedibili. Una situazione difficile da governare e, in casi estremi, il titolare con discrezione li spingeva garbatamente fuori dal locale. Non si reggevano in piedi e avanzavano per la via oscillando sino a quando, stremati, si sdraiavano per terra, respirando affannosamente.

E se vedevano una donna, le si avventavano addosso in modo sconnesso e pericoloso, perciò, i ragazzini che giocavano per strada segnalavano anticipatamente il loro arrivo.

Un modo particolare di bere allegramente con gli amici si basava su un “gioco”, denominato “’u toccu”, (tocco, toccamento).

Quattro o più persone decidevano di giocarsi un quarto di vino a testa per ciascun giro, e, preliminarmente, procedevano all’assegnazione della bottiglia, affidandola alla sorte.

Di comune accordo la fase iniziale veniva demandata al più anziano o al più giovane.

I partecipanti si disponevano a cerchio, alzavano di propria volontà uno o più dita e il conduttore, iniziando da sé, faceva cadere la sorte su chi terminava la conta (con un tocco), secondo il totale delle dita alzate.

Il designato ne beveva un bicchiere prelevandolo dalla bottiglia e nominava un padrone, e un Sotto-padrone, i quali proseguivano la conduzione del gioco. Il Padrone teneva la bottiglia e gli altri i bicchieri vuoti, uno dei quali veniva invitato a bere.

Accadeva che il Padrone, invitato dal Sotto a indicare la persona, lasciava tutti all’asciutto, dicendo al Sotto: “La mè è vostra”, cioè a dire, “o bevi tu (tutta la bottiglia), oppure la bevo io”. In questa evenienza, uno dei due beveva tutto il contenuto, tenendo il bicchiere in bocca e versando il vino in continuazione.

Se il Sotto non si opponeva alla designazione, il prescelto beveva il vino che si versava lui stesso, oppure lo rifiutava, rimettendolo in gioco. Il Sotto, opponendosi, indicava altri partecipanti a bere. Colui che veniva chiamato dal Padrone e dal Sotto, doveva bere in unica soluzione il contenuto della bottiglia. Se non riusciva a tracannarlo, pagava il costo e subiva la derisione di tutti per la sua incapacità.

Era frequente che il Padrone, invitata una prima e una seconda volta la medesima persona, ricevesse il dissenso del Sotto il quale preferiva un altro individuo. Quando ciò accadeva per la terza volta, il Sotto poteva lasciare a bocca asciutta - urmu - il designato e tutti gli altri - lassari urmi - purché bevesse la parte restante della bottiglia con le modalità su riportate. Questo modo di procedere del Sotto si chiamava “rottura ”, cioè, “interruzione del gioco”.

A volte, alcuni della comitiva, presi accordi preventivamente, riuscivano a bere soltanto loro, oppure, a fare ubriacare uno degli esclusi.

Quando si effettuava più di un giro di “tocco”, i componenti accusavano vistosamente gli effetti dell’alcool con conseguenze deleterie, prossime alla rissa. Onde evitare che nessuno pagasse il conto, “l'incantineri” pretendeva che venisse corrisposto da tutti i partecipanti e in parti uguali, prima d’iniziare il gioco.


Alcuni modi di preparare le pietanze.

Brodo di carcagnola - Gamba di animale bollita con pepe, sale e limone.

Ceci - In ammollo per 6-7 ore in acqua tiepida (calore del latte); si aggiungono un cucchiaio di bicarbonato e uno di sale; a fine cottura olio e pepe.

Fave - A bagno per 12-14 ore. Si cuociono con giri (bietole), aglio e 2 bucce di limone.

Fagioli - Si tengono in acqua per 6-7 ore, poi, si miscelano con giri, carote, sedano e un cucchiaino di bicarbonato. Cuocere nella medesima acqua. Condire con olio.

Uova sode, con patate, sale, pepe e olio. Sostituivano la trippa.

Olive, con sarde salate in olio, aceto e origano.

Lumachine - Dopo Pammollo vengono lavate e cotte a fuoco lento sino alla bollitura, condite con olio, aglio, pepe, sale e prezzemolo.

Lumache - Cottura a fuoco lento sino alla bollitura. A parte si prepara la salsa (concentrato di pomodoro in latta, più salsa fatta in casa), con olio, aglio, pepe, sale. Le lumache si immergono in questa salsa e si cuociono per un’ora.

Polpette - Un chilo e mezzo di tritato di vitello di secondo taglio, grammi 300 di mollica, 250 gr. di formaggio pecorino, una testa di aglio, una cipolla spezzettata, sale, pepe, menta, uova (14 o 16). Realizzare delle palline con il composto e friggerle. Per ultimo, affondare le polpette nella salsa preparata come per le lumachine.

Sangunazzu - Sangue di vitello, mezzo litro di acqua, spezie, aglio, sale, pepe. Si cuoce a fuoco lento. Infine, la poltiglia viene insaccata in budelli.

Stigghiole - Arrostite o fritte.

Trippa- Con spezie e sale.



Aneddoti

La memoria popolare tramanda molti aneddoti; ne ho raccolti alcuni che riporto di seguito:

Un venticinquenne, uscito dalla ‘ncantina di via Giuseppe Verdi, barcollando raggiunse i gradini di accesso della casa accanto. Tirato un profondo respiro, iniziò a parlare fissando lo sguardo a terra; gesticolava con la mano destra, il cui indice formava variegati disegni in una continuità di movimenti.

Il giovane, con voce sommessa e convincente, direi affabile, colloquiava con qualcuno in modo sconclusionato e incomprensibile. Ad un certo punto aumentò il ritmo e il tono e con espressione indignata alzò di scatto le braccia al cielo... e, abbassandole, si strinse la testa fra le mani, vistosamente reclinata... e tacque.

* * * * * * * * * * * * * * *

Un uomo, G. P., percorreva in salita il corso Giulio Sartorio al centro alla strada, stringendo un’anguria con il braccio sinistro; piegava le gambe e si muoveva a dritta e a manca, avanti e indietro, per mantenere l’equilibro. Nel contempo, parlava con l’ anguria e il colloquio, dapprima pacato, divenne incalzante tanto da fargli puntare ripetutamente l’indice della mano destra.

Appariva evidente la sua collera per la mancata risposta alle sue argomentazioni. Non sopportando più l'affronto, alzò la voce e con espressione di rabbia scaraventò energicamente l'anguria a terra, frantumandola. Poi, volendola punire ulteriormente, con movimenti scomposti e imprecando, schiacciò con i piedi i vari pezzi, rendendoli tanto liquidi da provocargli la caduta a gambe per aria, facendogli percorrere qualche metro. Fermatosi, rimase a testa bassa e a braccia penzoloni.

* * * * * * * * * * * * * * *

Due compari, dopo avere mangiato e bevuto, si alzarono per rientrare a casa. Uno di loro barcollò e l’altro gli disse: “Ti sostengo io, tu sei ubriaco”. Fecero qualche passo, e, oscillando, furono sul punto di stramazzare a terra se non si i fossero aggrappati ad un tavolo e a una sedia.

Allora, il primo, biascicando rispose “Tu vuoi aiutare me? non lo capisci che non sei capace di stare in piedi! Vieni , appoggiati a me”.
Partirono all’unisono, e costretti a sostenersi reciprocamente, si abbracciarono cozzando le teste. “Hai visto cosa hai fatto, compà? (compare) . . . sei veramente ubriaco”.
Dichiarando entrambi di volersi sorreggere e appoggiandosi uno all’altro, lentamente e dondolando come canne al vento guadagnarono la strada che li condusse all’abitazione
di uno dei due. Si sedettero sulla panca in pietra situata accanto alla porta d’ingresso, “ghittena ” e si addormentarono.

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Nel tardo pomeriggio uno zolfataio leggermente ubriaco, camminava andando avanti e indietro. Nel modo di guardarsi attorno sembrava che non volesse fare intendere ai passanti di non essere sobrio e si adoperava di mostrarlo muovendosi soltanto in assenza di persone e aggrappandosi velocemente a qualsiasi sostegno: lo stipite di un ingresso, la ringhiera che costeggia il lato superiore del corso principale, un'autovettura.
Muovendosi, volteggiava, disegnava delle linee a zig zag, si abbassava pericolosamente. Trovato un punto di appoggio, meditava sul successivo tratto da percorrere, e attraverso questo stratagemma raggiungeva casa.

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Siamo in periodo pre-bellico, in via Sant’Alfonso, nel mese di agosto, all’imbrunire. Tre uomini un po’ brilli camminavano muovendosi sinuosamente e nel contempo si schernivano. Dalle parole lecite degenerarono sino alle ingiurie; infine, uno di loro estrasse un coltello dalla tasca.
A causa del caldo le persone si intrattenevano all’aperto; tra questi, un finanziere appoggiato alla ringhiera del balcone con la sigaretta in mano, il quale, si rese immediatamente conto che qualcosa di grosso stesse per accadere.
Agevolato dalla posizione del balcone, ad appena due metri di altezza, scavalcò l'inferriata, ponendosi davanti ai tre e con mossa fulminea, grazie alla sua giovane età e agli addestramenti militari, disarmò l’uomo. La prontezza del militare evito uno spargimento di sangue; di contro, subì un lieve taglio al naso.

* * * * * * * * * * * * * * *

Primi anni Quaranta.

A tarda sera un ubriaco, “fradicio”, percorreva via Vespri - intesa “Malampo” - cercando di guadagnare qualche metro per rientrare a casa. Si appoggiava al muro delle case per una breve sosta e ripartiva velocemente sperando di riappoggiarsi.
Una di queste brevi e veloci uscite gli procurò seri danni fisici. Sfortuna volle che in quella via vi fossero in corso lavori edili e rasente al muro si trovasse un bidone in cui i muratori avevano sciolto la quacina (calce).
Poiché in quel segmento di strada non esisteva alcuna illuminazione, andando veloce e a piccoli passi, urtò violentemente il bidone all’altezza della pancia e, per effetto della forza centrifuga, la parte superiore del corpo si piegò entrando nel contenitore.
La calce brucia, perciò, si ustionò seriamente. Le sue urla fecero accorrere i vicini che in gran fretta lo condussero allo “Spedaletto”, un presidio sorto per assistere gli infortunati sul lavoro.

* * * * * * * * * * * * * * *

Nei decenni scorsi nevicava tanto da formare uno spessore di cinquanta centimetri e oltre di neve. In un pomeriggio di febbraio uno zolfataio si soffermò nella ‘ncantina per alcune ore e quando decise di rientrare a casa, vuoi per il crepuscolo incipiente, vuoi per le dense nuvole che oscuravano il cielo, le strade si presentavano pressoché deserte.
Dopo circa cinquanta metri giunse in piazza Duomo e tentò di percorrerla diagonalmente. Giunto nel secondo riquadro, che è leggermente in salita, il suo incerto equilibrio si accentuò spostandolo per alcuni metri e stramazzandolo a terra in posizione supina. Scornparve in mezzo alla neve.
Dopo un’ora circa transitò un individuo il quale spinto dal forte vento si allontanò dalla diagonale e inciampò in qualcosa. A tentoni cercò di capire e scoprì trattarsi di una persona ubriaca. Bussò ad una porta, chiese soccorso e riuscì a sollevare il malcapitato che constatò essere suo vicino di casa. Lo presero sottobraccio e pian piano lo condussero a casa. Quel provvidenziale incontro gli salvò la vita; infatti, se fosse rimasto tutta la notte all’addiaccio probabilmente sarebbe morto assiderato.

1969: chiusura delle miniere

Anche questi locali chiusero i battenti. Ne rimase un modico numero che assunsero una diversa visibilità, nel senso che chiunque vi accedeva e comitive vi trascorrevano la serata per gustare, festosamente, prodotti genuini; poi, ne rimasero soltanto due: una gestita da Carmela Pellitteri in via Sant’Anna n. 56, l’altra da Francesco Lo Bue in via Alfonso Giordano, n. 50.
Nel 1999 la prima venne trasformata in trattoria, assumendo la denominazione di “La Tavernetta”, mentre, la seconda rimase attiva sino al 2010.


Relativamente alla prima, la signora Carmela Pellitteri riferisce:

Nel 1963 io e mio marito Vincenzo rilevammo la licenza intestata a Domenica Vicari, sposata Pietro Sferlazza, dando continuità all ’esercizio ubicato in via Regina Margherita. Nel 1966 trasferimmo l'attività nella via Sant'Anna, n. 56, nei locali già utilizzati a ‘ncantina da Gioacchino Romano.
La definitiva chiusura delle miniere ridusse la frequentazione degli zolfatai, sostituiti da altre categorie di lavoratori, alle quali si aggiunsero i carrettieri che si riversavano a Lercara in occasione delle sfilate di carretti per le feste.
Provenivano da Termini lmerese, Casteltermini, Palazzo Adriano, Cammarata, San Giovanni Gemini, e trascorrevano la serata a mangiare, a bere e a intonare stornellate.
Ricordo un anziano carrettiere che di tanto in tanto si presentava a bordo di un taxi, e si intratteneva per qualche ora. Non conosco il paese di origine, ma è indimenticabile la sua espressione di gioia e di appagamento. Benché la Tavernetta svolga la funzione di “ristorante”, in determinati giorni della settimana continua a fornire le specialità della ‘ncantina
In un certo senso antico luogo di ristoro sopravvive, tuttavia, non ricrea l'insostituibile atmosfera della “vecchia” ‘ncantina".

Desidero storicizzare due avvenimenti che si sono svolti in questo locale.

Con l’arrivo dei mezzi di trasporto a motore, i carrettieri si trasformarono in autotrasportatori, ma in loro rimase lo “spirito” del mestiere svolto per decenni. E proprio la nostalgia, nel novembre 1987, stimolò Giovanni Di Liberto di Francesco a radunare un gruppo di carrettieri del territorio.

Un incontro caloroso e commovente, condito con ricordi, esperienze e imprese conseguite, nutrito con vari piatti e ammorbidito con il vino. E tra un bicchiere e l’altro, intonarono le più belle stornellate, arricchite dalle peculiari variazioni di ciascun paese, che segnarono l’apoteosi dei Canti di questa categoria.

Caratteristica la posizione che assumeva il cantore di turno: la mano destra sulla guancia vicino alla bocca e la testa reclinata. In questo modo rievocarono il lavoro, il cavallo, la propria esistenza, la donna del cuore.

Gli stornelli, ormai standardizzati, negli incontri venivano improvvisati. I partecipanti intervenivano in sequenza e a turno rispondevano al compagno che li precedeva continuando a trattare il tema impostato dal primo cantore.

Di questo “storico” raduno rimane una fotografia e una musicassetta, che può ritenersi un reperto antropologico in quanto esprime i sentimenti più segreti dell’uomo, dell’uomo che ama il lavoro, che lotta per vivere, che è felice con poco, che subisce i patimenti della natura umana.

Si tratta di cantilene che riportano ad un mondo ancestrale, un frammisto di preghiera e di lamento; l’invocazione di chi vive in solitudine in un microscopico pianeta, avvolto da uno spazio siderale, che sgorga potente dalla viscere e pur se espressa con un fil di voce si innalza sino a congiungersi al Creatore.


L'altro, molto significativo, si verificò il 10 agosto 2004,giorno nel quale l’Amministrazione comunale organizzò un convegno per ricordare la radiosa figura dello scienziato Alfonso Giordano, il “padre” degli zolfatai, il quale scoprì in loro e curò una letale malattia, istituì degli organismi di assistenza, determinò la formulazione della legge per la tuteladei ragazzi (carusi) e delle donne.

Al termine del convegno, un ristretto numero di amministratori, oratori, il nipote Alfonso Giordano, magistrato, vari pronipoti, convenuti da ogni parte d’ltalia, e il direttore del Giornale di Sicilia di Palermo, dottor Antonio Ardizzone con la Consorte, vi cenammo seduti a due lunghi tavoli. In quella gioiosa atmosfera, carica di cultura e di commozione, aleggiò certamente “il grande spirito” del Giordano e per poche ore quell'ex ‘ncantina odorò di zolfo.

Per la seconda, Francesco (detto Franco) Lo Bue, racconta:

Sono nato nel 1940 e, terminata la frequenza scolastica, all’età di 14 anni iniziai a lavorare, come “collaboratore ” nella ‘ncantina di mia zia Concetta Lo Bue, situata da vent’anni nella via Abramo Lincoln in un grande vano terrano che dal lato opposto si affacciava sulla via Arciprete Gaspare Giglio.
Nel 1957 ci trasferimmo in via Alfonso Giordano, numero 39, dove vi si rimase sino al 1957, anno in cui mia Zia comprò dei vani terrani con relative stanze al primo piano. Questi locali sono parte del complesso abitativo appartenuto allo scienziato Alfonso Giordano. Si tratta di una porzione pari a poco meno della metà. Nel 1969 divenni titolare dell' esercizio.
La licenza indicava il locale come “bettola con cucina e gioco lecito a carte ”, prevedeva la somministrazione di vino sino a 21 gradi e di alcolici in bottiglia,‘ rimaneva aperta
sino alle ore ventiquattro.
Durante il funzionamento delle miniere il commercio era molto vivace. Basti pensare che a volte si preparavano 100 uova a sera. Fave e trippa erano pronte alle ore 14.
Mi è capitato di accompagnare a casa gli ultimi avventori, i quali, essendo molto sbronzi, non si decidevano ad alzarsi dalla tavola.
Nel periodo estivo ritornavano gli emigrati i quali rivivevano il passato e manifestavano il proprio apprezzamento.
Alla definitiva cessazione dell ‘attività mineraria, la clientela si ridusse in maniera rilevante. Fortunatamente, iniziarono ad avvicinarsi altre persone e comitive. Di tanto in
tanto ricevevo telefonate dai paesi viciniori, preannunciandomi la venuta di gruppi di persone; ciò accadeva a fine settimana. Tra questi, professionisti di Palazzo Adriano.
La preparazione delle pietanze venne limitata ad alcuni giorni della settimana e per compensare la diminuzione dell'attività, iniziai la preparazione di polli allo spiedo, che avveniva ciclicamente il sabato e la domenica.
Da appassionato lettore tenevo a disposizione il Giornale di Sicilia e nell ’ultimo periodo i clienti fissi lo consultavano tutte le mattine.
Prossimo al pensionamento, speravo di passare la mano e a tale fine ritenevo necessario procedere
all ‘ammodernamento dei locali per adeguarli alle sopraggiunte esigenze;
purtroppo, non ho trovato disponibilità. E così, il 30 settembre del 2010 ho chiuso l'esercizio.
Ora, tutte le mattine, mi intrattengo nei locali per leggere il giornale, lasciando la porta aperta, che richiama amici e conoscenti ad entrare e ad intrattenersi in piacevole conversazione.
Certamente dovrò liberare i locali dalle suppellettili, e non so perché rinvio l'esecuzione.”

Considerazione finale

Delle ‘ncantine rimane solamente vivo ricordo negli anziani che hanno conosciuto questo “mondo”, e tramandano fatti e circostanze divertenti, legati alla natura dell’ambiente; un ambiente amato dagli zolfatai, prima, successivamente frequentato da tutti, e, sul finire, ricercato, benché da parecchio tempo non presentasse più il suo “biglietto da visita”: la fronda di alloro e la lampada.
La loro scomparsa ha cancellato un settore della vita lavorativa che per oltre centoquarant’ anni caratterizzò la storia di Lercara e, come accade per tutto ciò che finisce, si decanta la prelibatezza del cibo e la professionalità dei gestori.
Rimane la memoria popolare, che col trascorrere degli anni vanifica. Ebbene, accanto a questa memoria potremmo fare sopravvivere l'ultima ‘ncantina, - quella di Francesco Lo Bue - quale tangibile testimonianza di un’epoca, facendone un Museo, che meglio di qualsiasi racconto, attraverso il suo silenzio, parlerebbe alle future generazioni.
Chissà che dalle ceneri possa sorgere un nuovo soggetto!

Rimangono eccellenti testimonianze.

Sicuramente vi si sono fermati viaggiatori in transito e tra questi l'inglese Jessie White, giornalista e scrittrice, vedova del garibaldino Mario, che negli anni 1890-91 visitò la Sicilia. Giunse alla stazione di Lercara Bassa da dove, con la carrozza, “la posta”, salì al paese.

Scrive “Si fece colazione all'osteria del luogo, con formaggio indigeno, assai migliore del cosiddetto svizzero, mele, vino leggiero e saporito, ma torbido come lo è in generale il vino originario della Sicilia”

E Carlo Levi, venuto a Lercara nel 1951, durante uno sciopero degli zolfatai, annota: “Ci eravamo fermati, per caso, proprio davanti all ’unica osteria, un ’osteria senza insegna e, a quell’ora, senza avventori. Non c’era, del resto, nulla da mangiare, se non del formaggio e delle uova”.
In verità, la White fa riferimento “all ’osteria del luogo ” .
Levi precisa “all ’unica osteria”; quella di Levi si può identificare, però, a me piace immaginare che siano ‘ncantine.


Il carrettiere

Mi sembra doveroso parlare di questa categoria di lavoratori, ormai scomparsa, dal passato glorioso, che vive soltanto nei ricordi degli anziani. Il carretto è stato un valido mezzo di trasporto e possedere un cavallo ed un carretto era segno di autonomia lavorativa e di buona condizione socio- economica.

Per esercitare il mestiere occorreva munirsi del libretto di circolazione rilasciato dal Comune che prevedeva le caratteristiche del carretto al quale veniva assegnata una targa di identificazione.

Il suo utilizzo si sviluppò a cominciare dalla metà dell’Ottocento e subito assunse un carattere folkloristico, essendo invalso l’uso di dipingere tutte le sue parti, dagli artistici bassorilievi alle sponde. Suggestive le scene delle fiancate in cui sono raffigurati episodi dei “Paladini di Francia”, dei Vespri Siciliani, di Giuseppe Garibaldi, della Cavalleria Rusticana e immagini della Vergine e di Santi.

Sgargianti le decorazioni pittoriche predominanti il rosso, il verde e l’azzurro - e i colori dei finimenti del cavallo: pennacchi, piume, pettorali, lustrini, sonagli, guarnizioni di borchie, lustrini, fiocchetti, specchietti, pettorali e sottopancia di lana e seta.

Una “casa ambulante” in miniatura, il carretto. Infatti, sotto il pianale di carico, dove veniva sistemata la merce, pendeva una rete di corda - detta rituni - che accoglieva il fiasco di acqua, la colazione, oggetti personali, attrezzi per la manutenzione, stivali di cuoio, crusca ed altro; ad un apposito gancio si ancorava la coffa, contenitore di foglie di palma selvatica, per la conservazione della biada, e ad un altro la lanterna a petrolio, dondolante a seconda dell’andatura, la cui fiamma illuminava la strada e segnalava la presenza alle autovetture; furono installati persino dei catari-frangenti. Un telone copriva la merce, un mantella cerata preservava il conducente dalle intemperie.

A seconda della consistenza del fondo stradale, agli zoccoli del cavallo venivano applicati ferri con chiodi oppure delle scarpe di gomma alla gamba anteriore e a quella posteriore diametralmente opposta.

Il passo era costante nella zone pianeggianti e lento nell' affrontare la salita; per contenere la discesa si immobilizzavano le ruote con robuste corde. Fra l’altro, a seconda della pendenza, il carico veniva spostato in avanti o nella parte posteriore. Problematiche le pozzanghere del fondo stradale che affossavano le ruote. Un fatica immane per il cavallo e per il conducente.

La tipologia del lavoro portava il carrettiere a percorrere le vie della Sicilia, solitarie e talvolta sinistre, sotto il torrido sole e le avversità atmosferiche. Essendo costantemente esposto all’azione dei ladri, quando possibile viaggiava in comitiva e per evitare di essere derubato del denaro incassato trasferiva la somma a mezzo Ufficio Postale.

In vista della notte raggiungeva il più vicino paese per trovare rifugio nel Fondaco e mettersi in sicurezza con il cavallo e il carretto; tuttavia, nel fondaco si verificavano furti, per cui non si toglieva le scarpe e per cuscino utilizzava la sacca contenente la crusca.

E poiché non tutti i gestori dei fondaci preparavano da mangiare, spesso consegnava della pasta da cuocere, oppure si recava nelle bettole; nei centri minerari “ ‘ncantina’.

Sorse, così, il modo di cuocere la pasta, “a la carrittera”: con aglio, olio, pomodoro, basilico e sale. Chi poteva permetterselo conduceva con sé un giovane aiutante e altro cavallo, detto balancino, che sosteneva il cavallo a superare le asperità della strada e, guidato dal giovane raggiungeva in anticipo il paese più prossimo per accaparrarsi il posto al fondaco. Quando richiesto, intervenivano dei carrettieri della zona a sostenere il collega in difficoltà; ovviamente, dietro compenso.

Non viaggiava mai privo di merce. Per esempio: se all’andata raggiungeva Alcamo o Partinico portandovi zolfo, grano, formaggio o fieno, al ritorno caricava vino per integrare quello prodotto a Lercara.

Durante questi lunghi tragitti alleggeriva la pesantezza della monotonia e la solitudine improvvisando stornelli incentrati sul proprio lavoro o sulla propria ragazza.

A Lercara carretti se ne contavano moltissimi, impegnati nel trasporto dello zolfo fuso, e del frumento e della farina del mulino Bongiovanni, situato in fondo alla via Mulino. Transitavano per le vie uno dietro l’altro come in processione.

Terminata la giornata di lavoro, il carrettiere si recava all' abbeveratoio o alle fontane per rinfrescare le gambe del cavallo e il carretto con gettiti d’ acqua prelevata con una bacinella di rame, detta “scutiddaru” e inumidiva il fieno destinato al cavallo.

Ritornato a casa “spaiava”, cioè, staccava il cavallo dal carretto e provvedeva ad ancorarlo accostandolo al muro della propria abitazione, con le aste alzate e, se necessario, bloccando le ruote con grosse pietre.

La presenza di tanti carretti diede vita a nuove botteghe di artigiani: “carrozzieri” per la riparazione dei carretti, e “sellai” per la confezione dei finimenti e delle bardature, collaborati da giovani apprendisti.

La possibilità di ingenti incassi, indusse persone facoltose a fornire il carretto a chi non riusciva ad acquistarlo e ad approntare il cavallo “al guadagno”, cioè, con la compartecipazione all’utile.

Accanto a questa “industria”, sorsero cooperative di carrettieri che si aggiudicavano delle grosse commesse, e “imprese” individuali; una di queste la gestivano i coniugi Giuseppe Tinnirello e Giovanna Di Salvo i quali disponevano di circa dieci carretti che affidavano a giovani, assegnando loro le destinazioni e la merce da trasportare e commerciare. In cambio ricevevano il salario di una giornata.

Questo modo di operare era facilitato dal fatto di disporre di un ampio complesso abitativo che consentiva il ricovero dei carretti, l’alloggio degli animali, la conservazione della biada e la fornitura dell’acqua e del vino. Il tutto supportato da un contabile.

Il carretto divenne obsoleto quando si divulgarono i mezzi di trasporto merci a motore a tre ruote (Ape e Moto-Ape) e a quattro ruote, per cui il carrettiere si trasformò in autista e trasferì nel nuovo mezzo il fascino della coloritura e alcuni finimenti.

Ai nostri giorni il carretto fa parte di sfilate folkloristiche nelle feste patronali e si presenta sempre più coreografico; i colori vivaci e l'originalità delle raffigurazioni continuano ad interessare precipuamente le nuove generazioni.


Desidero concludere questo escursus, riportando una calorosa testimonianza di Carmela Di Liberto, figlia di Giuseppe, carrettiere.

Mio padre era Giuseppe Di Liberto, conosciuto come “Peppe Ricotta ”, il quale con questo lavoro è riuscito a mantenere la numerosa famiglia, composta dalla moglie e da nove figli. Un lavoro pesante e molto pericoloso essendo esposto al sole, alla pioggia e ai malintenzionati.

Ci raccontava che per raggiungere Castellammare o Menfi impiegava parecchi giorni. Qui, vendeva zolfo e generi alimentari (cereali, olive, mandorle). Andava a dormire nei Fondaci e di solito mangiava pasta condita con aglio, olio e sarde salate, mentre il cavallo veniva alimentato con crusca, avena o paglia; il suo letto era costituito da un sacco di paglia.

Alloggiare nei fondaci, anziché per strada, dava sicurezza, perché con la fame che allora imperava, vi era il pericolo di essere derubato e la probabilità di ritornare a casa a piedi e senza denaro. Mio padre “adorava ” il suo carretto e il suo cavallo e ne era orgoglioso. A quei tempi, possedere un cavallo di buona razza ed un carretto significava stare bene economicamente.

Purtroppo questo tipo di lavoro costringeva mio padre a stare poco tempo con la famiglia, ma doveva lavorare tanto per mantenerla. Successivamente ha sostituito il carretto con una “Moto Ape a tre ruote”, che per noi piccoli è stata una festa e una gioia immensa, come se avesse comprato un Tir.

Comunque, continuò ad avere sempre la passione per il cavallo, infatti, commerciava asinelli di razza e a volte li cedeva in affitto a venditori ambulanti di frutta e pesce. Questa sua passione e dedizione l’ ha trasmesso in famiglia, tant’è che ancora oggi conserviamo gelosamente il suo carretto, considerandolo qualcosa di prezioso perché ci ricorda il passato e non vogliamo fare sparire la memoria.

Mio padre è stato un grande lavoratore, ci ha insegnato a lavorare facendoci capire che il lavoro dà dignità all’ uomo e noi figli, seguendo il suo insegnamento, ci dedichiamo al commercio e trasmettiamo ai nostri figli la passione per il carretto e per i cavalli”.


Versi di Felice Dolcimascolo dedicati alle trattorie risorte laddove erano le vecchie 'ncantine e il cui menu,
pur memore delle frugalità tipiche di un tempo, si arricchisce di nuove voci adatte alla contemporaneità:

Saluti a tutti

a cu è assittatu, e a cu è a l'additta

saluti a tutti... di Totò Cacaladditta.


Stigghiola e quarumi putiti truvari

manciari carni e pisci di mari

li grossi crastuna e l'attuppateddi.


La trippa è bianca o cunzata cu 'u sucu

la centupeddi stricata cu 'u Sali

attaccatu a la carni c'è l'ossubbucu

e manciannu dù sardi vi sintiti a mari.


Costi d'agneddu fatti arrustuti

pi ccu ci piaci aju li favi vugghiuti,

lu sangunazzu fazzu vugghenti

l'arricriari all'amici e parenti.


Li mulinciani ni pozzu parrari

a' parmigiana li sacciu cunzari

sucu di casa cu agghia cunzata

e cu 'a ricotta salata po' cummigghiata


Cu rispettu li sarbietti di pezza vi portu

pi stujarivi 'u sivu du pedi du porcu,

cu trasi nni mia cu pedi cuntenti

un nnesci di cà cu 'i panzi vacanti.

Un sarbu nenti du manciari d'aeri

chistu vù giura Totò Pillitteri

si restano cosi Totò po' li etta

picchì si mancia friscu a “LaTavernetta”.


Cunzati cu 'a menta aju li purpetti

e picurinu quantu cinnè,

cu mancia 'na vota nni Cacaladditta

chistu vi giuro... ci torna arrè.


Nzalati virdi e cu la cipudda

accussì virdi ca pari sudda

accia e finocchi pi sgrasciu cà c'è

vinu bbonu e passitu a tinchitè.


Sambuca e Marsala l'arriala la ditta

di Salvatore Cacaladditta.


Si ringrazia l'Autore per la gentile concessione alla pubblicazione della sua Opera in questo sito


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Edizione RodAlia - 29/11/2012
 
     
 
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