Chi frequenta la Grecia da
molti anni non può non ricordarselo. Traversare il nord del Paese,
dall’Egeo allo Ionio, era una piccola avventura: un saliscendi di
sette, otto ore, tra giravolte e dure pendenze su una striscia
d’asfalto intasata da camion e corriere arrancanti, che a tratti
s’incanalavano in paesini pittoreschi e superavano passi montani
vertiginosi. Alla fine si arrivava ad imbarcarsi per l’Italia dal porto
di Igoumenitsa, confinata in un angolino là, sotto l’Albania, non
lontano dalle coste pugliesi.
Ora, tutto questo è finito. Un solo breve tunnel rimaneva ancora
incompiuto quest’estate lungo la nuovissima autostrada greca che, con
un percorso di 670 km, permette di passare in un paio d’ore da un mare
all’altro, e addirittura nella stessa mattinata di raggiungere i
confini della Turchia europea. E poi, da lì, volendo, si prosegue per
Istanbul, porta dell’Asia. E viceversa.
Il paradosso è che il suo tratto più orientale, quello che dalla
cittadina di Alexandroupoli giunge al posto di confine greco-turco di
Kipi, risulta spesso semivuoto. Conduce infatti non solo alla barriera
tra due Stati i cui rapporti continuano a non essere facili, ma anche
al limite estremo dell’Unione Europea, segnato dal tratto finale del
fiume Evros . È proprio qui che il governo ellenico sta costruendo una
barriera fatta di reticolati e un profondo fossato. Lo scopo è porre
argine al crescente flusso di migranti provenienti dai paesi asiatici o
africani che passano attraverso la Turchia. Capita perfino di vederli,
a volte, al calar del sole, marciare a piccoli gruppi in fila indiana
lungo la corsia di emergenza dell’autostrada deserta.
L’idea di questo collegamento
viario era nata negli anni Novanta (i lavori sono cominciati nel 1996).
Il crollo dell’Unione Sovietica e l’avvicinamento della Turchia
all’Unione Europea facevano prevedere un intensificarsi degli scambi in
quella direzione, e il fenomeno migratorio era ben lungi dal destare le
reazioni odierne. Per l’opera fu risuscitato un nome prestigioso:
quello dell’antica Via Egnatia.
Si trattava nientemeno che della prosecuzione al di là dell’Adriatico e
nei Balcani della regina viarum dei Romani: l’Appia. Questa, come è
noto, collegava l’Urbe al porto di Brindisi, da dove ci si imbarcava
per approdare sulle coste dell’odierna Albania; e là iniziava appunto
l’Egnatia, che collegava Italia e Grecia antica, proseguendo fino a
Tessalonica (Salonicco) e a Bisanzio (Istanbul). Da qui gli eserciti, i
funzionari e i mercanti proseguivano verso le province dell’Asia
ellenizzata e i suoi grandi empori, dove arrivavano anche le carovane
partite dal più lontano Oriente.
Era così importante, l’Egnatia, che fu la prima delle numerose strade
che i Romani decisero di costruire fuori dalla nostra penisola. Si
trattò, per quei tempi, di un’impresa straordinaria: attraversare i
Balcani da est a ovest a quella latitudine, infatti, è una sfida
all’orografia. Già di per sé il termine ‘Balcani’ significa ‘monti’; ma
per di più in queste regioni i rilievi, così come i principali fiumi,
scendono da nord verso sud: e quindi l’Egnatia doveva tagliarli, tutti.
Solo l’organizzazione e i mezzi finanziari del più grande impero
dell’antichità poterono realizzare quel percorso lastricato in pietra
di 1.120 chilometri, ben più lungo della odierna autostrada, l’Eghnatìa
Odòs, come la chiamano i greci.
Come è noto, i Romani erano grandi costruttori di strade; e lavorarono
talmente bene, con in mente una prospettiva di durata nei secoli, che
tratti dell’antico tracciato resistono ancora. Mi è capitato di
ritrovarne in più punti. Come alle spalle dell’odierna Kavala, una
cittadina macedone incastonata tra le montagne e affacciata sull’Egeo
scintillante, con gli immancabili traghetti che salpano per le isole. È
questo un tratto in forte pendenza, poiché la strada risaliva e poi
scendeva per il passo che sovrasta la città provenendo dalla non
lontana Filippi: sì, proprio quella della battaglia vinta da Ottaviano
e Antonio contro gli uccisori di Cesare; e anche quella che ispirò le
‘Lettere ai Filippesi’ di S. Paolo - il quale come tanti si trovò a
passarvi nel suo viaggio verso Roma.
Anche l’asse viario moderno è
un prodigio di ingegneria. Le semplici cifre bastano a dimostrarlo. Vi
si contano 177 grandi ponti per un totale di 40 chilometri, nonché 73
lunghe gallerie (la maggiore è lunga 4,8 chilometri.). Specie nel
tratto dell’Epiro, il 30 percento del percorso passa assai più in alto,
oppure al di sotto, del livello del suolo. Oggi come allora – nel XXI
secolo come nel II a.C. – un piccolo Stato da solo, con le sue limitate
risorse, non ce l’avrebbe mai fatta. E così, dei circa sei miliardi di
euro di costo complessivi, la metà è venuta dai finanziamenti
dell’Unione Europea: come non si stancano di ricordare lungo le corsie
sospese tra le montagne i cartelli che i turisti scorrono con sguardo
annoiato. Le imprese ciclopiche hanno sempre alle spalle grandi entità
statali o, in alternativa, una grande unione di Stati: come quella
costituita del nostro continente, almeno finché reggerà. Anche la
moderna impresa, così come quella avviata dal console Gnaeus Egnatius
dopo il 146 a.C., aveva una grandiosa ambizione: collegare in modo
rapido e sicuro le due parti del mondo. La
via Egnatia insomma
era, ed è, per le sue dimensioni e i suoi costi, una strada il cui
senso non può che essere bipolare. Allora i poli erano le teste
politiche delle due parti dell’immenso impero: quello romano
d’Occidente, con capitale Roma, e quello d’Oriente, con capitale
Costantinopoli. E oggi?
La nuova via Egnatia, la strada sospesa
Oggi, questo superbo nastro d’asfalto rischia di diventare un magnifico
ponte sospeso, cui manchino le campate finali: alle sue estremità non
lo attendono infatti varchi spalancati, ma le indecisioni e le
lentezze, le miopie e le dispute che dividono i governi della regione.
Non si tratta solo degli alterni rapporti dell’Europa con la Turchia.
Anche il tracciato occidentale dell’Egnatia, se lo si confronta con
quello della strada romana, è rivelatore dell’attualità geopolitica.
Infatti l’antica Via non partiva da Igoumenitsa, non attraversava
l’Epiro meridionale: i Romani sapevano che il tratto di mare più breve
tra Brindisi e i Balcani non era lì, ma più a nord, dove si apriva il
porto di Apollonia; mentre ancor più a settentrione quello di Durazzo
offriva alle spalle un facile accesso ai Balcani. E per questo la
fecero partire da queste due città che allora erano greche, abitate da
Greci, mentre attualmente sono albanesi. Dopodiché, la
Via Egnatia
giungeva in Grecia, a Salonicco, attraversando il territorio della
Repubblica di Macedonia o FYROM, a seconda dei punti di vista, dove
toccava il lago di Ochrid ed Erakleia Lynkestis, l’odierna Bitola.
Insomma, se si fossero rispettati la logica e il percorso originari, la
nuova Egnazia avrebbe traversato oggi quattro stati (Albania,
Macedonia/FYROM, Grecia e Turchia), non uno solo. Comunque, era forse
scontato che assieme ai fondi europei la Grecia incamerasse, per questa
meritevole impresa, anche il nome della prestigiosa Via romana. Essere
o non essere nell’Unione Europea: anche questo fa la differenza, specie
nel campo delle infrastrutture.
L'antica Via di Solimano il Magnifico
Ma se nel suo primo tratto la moderna Egnatia ha mutato percorso, e se
quello finale resta senza grandi sbocchi, che ne è di quello ancora
successivo della antica Via romana, quello che arrivava fino alla
imperiale Costantinopoli? Essa attraversava l’attuale confine
greco-turco (quello che oggi si vorrebbe ‘fortificare’ con la barriera)
poco più a sud della stazione doganale di Kipi, nei pressi dell’antica
Traianoupolis: ed è anche lì per buoni tratti visibile, sebbene abbia
perso il manto lapideo. Giunta sul Mar di Marmara, l’antica Via ne
seguiva le coste fino a sbucare nella ‘Città’ per eccellenza attraverso
la ‘Porta d’Oro’, aperta nelle maestose mura della capitale d’Oriente.
In effetti anche durante l’età dei Bizantini e degli Ottomani la via
Egnazia continuò parzialmente a funzionare, percorsa da mercanti,
eserciti, viandanti, predicatori, crociati, invasori, esploratori,
migranti e fuggiaschi, in entrambe le direzioni. Ma poiché in quel
lungo millennio Oriente e Occidente furono quasi sempre contrapposti,
da ‘bipolare’ che era stata divenne ‘unipolare’. Il suo traffico, cioè,
fluiva e rifluiva sempre partendo dalla capitale. In quei secoli erano
le acque salate dell’Adriatico, non quelle dolci dell’Evros, a
costituire un confine sensibile.
Gli imperatori cristiani e i padiscià musulmani continuarono quindi a
restaurarla e a usarla. Ma mentre Bisanzio era in declino e la vedeva
più come un possibile varco per gli invasori, l’impero ottomano dei
secoli d’oro, specie al tempo di Solimano il Magnifico, la considerava
una delle due ‘ali’ che dalla capitale permettevano di volare ai due
estremi del mondo: più precisamente, l’ala occidentale, quella che la
univa ai popoli sottomessi dei Balcani, e che avrebbe portato – si
sperava, prima o poi – gli eserciti della mezzaluna a conquistare
Vienna.
Il ponte dei ventotto archi
Chi esce oggi da Istanbul e supera l’aeroporto Atatürk, procedendo
lungo la costa segue su un ampio e trafficatissimo stradone moderno più
o meno il percorso della Via Egnatia. Ad un certo punto, però, incontra
un’ampia laguna che sfocia nel mare, e che l’antica strada romana
aggirava verso l’interno. I sultani, non tollerando quella deviazione
proprio alle porte della capitale, decisero che lì andava costruito un
ponte e che questo avrebbe tagliato la laguna in linea retta. E così
chi si affaccia per la prima volta sulla cittadina di Büyükçekmece può
ammirare una straordinaria opera di ingegneria, che è anche uno dei
capolavori artistici della Turchia ottomana; e che, perfettamente
restaurata una quindicina d’anni fa, è tuttora funzionante.
In effetti il ponte che scavalca la laguna, lungo 636 metri, è tanto
pratico quanto singolare. È sorretto da ventotto archi a volta, ma ha
la caratteristica di essere suddiviso in quattro sezioni, ciascuna
delle quali costruita ‘a schiena d’asino’. Perciò, pur essendo assai
largo e imponente, sembra distendersi snello e flessuoso. È opera del
celebre architetto ottomano Sinan, che lo volle costruito interamente
in pietra, una pietra che si tinge di un caldo colore morbido, quasi
rosato, alla luce del giorno. L’ho attraversato a piedi (fortunatamente
è chiuso al traffico) nella sua ora più luminosa, con un sole a picco
di fine agosto reso tollerabile dal vento fresco e vivace che qui
soffia costantemente dal Mar Nero.
Così, ancor oggi gli abitanti utilizzano il ponte di Sinan, a
preferenza del caotico passaggio automobilistico più a valle, per
raggiungere le due parti in cui la cittadina è divisa dalla laguna.
Anche l’impiegato in giacca e cravatta che lo percorre a passo veloce,
col suo fascicolo gonfio di documenti biancheggianti sotto il braccio,
lo sta usando per tornare in ufficio. Mi individua come straniero,
forse per via della macchina fotografica, e decide, con la maniere
gentili tipiche dei turchi dei piccoli centri, di farmi gli onori di
casa. In breve, raggiungiamo assieme il Comune, dove lavora; lì vengo
riempito di foto, poster, volumi illustrati su questo bellissimo e poco
noto sobborgo di Istanbul.
Quando ci congediamo, riprendo a vagare un po’ stordito dal sole per il
porto di Büyükçekmece: sono ormai le tre del pomeriggio e, anche a
causa del ramadan, non ho bevuto né mangiato nulla. Dovrei provvedere a
rifocillarmi, ma il mio occhio viene attratto dall’ingresso ombroso di
una piccola libreria comunale, ancora aperta al pubblico. Decido di
entrare, sperando di trovarvi l’indicazione necessaria per concludere
il mio viaggio lungo l’Egnazia con un’escursione speciale.
Ponti o muri?
Gli Stati o gli imperi in ascesa o all’apice della loro potenza
costruiscono strade e ponti, mentre quelli in declino o in pericolo
innalzano mura e barriere. E io ho letto da qualche parte che un
imperatore bizantino, mentre la pars occidentalis dell’impero romano
crollava sotto i colpi delle invasioni, aveva voluto erigere una
invalicabile barriera che separasse Costantinopoli dal resto dei
Balcani. Non bastavano, no, le possenti e duplici mura teodosiane, che
ancor oggi vediamo avvolgere la città. Egli volle dividere, con un
vallo lungo 56 chilometri, l’intera penisola alla cui estremità, sulle
acque del Bosforo, sorgeva la capitale, dal resto del continente (oggi
è detta penisola di Çatalça). Il problema è che di questo muro quasi
nessuno sa o ricorda più nulla. Tutti coloro che avevo interpellato non
ne avevano mai sentito parlare, le carte anche dettagliate non ne
segnalano i resti, né avevo scorto indicazioni stradali. Eppure, dopo
il Vallo di Adriano in Britannia, questo dovette essere il più lungo
muro continuo eretto in Europa dall’antica Roma!
Anche la gentilissima bibliotecaria che mi accoglie, all’udire la mia
richiesta allarga sconsolata le braccia: ‘ Il Vallum Anastasianum? Mai
sentito’. Guidata però dall’esperienza, o da un qualche sesto senso, mi
pone sul tavolo di legno due libroni mai visti prima, perché editi da
piccole municipalità della penisola. Ed è lì che ne trovo la prima
immagine: una foto d’epoca e ingiallita, con una didascalia che ne
descrive l’antico tracciato, citando anche i villaggi odierni che
attraversava.
Ma aggiungendo, ahimè, che nei secoli gli abitanti lo avevano quasi del
tutto spogliato delle pietre per costruirci le loro case… Apprendo così
che il Vallo partiva dall’antica colonia greca di Selimbria, sul mar di
Marmara, una trentina di chilometri oltre Büyükçekmece, e tagliava in
due la penisola di Çatalça raggiungendo il Mar Nero dalla parte
opposta. Per fortuna, pare che proprio da quel lato un qualche tratto
ne sia rimasto, e precisamente nei pressi del minuscolo villaggio turco
di Karacaköy. È lì che dovrò andare, dico alla mia interlocutrice, per
trovare gli ultimi resti di quest’opera colossale: la quale, tra
l’altro, contraddiceva tutto il senso della
Via Egnatia,
spezzandone il corso che passava nei pressi di Selimbria. Mi avvio così
verso Selimbria, oggi Silivri: un’esplosione di vita, per quanto è
movimentata, giovane e popolosa. Dalla sua acropoli si ammira metà del
mar di Marmara. Non per nulla i Greci la fondarono ancor prima di
Bisanzio. Nessuna traccia del muro, lì: ma, ammirando le sue rive e le
sue acque, so già che l’indomani sarò su quelle opposte del Mar Nero.
E così il giorno dopo raggiungo con un amico turco il remoto villaggio
di Karacaköy. Qui gli uomini della piazza sanno del muro, e ci danno le
indicazioni giuste. Si trova a pochi chilometri, verso il mare. Ci
avviamo in auto per un tratto di asfalto angusto e deserto e
finalmente, alla nostra sinistra, messa in ombra dalla vegetazione,
addirittura dagli alberi che le sono cresciuti sopra, ecco la barriera
che doveva salvare Bisanzio. È in rovina, le radici delle piante ne
fendono qua e là la cortina di pietre rettangolari, ma rivela ancora la
sua passata imponenza. La Storia racconta, però, che ben presto il muro
si rivelò inutile agli scopi per cui fu costruito. Gli invasori, alla
fine, trovano sempre un punto da cui passare, poiché aspirazione al
benessere e declino altrui facilitano più di quanto le barriere non
ostacolino; e così fu abbandonato. I locali lo smantellarono per
erigervi i loro edifici, e nessuno se ne interessò più.
Giunto in vista delle onde fredde e nervose del Mar Nero, su cui si
rispecchiano le nubi trascinate veloci dal vento, ripenso a tutti
ponti, ai tratti di strade, ai passaggi e ai cavalcavia che ho visto in
queste settimane di pellegrinaggio lungo l’Egnazia, e li paragono a
quei poveri resti. I secoli, i millenni, finiscono prima o poi col
rendere superate e prive di senso le barriere. Ma gli uomini di ogni
civiltà ricostruiscono sempre, orgogliosi, i loro ponti e le loro vie.
E questo qualcosa vorrà pur dire.
FABRIZIO POLACCO -
by
Babelmed