Così Liborio Guccione, giornalista e scrittore aliese, ha descritto nel suo libro, "Giorni vissuti come se fossero anni", quella vissuta Umanità di tanti anni fa (anni '30/'40).
- la mietitura -
" Erano ancora in cielo le stelle e dalla Matrice l'orologio aveva appena scandito le quattro ore della notte. Nelle case, a poco a poco, si accendevano i lumi e dai vetri delle finestre filtravano le luci e si udivano voci ancora assonnate, voci distaccate, suoni imperfetti che si percepivano appena, nel silenzio. Non erano conversazioni ma segnali di voci che si comunicavano stentatamente, mentre i muli, i cavalli scalpitavano, sfiatavano, dando segni che anch' essi erano pronti a fare la loro parte a servizio degli uomini. Questi, intanto li sellavano, caricavano bisacce e attrezzi vari e partivano tenendo per le redini le bestie. Poi tutto precipitava nel silenzio. Non si udivano più voci, ma solo il suono metallico degli zoccoli ferrati delle bestie che sfregavano sulle strade fatte di pietre; un suono che man mano si perdeva lontano, inghiottito dallo spazio. Si spegnevano i lumi e le donne tornavano sotto le lenzuola a dormire, ché l'alba era ancora lontana. Prima che le luci dell'alba giungessero a spezzare le ultime ombre della notte, i contadini erano già nei campi, e come soldati schierati in prima linea, armati di falci, andavano all' assalto della trincea dalla quale dipendeva la loro vita e quella di tutto un popolo: aveva inizio così il meraviglioso rito della mietitura. Gli uomini, chini in quel dorato mare, di spighe, non si vedevano nemmeno: come fossero stati inghiottiti da quella massa alta ed estesa i cui confini sembravano infiniti. Iniziavano a mietere che appena albeggiava, e al primo sole si potevano scorgere larghe chiazze di campo già mietuto e, fra le stoppie, sparsi qua e là, mannelli di spighe coi quali man mano i mietitori formavano grossi covoni che legavano servendosi di un filo d'erba, la "liama". E mentre i mietitori continuavano a falciare, altri uomini caricavano i covoni sui muli, legandoli con le corde a "li sidduna", e li trasportavano sull'aia, davanti alla masseria. La mietitura del grano era il lavoro più faticoso e impegnato, ma gli uomini lo facevano di buona voglia, nella speranza che il risultato fosse abbondante. I mietitori restavano a lavorare tutto il giorno sotto il sole infuocato; ogni tanto afferravano "u bummaru" per dissetarsi e dare refrigerio ai loro corpi polverosi e madidi di sudore.
A mezzogiorno sospendevano il lavoro per la colazione alla quale seguiva un brevissimo riposo: giusto il tempo di fumare una sigaretta o un mezzo sigaro; e poi di nuovo chini fra le spighe a mietere e a trasportare i covoni. Era già buio e nel cielo comparivano le stelle come candele sospese nell'aria, quando finalmente i contadini cessavano il lavoro: abbandonavano i campi e si avviavano lentamente verso la masseria. E mentre camminavano lanciavano sguardi profondi sui campi già mietuti e poi a quelli ancora da mietere, calcolando ad occhio e croce quanti giorni di fatica restavano ancora per portare a termine il lavoro. Alla masseria trovavano le donne che già avevano preparato la cena. A lume di luna, gli uomini, accovacciati sulle pietre, mangiavano in silenzio, ma in loro c'era tanto appetito quanta voglia di riposare le stanche membra su un giaciglio di paglia. E così, finito di mangiare, bevuto un ultimo sorso di vino, mentre le donne, silenziose, stanche pure esse, pensavano a pulire, rassettare, a mettere ordine, gli uomini, governate le bestie, afferravano una bisaccia o un telo, li stendevano sulla paglia nell' aia, e di lì a poco russavano; guardati dall' alto dalla luna splendente, alla quale facevano compagnia le cicale, le rane coi loro canti notturni. Erano quelle le uniche voci che si levavano nel silenzio ovattato della notte e che solo le stelle sanno ascoltare; e qualche volta anche 1'animo umano ne sa percepire il misterioso messaggio. Meravigliose notti che si spegnevano all' alba e gli uomini si svegliavano sotto i brividi della guazza, caduta nella notte sull'aia dove essi avevano dormito. Un nuovo giorno; una nuova parentesi di vita che si donava, espressa così magnificamente dalla natura, offerta all'uomo per goderne, per arricchire la sua coscienza, disponendolo per ciò ad accettare la vita nel bene e nel male, secondo i suoi precetti, dai quali discende la tranquillità della nostra esistenza."
Raduno sull'aia dei covoni (li gregni) trasportati a dorso di mulo. La trebbiatura (la pisata) dei covoni di spighe, con l'ausilio di muli e di asini.
"bùmmari e sidduna"
- la trebbiatura -
" All' alba riprendeva la febbrile fatica nel punto in cui era stata sospesa la sera avanti. I mietitori tornavano a falciare il grano, mentre altri uomini sull' aia davano inizio alla seconda fase dell' opera della raccolta. Uno di essi, tenendo saldamente in mano le redini di due muli appaiati (qualche volta una giumenta e una mula o mulo) entrava nell' aia, in mezzo ai covoni ammucchiati, si faceva il segno cristiano, come il sacerdote quando si accosta all' altare per celebrare la messa, e gridando al vento "pi la bedda matri di tutti li grazi", faceva muovere i muli che, a testa alta, come fossero anch' essi compresi dell'importanza e della solennità del loro impegno, iniziavano il carosello. Si muovevano con grazia a passo cadenzato, calpestando i covoni che sotto i colpi degli zoccoli ferrati si contorcevano e poi man mano, come vinti, sconfitti, si afflosciavano senza più resistenza. Le spighe, a poco a poco, si spogliavano dei chicchi di grano che rimanevano nascosti sul fondo dell' aia, coperti da un tappeto di paglia che li proteggeva, in attesa di essere scoperti dall'uomo e restituiti alla luce.
Sotto il sole bruciante e mentre continuava quella processione di uomini e muli che dalla profondità dei campi trasportavano ancora covoni, il contadino che guidava gli animali nel carosello sull'aia, innalzava al cielo invocazioni ai santi del paradiso perché lo compensassero con un abbondante raccolto, e non trascurava di lodare il buon lavoro che stavano facendo le sue bestie che egli chiamava con voce carezzevole per nome, come fossero persone a lui care, come se quelle povere, sudate bestie potessero capirlo e sentirsi appagate dagli elogi che egli tesseva a loro merito.
Io da bambino osservavo con curiosità quello strano rapporto tra il contadino e le bestie che lui guidava, e credevo che veramente quei muli lo ascoltassero, perché vedevo che essi a sentirsi chiamati alzavano la testa, quasi orgogliosi, acceleravano il passo; mi pareva, insomma, che accogliessero gli appelli del padrone.
E mentre i muli continuavano a girare sulle spighe macinandole, gruppi d'uomini posti a circolo, infilzavano coi tridenti i covoni e li lanciavano in mezzo all' aia, fra i piedi dei muli. Era un via vai, un andirivieni di uomini, di muli, di covoni; una gara fra uomini, impegnati a terminare presto il lavoro: impegno commovente che ognuno viveva con una spiritualità quasi sacerdotale. E le donne non erano da meno con la loro opera d'assistenza, d'ausilio: sempre, attente, pronte, puntuali ad intervenire. Sapevano quando dovevano portare i "bummari" con l'acqua fresca che avevano avuto cura di tenere all'ombra, o quando dovevano portare la fiasca col vino. Perché quegli uomini erano sempre assetati, per via del copioso sudore che si impastava con la polvere prodotta dalla paglia; e quel sole implacabile non cessava sino a sera.
L'aria era irrespirabile, nonostante ogni tanto una leggera brezzolina scendesse ad attenuare quell'afa soffocante. Campi infiniti di terra, ammantati di spighe e tanti uomini silenziosi, chini a mietere.
Voci lontane echeggiavano di tanto in tanto, nell'aria: erano i contadini che dalle aie urlavano al vento le loro speranze, innalzavano le loro preghiere al cielo, esortavano le bestie a "pisàri" i covoni. A quelle voci lontane si univano le cicale e i grilli coi loro canti soffocati che empivano l'atmosfera. L'aria ferma e le foglie sugli alberi immobili.I bambini, esausti per il caldo, si gettavano all'ombra degli alberi e si addormentavano.
Era quella la stagione dei braccianti, "iurnatari", che si spostavano da una masseria all'altra, percorrendo a volte decine di chilometri a piedi. Quando finivano di mietere, infilavano la falce fra la cintola dei calzoni, e partivano alla volta di altri campi, a prestare la loro opera: una vita insicura; ora qua ora là. Andavano dove c'era da guadagnare un tozzo di pane.
A sera gli animali venivano lasciati liberi per i campi; liberi poi non proprio perché, per impedire loro di allontanarsi troppo e sfuggire al controllo, venivano "impastoiati", sicché dovevano spostarsi da un punto all' altro dei campi per brucare l'erba o la restuccia a piccoli passi, saltellando in modo buffo. I padroni così potevano controllare i loro movimenti, una precauzione indispensabile, ma una vera tortura per le povere bestie.
Terminata la mietitura e la "pisatura", l'opera poteva dirsi a metà cammino. Bisognava ora separare il grano dalla paglia che lo ricopriva. Aveva così inizio la "spagghiata", un lavoro che richiedeva la partecipazione di più contadini, ma che voleva anche il concorso indispensabile della tramontana. Quello della "spagghiata" era uno dei momenti più belli di tutta quella complessa e faticosa opera.Tutti gli uomini che prima erano stati impegnati nella mietitura e nel trasporto dei covoni, si trovavano attorno all' aia e partecipavano, chi in un modo chi in un altro, alla nuova fase del lavoro. Tutto intorno testimoniava un'atmosfera nuova, c'era più movimento, più vita in quella minuscola aggregazione; la stessa caratteristica del nuovo lavoro creava un momento di allegria. I primi ad avvertire quell'atmosfera erano i bambini che in tutti quei giorni erano rimasti soli, trascurati dai grandi che erano impegnati nei campi, lontani dalla masseria. Ora saltellavano allegramente attorno all'aia, giocavano a rincorrersi fra le stoppie, andando a caccia di "serpi" che essi acchiappavano servendosi di un lungo filo d'erba alla cui cima facevano una specie di nodo scorsoio, una trappola per quelle povere lucertole. Non era un gioco edificante, ma non avevano altro modo per divertirsi, oltre a quello di rincorrersi, o di andare a cercare i nidi di uccelli sugli alberi. I contadini, dunque, tutti insieme, entravano nel cerchio dell'aia, affondando le gambe nella massa di paglia e, armati di tridenti, cominciavano a sollevarla nell' aria, con gesto lento, composto e solenne. La paglia leggera volava via volteggiando e, trasportata dal vento, andava a posarsi, soffice come fiocchi di neve su un lato dell'aia dove si andava a formare un cumulo che, man mano, si ingrossava, assumendo via via la forma di una mezza luna di paglia, fitta e compatta. Misteriosa e sapiente arte della natura! E mentre la paglia volava via, i chicchi di grano cadevano pesantemente sul fondo dell'aia, provocando un tintinnio allegro e armonioso, come se quei chicchi fossero tante monetine d'oro.
Ho già detto che senza la collaborazione spontanea del vento di tramontana, non era possibile "spagghiari"; ed accadeva, infatti, che in certe ore della giornata, improvvisamente la tramontana voltasse le spalle e i contadini fossero così costretti a sospendere il lavoro. Nell'attesa che tornasse il tanto benefico vento, gli uomini si riposavano o si dedicavano ad altri lavori che, come si sa, nelle campagne non mancano mai; anzi non si giunge mai a tutto.
Ma una volta che il grano era liberato dalla paglia e mostrava tutto il suo splendore dorato alla luce del sole e agli occhi dei contadini che brillavano d'allegrezza e di soddisfazione, bisognava procedere anche alla sua pulizia, a setacciarlo per liberarlo dalle tante impurità che la "spagghiata" non aveva portato via: pezzettini di spighe, sassolini, legnetti e quant'altro corpo risultasse estraneo alla purezza del grano. Era questa l'ultima opera che restava da compiere prima di scrivere la parola fine a quella complessa fatica, durata tanti giorni. Le impurità venivano espulse cernendo il grano con un grosso crivello "u crivu" di forte cuoio, ricamato di buchi, dai quali, grazie al movimento di quattro robuste braccia, ("u crivu" era talmente grosso e pesante che due braccia non bastavano a reggerlo) uscivano i dorati chicchi che andavano a cadere su di un telo.
Era assai interessante assistere a quell' operazione, soprattutto per quel movimento armonioso che gli uomini compivano (ma qualche volta vi prendevano parte anche le donne), imprimendo al crivello un girotondo quasi sempre uguale, elegante perfino, come fosse una danza, mosse agili: ora in avanti, ora indietro e poi a cerchio, in modo che il grano uscisse da quel ricamo di buchi, lasciando dentro il crivello solo le impurità che venivano poi gettate su un lato dell' aia.
La sera il grano sull' aia veniva coperto, per proteggerlo dall'umidità della notte, con bisacce e larghe stuoie di forte tela che le donne dei contadini nei mesi invernali solevano tessere col telaio; come quello di cui si era servita Penelope per ingannare i Proci, nell' attesa del ritorno di Ulisse.
Gli uomini, dopo aver cenato, rotti dalle fatiche del giorno, andavano a dormire. Il letto era la paglia della mezza luna allestita dal laborioso vento di tramontana, durante la "spagghiata". Ora il grano, netto dei corpi estranei, era pronto per essere trasportato nel magazzino. Si procedeva intanto alla misurazione del prodotto conseguito, servendosi di una speciale unità di misura, chiamata "tùmminu", che era un cilindro di legno che poteva contenere esattamente quattordici chilogrammi di grano; sedici "tùmmina" formavano una "sarma", ossia duecentoventiquattro chilogrammi. Dunque si vendeva a "tùmmina" e a "sarma".
La misurazione del nuovo raccolto avveniva sull' aia; ed era importante, sia per conoscere la produzione complessiva dell' annata agraria, sia per poter procedere alla suddivisione del prodotto tra il proprietario e il metatiere, per esempio; il fittavolo, infatti, teneva per sé tutta la produzione, pagando, a seconda del contratto, al padrone una quota fissa annuale, in natura o in danaro. Stesso criterio era fissato per il gabelloto, i cui rapporti economici però, erano diversi, in proporzione, cioè, alla quantità del terreno dato in gabella, proporzione che era assai cospicua, rispetto al piccolo fittavolo.
Dicevo della misurazione del grano sull'aia... Sì: dunque, affinché il contenuto dell'unità di misura, risultasse sempre uguale, "u tùmminu" doveva essere "pieno raso". Per ottenere questo risultato, l'addetto alla misurazione (spesso sotto il severo controllo del padrone o del "campiere" , uomo di fiducia del padrone) teneva in mano una mazzetta di legno arrotondata e liscia che serviva, appunto, per fare raso "u tumminu": la mazzetta, in sostanza, livellava il grano contenuto nell'unità di misura che veniva così a risultare sempre di quattordici chili. "
Reperti museali della civiltà contadina
" Passaturi, tridenti, pali e criva " (crivelli).
Unità di misura per il grano duro ( " tùmminu, mezzu tùmminu, quartu e mitatedda ") - Alla parete , " pali e tridenti " . |