Lu
senzali
"Aza", una giovane guida turistica egiziana, usava dire che "nessuno ha
inventato niente", a sostegno della tesi secondo cui ciò che oggi è nel
nostro presente ha un antecedente già nel. tempo passato, magari in una
forma un po' più arcaica.
Chiunque può facilmente notare come nei nostri giornali proliferino gli
annunci del tipo "compro-vendo ", gestiti da agenzie che fungono da
mediatori tra due parti: venditori e acquirenti. Ebbene il parente più
prossimo di queste forme di commercio è l'antica figura di "lu senzali".
Il suo ruolo era, appunto, quello di cercare, mediare e concludere
negozi. Per "senzalìa" si intende, infatti, proprio l'opera di trattare
e venire a patti, ma si intende anche la mercede, dovuta a "lu
senzali", che, in genere, consisteva in una piccola percentuale, l'uno
per cento, del prezzo deciso.
C'erano vari tipi di "senzali": alcuni erano specializzati nel
commercio di bestiame ed esercitavano la loro professione soprattutto
durante le "fiere", altri, invece, si occupavano della vendita di case
e terreni.
Come si diventava "senzale"? Semplicemente per doti naturali. Una buona
parlantina era già un buon inizio, se poi si univa ad un carattere "
'ntricanti" allora il gioco era fatto: laurea ad honorem in "sansalìa".
Quando le due parti non volevano giungere ad un accordo, i tempi
potevano dilatarsi all'infinito, ma sembra che, in questi casi, il
rimedio più usato fosse quello di condurre le due parti in un luogo
dove picchiasse il sole in modo che "cu li corna a lu suli la testa ca
ci cucìa" fosse più facile che qualcuno cedesse. Altro mezzo, un po'
più rude, era quello di afferrare l'orecchio del venditore - in genere
il padrone di un animale - e torcerlo fino a che non potesse che
"accuzzari 'n terra la testa" in segno di accettazione.
In genere era chi voleva vendere a rivolgersi "a lu senzali ", ma la
proposta poteva partire anche da un possibile compratore che, magari,
essendosi innamorato di un pezzo di terreno, aveva bisogno di sapere
notizie in merito alla possibilità che fosse venduto.
"Lu senzali", allora, se l'acquirente era "un buon partito", sarebbe
andato dal padrone del terreno e " 'mbriacànnulu di paroli" lo avrebbe
convinto a vendere; il tutto in nome di un buon affare..
Tra i "senzali" più ricercati del paese di Alia, non si può non
ricordare "lu zi Jachinu Runfola", che fumava il sigaro e usava portare
le giacche sulle spalle senza infilare le maniche - chissà perché! -, e
poi il signor Bonfiglio, "don Piddu 'ntisu u' Larcarisi" e infine il
signor Blanda.
In alcuni paesi "lu senzali" si occupava anche di "cunzari matrimoni ",
ma da qui, da noi, in quei casi, si preferiva delegare alla più
adeguata "ruffianata ".
Laura Seragusa
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pubblicato in "La VOCE" di Alia, nr.1/2000, pag. 16
Don Totò lu viulinaru
E' con immenso piacere che vi parlerò di don Totò "lu viulinaru", un
soggetto così atipico che è impossibile inquadrare in una categoria ben
definita. Un uomo a metà tra il musicista e il cantore girovago, il
venditore ambulante e il sonatore d'occasione, una figura dai contorni
pressocché sfumati, ma forse è meglio dire più semplicemente che don
Totò era solo don Totò.
Aliese d'adozione, era vissuto per molto tempo in un orfanotrofio
palermitano, poi si trasferì ad Alia dove sposò una fanciulla, figlia
del calzolaio mastro Michelino Dioguardi. Don Totò non viveva certo tra
le ricchezze, il suo unico patrimonio era il suo violino e la sua voce;
neanche sulla propria vista poteva contare; infatti, dicono fosse cieco.
Camminava dalla mattina alla sera per il paese, "giru giru li 'mura",
le strade le conosceva benissimo, "l'avia 'n pratica", suonava, con il
talento dei "musicisti ad orecchio", quel meraviglioso strumento che è
il violino.
Suonava per le feste, per i matrimoni, per carnevale, e per tutte le
occasioni nelle quali si ritenesse opportuna la sua presenza, ma la sua
specialità era suonare per le "novene" dei Santi. "Quannu. Cesari ittau
ddu gran bannu rigurusu, San Giuseppi si truvau 'nna la piazza
rispittusu...tirullilleru tirullillà - tirullillà" è la musica..-.Così
faceva una delle strofe della novena di "lu bamminu" che si cantava
durante il periodo natalizio, mentre per Santa Lucia intonava il canto:
"Oh Lucia che decoro sei del cielo e della terra".
Don Totò, su richiesta, poteva suonare e cantare una novena per una
famiglia in particolare, così, per nove giorni, avrebbe suonato sempre
sotto la stessa porta e si sarebbe quindi guadagnato la sua lira o al
massimo le sue due lire. Altra fonte di guadagno era la vendita di
giornaletti e calendari di Santi.
Quando passava don Totò "cu lu viulinu", la gente gli offriva da bere e
lui, a quanto pare, non disdegnava affatto, anzi si dice fosse sempre
un po' brillo, da qui il suo colorito paonazzo. Qualche buon "putiaro"
gli faceva anche la carità di un po' di formaggio a "cridenza", ma
formaggio buono, quello che don Totò chiamava "lu sfutti bicchieri"
perché era un cacio così piccante che dopo averlo mangiato non potevi
non bere un goccetto di buon vino.
Era bassino don Totò, tarchiato, con una voce di "zuccheriana" memoria,
panciuto, usava un laccio come cintura per i pantaloni, la faccia tonda
e gli occhi non vedenti rivolti al cielo. Aveva dietro di se una
schiera di fanciulli che lo seguivano divertiti, in un tempo in cui un
povero vecchio con un violino poteva già essere uno spettacolo.
Ebbe tre o quattro figli, che sfamò a via di stenti, era così povero
che usava "scippare li pila di la cura di na jmenta" e, legandoli ad
arte a mò di corda, li usava come arco per il violino - non potendo
permettersi di comprarne uno nuovo -.
Gli capitò di tutto, persino di suonare, lui cieco, ad un matrimonio di
ciechi, quello cioè di "lu zu'Tanu l 'uorvu cu la gnira Turidda l
'orva".
Dopo di lui nessuno prese il suo posto, così le nuove generazioni - me
compresa - non potranno mai sapere cosa significasse vedere per le
strade un personaggio così particolare come don Totò "cu' lu viulinu":
un vero peccato!
Laura Seragusa
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pubblicato nel Periodico "La
VOCE" di Alia, nr.4/98, pag.4
Lu spiziali
Tosse? Raffreddore? Stitichezza? Niente paura: "Amunì 'nna lu
spiziali". E non crediate che fosse un semplice farmacista;nell'
accezione odierna del termine, egli era infatti, un medico, un
consulente, un mediatore di pace, il super partes prescelto per
risolvere conflitti di qualsivoglia genere.
"Lu spiziali" era una sorta di alchimista in grado di mischiare qualche
grammo di un'erba con qualche grammo di un'altra e creare una
composizione equivalente alle nostre pillole. E la fiducia della gente
in lui era totale, e lui, totalmente scevro di responsabilità, per
quanto riguardava il decorso della malattia "cu murìa, murìa a cuntu
d'iddu". Le erbe mediche venivano "pistati nna' lu murtaru di petra o
di lignu", dopo essere state accuratamente pesate in una bilancina atta
a misurare i milligrammi attraverso pesetti sottilissimi, detti
"lannuzzi".
Quando la medicina era pronta, veniva distribuita in una serie di
bustine di carta, ognuna delle quali equivaleva ad una dose. Insieme
alla bustina, al cliente, veniva fornita anche l'ostia che, dopo essere
stata bagnata, avrebbe ricoperto le erbe mediche per favorirne la
deglutizione per evitare eventuali cattivi sapori; l'ostia insomma era
una sorta di capsula rudimentale.
Se la medicina da vendere era liquida, come nel caso di uno sciroppo,
le persone andavano da "lu spiziali" già fornite di un
bicchiere che sarebbe stato riempito e, quindi, sigillato ermeticamente
con la carta oleata! Si dice; inoltre, che qualche "spiziali" usasse
leccare il bordo superiore delle bottiglie di sciroppo dopo averlo
versato: una sterilizzazione come un'altra!
La farmacia era divisa in due stanze; in una dove si ricevevano i
clienti e nel retrobottega dove si preparavano le medicine. Nella
stanza anteriore, oltre al tipico "bancuni c'erano scaffali chini o di
burnii è di buttigghi,:ognuna cù la so etichetta. C'era lu purganti, ca
era ogghiu di ricinu, lu chininu pi la malaria pirniciusa, lu sciroppu
pi la tussi" e così via, "lu spiziali vinnìa 'nzocchi avìa nni la
burnia" . Preparava le medicine .sotto ricetta del medico, che gli dava
le informazioni precise su quali erbe usare e in che quantità - anche
se, talvolta, "lu spiziali" fungeva da medico e quindi visitava e
prescriveva le medicine che riteneva più idonee .
Ad Alia due furono gli "spiziali " più famosi: i dottori Andrea
Cardinale e Giuseppe Giallombardo, due galantuomini entrambi, ma con
delle peculiarità alquanto differenti. Don Andrea era alto, slanciato,
aveva studiato giurisprudenza per qualche anno, prima di dedicarsi
totalmente alla medicina, e in ragione di questo suo passato di
avvocato, veniva consultato per risolvere piccoli problemi di origine
legale - problemi di "limmitu" , di furti di animali... Nella sua
farmacia si riuniva la classe intellettuale del paese - avvocati,
sindaco; professori..- ; lì si discuteva molto e si prendevano anche
importanti decisioni come, per esempio, la pena da assegnare ad
eventuali carcerati.
Il signor Giallombardo, invece, era un pò grassottello e, cosa più
importante, era segretario politico del fascio, perciò spesso "facìa
comizi": una possibile variante alla monotonia della vita di un
farmacista.
"Lu spiziali" , avrete capito, era un uomo d'alto rango, era infatti
uno dei notabili scelti dalla famiglia dello sposo "pi 'gghiri pi
matrimoniu", perché, per ovvi motivi, non gli si sarebbe. potuto
rispondere di no. La gente non lo avrebbe mai voluto contro.
Infatti. i primi soldi che si mettevano da. parte per pagare a fine
anno i conti lasciati in sospeso con i vari "putiari", erano proprio
quelli destinati a "lu spiziali" perché degli altri, bene o male, si
poteva fare a meno, ma con il farmacista si metteva in gioco la propria
vita.
Laura Seragusa
___________________________ pubblicato nel Periodico "La
VOCE" di Alia, nr.1/99, pag. 4
Lu craunaru
"La gnira Maricchia" vendeva carbone presso alcuni locali del principe
- quegli stessi che poi furono adibiti "a lu cinema", mentre "tntà la
vanedda sutta la Matrici era Luici Alberti" , marito della più famosa
"zà Sara" a vendere carbone e carbonella. Un sacco di carbone da 45
chili costava circa 30-40 lire, mentre uno di carbonella da 15 chili
veniva pagato 10 lire circa.
La vendita del carbone, però, era propria dei carbonai, per così dire,
di "secondo livello", quelli cioè. che, semplicemente, partivano dal
paese con i carretti e andavano nei boschi "a' la fossa di lu crauni" .
Lì potevano comprare il carbone già distribuito in sacchi da 100 chili,
alla modica cifra di 50 lire ognuno, per rivenderlo poi, quasi il
doppio, in paese, dove magari si aggiungeva anche qualche buona
manciata di terra - un po' di marrone, in fondo, non solo spezzava bene
con il nero del carbone ma ne rinforzava anche il peso...-.
"A 'la fossa" si trovava il vero "craunàru" , di "primo livello",
quello, cioè, che era addetto proprio alla preparazione del carbone -
"fu zi' Ninu o lu zi' Tanu Zimbardu " , per esempio - .
Il loro lavoro cominciava con la ricerca della materia prima: la legna.
Molti carbonari andavano a "granza" un bosco molto grande in provincia
di Messina. Lì la guardia forestale dava loro il permesso di tagliare
alcuni alberi, indicando precisamente quali, e così il primo problema
era risolto.
Gli alberi venivano ridotti in tronchetti "zucchi" da 60 - 70
centimetri o anche da un metro; quindi venivano accatastati l'uno
perpendicolarmente all'altro, in modo da formare alla fine una sorta di
piramide, che poteva raggiungere anche i due metri, detta "fossa".
Alla base di questa si lasciava una sorta di finestrella, creata da un
tronchetto, che si poteva togliere o inserire a seconda della
necessità, e da qui si dava fuoco con l'aiuto di un po' di "ramagghia".
A questo punto si " 'ntuppava lu purtùsu cu lu zuccu stissu ", si
faceva la " 'ncritata" una colata.di creta e rami che serviva "a nun
fàrici pigghiari aria". Due erano, infatti da evitare assolutamente:
uno che la legna "sbampassi " e diventasse subito cenere e l'altro che
il fuoco si spegnesse. Per questi motivi "a ggiru a ggiru" c'erano
altri buchi dai quali si controllava lo stato della legna e dai quali
si poteva introdurre la "ramagghia" per "arricivari" - non fare
spegnere - il fuoco.
Il carbone si creava grazie a questo lento consumarsi in sé di fuoco e
legna, un processo lungo e delicato che poteva durare da una a due
settimane - a seconda della quantità della legna - e che doveva essere
sorvegliato notte e giorno.
Al termine della cottura si "sfossava", ovvero: si tirava giù il
carbone a poco a poco, con l'aiuto "di li rastredda", e lo si spianava
"a lu largu" per farlo raffreddare, bagnandolo di tanto in tanto con un
pò d'acqua. Appena pronto si metteva nei sacchi di "marvuni" - corda -
e quindi si poteva vendere.
Dalla "scuzzulata" del carbone si otteneva anche una "minuzzagghia" che
veniva venduta come carbonella. Questa, comunque. poteva essere
preparata a parte: "u craunaru" faceva una buca nella terra dove
metteva rami. rametti, "alastri e ruvetta" e quindi, dava fuoco. Sul
primo strato aggiungeva altri rametti che "mazziava" con l'aiuto di un
bastone in modo da farli "accupàri iddi
stissi".
A forza di "mazziare", la carbonella già cotta finiva in profondità,
mentre altra legna veniva aggiunta finché la fossa non era piena. A
cottura ultimata "lu craunaru" tirava la carbonella dalla fossa, la
"vutava e sbutava e la sbrizziava" con l'acqua per farla raffreddare.
"Li craunàra", nel bosco. vivevano in una "pagghialora" e d'inverno si
riparavano "cu' na 'ncirata".
Il loro mestiere era pieno di sacrifici, ma potevano vantare di
guadagnare più dei contadini. Tanto per dissipare qualche dubbio
malsano sappiate che questi "craunara" non avevano niente a che vedere
con gli omonimi "carbonai" dei nostri "moti", né tanto meno con la
nostra ricca e gustosa " pasta alla carbonara", dato che la loro, di
pasta, prevedeva solo aglio, olio e, se c'era, "na saliatedda di
formaggiu".
Laura Seragusa
___________________________ pubblicato nel Periodico "La
VOCE" di Alia, nr.3/2000, pag.16
Lu vanniaturi
"Sintìti, sintìti...! Urdini di
lu sinnacu: nun si ponnu tèniri li maiali fora, nca sinno' c'è la
contraminzioni..."
Il bando esisteva già anteriormente all' età carolingia e riconosceva
al sovrano il potere di dare ordini di carattere precettivo o
proibitivo e di imporne l'osservanza, infliggendo ai trasgressori una
multa, cioè una sanzione pecuniaria, che nella misura normale era di
sessanta soldi, ma poteva essere moltiplicata fino raggiungere somme
assai elevate. Erano i banditori a dar voce alla notizia, a renderla
recepibile, insomma a fungere un pò da mass-media. Ad Alia, uno tra i
più famosi "vanniaturi" fu "lu zi Ninu l'orvu", il quale, sebbene fosse
cieco, girava tutto il paese, fermandosi ad ogni "cantunera" per
diffondere le più svariate notizie. "Lu vanniaturi"poteva essere
assunto sia dal Comune. che da privati. Nel primo caso, quando cioè
doveva fare un "bannu riali", prima di parlare, pardon, di urlare,
usava suonare un tamburo, nel secondo caso, invece, destava
l'attenzione con un semplice ma prolungato: "meeee"!
In tempi più recenti altri "vanniatura", quali ad esempio "Ninu l'orvu"
figlio, o Incerti Antonino, detto "spetta lu civu", erano soliti
suonare prima del bando una "trummetta", cioè un corno di rame dal
suono squillante.
A questo punto è lecito chiedersi quali notizie divulgasse "stu
vanniaturi".
Ebbene, un pò di tutto ! Nei bandi reali, avvisava la gente
dell'imminente mancanza d'acqua, o dell'inizio del periodo per la
vaccinazione, e ancora declamava ordini inerenti alla "gestione" degli
animali. I commercianti, specie quelli di generi alimentari,
solitamente, facevano pubblicizzare "da lu vanniaturi" l'arrivo di
merci fresche: carne appena macellata, pesce di giornata, ecc... E
infine, anche i privati se ne servivano per informare, per esempio,
degli smarrimenti del bestiame con allettanti offerte di "viviragiu" -
ricompensa - per chi lo avesse ritrovato.
"Lu bannu" richiedeva una tecnica particolare ed efficace, che sapeva
bene usare "lu vanniaturi". Questi, infatti, arrivato ad una
"cantunera", s'aggiustava tuttu , prendeva fiato, impostava la voce con
specifico uso del diaframma, metteva una mano alla "mascidda" - forse
per fungere da cassa di risonanza! - e con la testa rivolta al cielo
cominciava a "vuciari": Attenzione... la viva la viva! "Arrivaru sardi
frischi nna lu zi' Micheli.."
Ovviamente, non mancava mai qualcuno, che non avendo capito bene la
notizia, se la faceva ripetere "a sulu" dallo stesso "vanniaturi", che
non disdegnava mai di farla. La scuola di marketing americana insegna
ai venditori che bisogna urlare per essere efficaci e, di certo, "lu
vanniaturi" sapeva esserlo; inoltre poteva ritenersi ben fortunato
perché, quando - e capitava spesso! - doveva divulgare cattive notizie,
si ritrovava sempre e comunque protetto dalla saggezza popolare.Infatti
tutti sanno che "ambasciator non porta pena".
Laura Seragusa
___________________________ pubblicato nel Periodico "La
VOCE" di Alia, nr.4/98, pag.4
Il prof. Filippo Guccione uno scienziato nel campo della Medicina
Condusse una vita semplice, dedita agli studi accademici e alla famiglia. Ebbe grande devozione per la madre. I risultati delle sue ricerche ricevettero presto riconoscimenti e benemerenze scientifiche su scala nazionale ed internazionaleFilippo Guccione, illustre professore di Anatomia Patologica alla facoltà di Medicina dell'Università di Palermo, nacque ad Alia in via Nicotera il 21 dicembre 1887 da donna Antonina Parlavecchio (in dialetto Barravecchia) e da Giuseppe Guccione, agricoltore. Per gli aliesi era " lu Prufissuri di Donna Nina " cioè figlio di donna Antonina e nipote del dott. Sireci. E' questo un caso di matriarcato, le cui radici molto profonde nella storia della Sicilia, risalgono a tempi lontanissimi: anche ad Alia capitava spesso che i figli venissero indicati con il nome della madre, ma in pieno rispetto del padre, se la donna apparteneva ad una famiglia più nota o possedeva una personalità molto spiccata e quindi particolarmente conosciuta dalla gente. Abbiamo la certezza che a donna Nina apparteneva il palazzo comprendente l'intero isolato che da via Nicotera si affaccia su via Mazzini e quasi tutte le proprietà immobiliari dell'intera famiglia. Il giovane Filippo frequentò la facoltà di medicina presso l'Università di Bologna e conseguì - di sicuro brillantemente - quella laurea che poi gli avrebbe dato accesso alla cattedra di Anatomia Patologica nell'Ateneo palermitano. Il nostro professore era di statura media, bruno di carnagione, di corporatura robusta tendente alla pinguedine e di carattere schivo e solitario. Dagli studenti, futuri medici, pretendeva ottima preparazione:"il suo fare rigoroso e la voce un po' cavernosa gli procurarono la fama di professore estremamente esigente e che non accettava raccomandazioni. Condusse una vita molto semplice, tutta dedita agli studi ed alla famiglia di origine. I risultati delle sue ricerche ricevettero riconoscimenti e benemerenze scientifiche su scala nazionale ed internazionale e contribuirono a far conoscere la Facoltà di Medicina dell'Ateneo palermitano come una delle migliori d'Italia. Negli anni cinquanta, il nome del direttore della clinica Filiciuzza, prof. Filippo Guccione assurse agli onori della cronaca giornalistica nazionale per aver risolto il clamoroso caso Lo Verso, un medico che, avendo avuto l'idea di liberarsi della moglie somministrandole diabolicamente delle gocce di cianuro in dosi piccolissime e per un lungo periodo, sarebbe sfuggito alla giustizia se non fosse incappato nella perizia scientifica affidata al nostro professore che ne dimostrò la piena colpevolezza e ne determinò la severa condanna. Ad Alia risiedeva tutto il suo mondo affettivo: Rosalia, Bettina, Maria, Angela ed Elvira erano le cinque sorelle tutte nubili che trascorsero l'esistenza prendendosi cura dell'amministrazione delle cospicue proprietà di Mazzaporro (Marcatobianco), Passucuncetta, Marcatu e Acqua lunga. Queste donne, molto religiose e vicine alla chiesa, vivevano soprattutto aspettando ogni fine settimana il rientro a casa del prestigiosissimo fratello che ad Alia riverivano e salutavano con un "Voscenza benedica" e lui rispondeva "salutamu". Il nostro caro Vincenzo Dispenza da Baton Rouge, - USA - da ragazzino era "di casa" presso le signorine di donna Nina e ci fa sapere che per ben tre anni, ogni sabato a mezzo giorno, si recava alla fermata della corriera al “Cozzo della Piazza" per accogliere il professore aiutandolo a portare la nota borsa di cuoio. Al piccolo Vincenzo era affidato anche il compito di portare al parroco della Matrice il vino per le celebrazioni eucaristiche: lui, in cambio riportava alle signorine belle parole di ringraziamento esaltanti la bontà del vino fatto con l'uva di Passucuncetta. Le signorine di donna Nina, vere gentildonne aliesi, furono generose con chiunque si rivolgesse loro e con la Chiesa tanto da rendersi benemerite del restauro della Cappella del Santissimo. A loro fu riservato il massimo onore di tenere in custodia il Tesoro della Matrice. Alla fine di una lunga vita se ne andarono forse senza aver mai lasciato Alia per un solo giorno. Il Professore, che si dichiarava non credente, ebbe una grande devozione per la madre; fu filantropo di animo buono e generoso; la gente lo ricorda per la sua disponibilità professionale, per i tanti consulti medici prestati e le cure gratis offerte ai suoi concittadini affetti da gravi malattie. Il nostro parroco, don Antonino Di Sclafani, ricorda che a volte al mattino della domenica, lo si vedeva a cavallo della sua giumenta e scortato da qualcuno a piedi, dirigersi verso la casa di un malato residente nelle scoscese vie del Rapatello. Allo stesso modo delle sorelle egli si spense di vecchiaia tra le mura domestiche: era il 2 febbraio 1976 e puntuale suonò l'agonia alla Matrice, a Sant’Anna e a San Giuseppe, le tre chiese alle quali sono legati tanti nostri ricordi, spesso resi belli dalla magia della memoria. Perché non intitolare una strada al nostro illustre concittadino?
Filippo Chimento
___________________________ pubblicato nel Periodico "La
VOCE" di Alia, nr.1/2010, pag.13 _______________________________________________________________ ...ecco che cosa scrive anche Liborio Guccione, giornalista e scrittore aliese, nel suo libro "Giorni vissuti come fossero anni", sulla figura del Prof. Filippo Guccione.
” Non posso chiudere questo capitolo dedicato ai ricordi di personaggi, ambienti e situazioni che nei particolari e nell'insieme, scorrendoli ora con la penna, mi riempiono ancora l'animo di tenerezza e di voglia di rivivere quel tempo che sembra così tanto lontano, senza ricordare una figura che onora la storia di Lalia e la sua comunità.
Parlo del professore Filippo Guccione, emerito ed insigne docente dell'Università di Palermo, dove insegnò Anatomia Patologica. Fu studioso di risonanza nazionale e internazionale. Le sue benemerenze scientifiche, il suo patrimonio culturale nel campo della ricerca medica ancor oggi costituiscono fonti di apprendimento. Mi auguro che gli aliesi abbiano saputo onorarne la memoria, additandolo alle presenti e future generazioni, come uomo che seppe onorare il suo paese. Io lo ricordo a me stesso, ma in queste pagine ho voluto ricordarlo anche per tutti a tutti.
Egli viveva a Palermo, ma tutti i sabati tornava al suo paese: in treno da Palermo giungeva sino alla stazione ferroviaria di Roccapalumba e poi la corriera lo portava a Lalia. Attraversava le strade che da S. Rosalia conducevano alla sua abitazione, portando con sé una borsa, uguale a quella che a quei tempi soleano portare i barbieri con dentro i loro attrezzi del mestiere, quando andavano a servire i clienti a domicilio. Lungo il cammino la gente incontrandolo si levava la "cuòppula", salutando con rispetto il professore, ed egli rispondeva a tutti, sempre con lo stesso saluto: «salutàmu!».
Veniva in paese perché era legato ad esso da affetto e perché vi vivevano le sue quattro sorelle, tutte zitelle, che trascorrevano la loro vita nel chiuso della loro bella casa che si trovava proprio di rimpetto alla mia dimora.
Era raro vederle, semmai si poteva intravederle quando alla Domenica uscivano per andare a messa: percorrevano la strada che dalla loro casa costeggiava il «cozzo», sino ai piedi della monumentale Matrice; entravano e uscivano dalla «porta fausa», quasi inosservate.
Il professore, durante i due giorni che trascorreva in paese, usciva raramente, solo per andare alla Tabaccheria di Catalano a comprarsi le sigarette (era un accanito fumatore!); non aveva molti contatti con la gente, anzi era piuttosto burbero, ma sapeva essere anche spontaneo e alla mano, come suol dirsi, quando gli si presentava l'occasione. E non di rado se qualcuno bussava alla sua porta e chiedeva un consulto medico per i suoi malanni o per quelli di un proprio congiunto, il professore non si rifiutava. E del suo parere scientifico i medici del paese, naturalmente, tenevano un gran conto.
Come professore aveva fama di essere severo, sino ad essere perfino temuto dagli studenti. Ci fu qualche caso di aspirante medico che non riuscendo a superare l'esame di Anatomia Patologica col professore Guccione, (un esame, per sé stesso, assai difficile, quanto fondamentale per l'apprendimento della scienza medica), preferì cambiare facoltà o, addirittura, Università, piuttosto che trovarsi a cospetto del severo docente.
Ma di questa sua severità, di questo suo rigore morale e culturale si sono avvalsi tanti medici della Sicilia per essere poi affidabili professionisti.
Una volta azzardai a domandargli perché fosse così severo coi suoi studenti, ed egli, dopo avere lungamente aspirato una boccata di fumo dalla sua immancabile sigaretta Nazionale, mi disse con la sua voce cavernosa: «perché io preparo medici, non macellai. «Il medico» - mi disse - «può operare con coscienza solo se ha sufficiente scienza. Gli viene affidata la vita degli uomini». «Ecco» - concluse - «perché sono, anzi, dicono che sia rigoroso». Lo rammento con riverenza e affetto.”
Liborio Guccione
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