Fonti documentali: Periodico "La VOCE" di Alia; Rubrìca "Sportello delle Civiltà" del Sito Web It Alia www.assarca.com
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La Mammana
Il pianto
di un bimbo che nasce è sempre motivo di stupore, si tralasciano i vari
psicologisrni che lo vorrebbero pianto di dolore, per l'abbandono della
condizione di simbiotica beatitudine con la madre, e si gioisce del
pianto perché primo segnale di una nuova vita.
Questa
gioia. a parte alle madri, è concessa ad un' altra figura fondamentale,
che "tempu anticu" era detta "la mammana", che poi diventò "la
levatrici" che oggi infine è l'ostetrica. "Le mammane" imparavano il
loro mestiere, nel migliore dei casi, seguendo una sorta di "corso
professionale" che si svolgeva presso alcuni ospedali di città: alla
fine di questo "stage" ricevevano un attestato che le abilitava alla
professione.
In altri
casi - forse i più comuni - imparavano dalla semplice osservazione
delle "levatrici". più esperte - magari le loro madri - che avrebbero
trasmesso loro tutti i segreti di questo mestiere; o, ancora poteva
succedere che, in certe circostanze d' emergenza, fossero il bisogno e
la necessità a farla da padrone e così, volenti o nolenti, ci si doveva
improvvisare ostetrici e alla fine anche i più fifoni, di fronte alle
doglie di una partoriente, avrebbero dovuto fare del loro meglio - si
pensi per esempio alla figlia di "Mamy" in "Via col vento".
Erano,
infatti, tempi duri per quanto riguarda la "comunicazione a distanza" o
i servizi di trasporto. Immaginate che poteva anche capitare di
partorire nel bel mezzo di una passeggiata in campagna…Nei casi
migliori invece, la futura mamma veniva curata ben benino a casa
propria. Le si preparava un buon "brodu di palummieddu cauro", qualche
bicchiere di cognàc come anestetico, panni caldi e acqua disinfettata
con le pillole di "sublimato".
A quel
punto era il turno della madre e del piccolo nascituro e, tra le attese
del padre e dei parenti più prossimi, tra i consulti del vicinato e i
loro pronostici sul sesso del piccolo, tra l'eccitazione dei bambini
mandati fuori ad aspettare col naso in sù l'arrivo della cicogna,
finalmente si sentiva il sospirato pianto, una bottarella sulle
spallucce e la dichiarazione definitiva: "è un maschio!" oppure: "è una
femminuccia!" - e, si sa, nel secondo caso non era proprio quello che
si sarebbe detto un lieto evento! -.
Le
levatrici, a questo punto, si preoccupavano di pulire madre e bambino e
di sistemare con un po' di seta l'ombelico del piccolo. Questa
operazione, pare fosse particolarmente significativa., e ancora di più
il suo risultato finale; ad Alia si dice, infatti, che si "lu uddìcu
talìa a 'gghiri a muntata, è genti allegra e fortunata" si talìa a
'gghiri a pinnina sunnu sfurtunati d'ammatina". Il compenso andava
dalle 25 alle 50 lire, accompagnato - o sostituito - da qualche regalo
"in natura" - formaggio, vino, uova, galline...- . Per chi si trovava a
corto di liquidi o di altri beni, alias era povero, esisteva una
"mammana" pagata dal Comune detta "la cumunali".
Al momento
del battesimo, "la mammana" teneva il bimbo tra le braccia e gli
scopriva il capo per la benedizione. I padrini, quindi, avevano l'onere
di fare un regalo - possibilmente in denaro - sia a lei che "a lu
parrinu chi vattiava e a lu saristanu chi dava fuocu", in questo ultimo
caso il regalo-compenso era proporzionato al numero di candele che
accendeva. A volte, la povertà o il lutto recente facevano sì che "lu
picciriddu " fosse "vattiatu a lu scuru", e quindi con la breve luce di
una sola candela.
"A tiempu
anticu a l'Alia c'erano due mammane: la za' Giustina, ca' era cumunali,
e la signura Amalia ca ' mmeci era privata. La za' Giustina" si ricorda
come una infaticabile signora "cu la vistina a cintu e lu falari e, nni
la sacchetta, la pastigghia di sublimatu" che tirava fuori
all'occorrenza per disinfettare l'acqua "di lu vacili" con cui avrebbe
lavato madre e bambino. Le proprie mani e un paio di forbici, un po'
d'acqua e qualche panno caldo, gli unici attrezzi del mestiere e, se
proprio fosse servito il medico, nel caso, per esempio, di qualche
complicazione, si poteva sempre chiamare "lu dutturi Napuli".
Senza
dubbio un mestiere delicato quello della "mammana" , della "levatrice"
o dell'ostetrica che dir si voglia, delicato e pregno di segreti, come
quelli legati alle "nascite clandestine". A proposito…si vocifera che
qualcuno stia cercando un "fatidico quaderno" in cui queste nascite
sarebbero state segnate…perciò state bene attenti, drizzate le orecchie
e aguzzate lo sguardo perché, tra qualche giorno, potremmo vederne
delle belle!
Laura
Seragusa
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pubblicato
nel Periodico parrocchiale "La VOCE" di Alia, nr.3/99, pag. 13
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Lu 'zzi
Minicu saristanu
A cinquant'anni dall'elevazione
a Santuario della nostra chiesa Madre e la contemporanea pubblicazione
di un numero speciale del nostro periodico, penso sia doveroso
ricordare in queste pagine la figura di un sacrista d'eccezione che ha
operato nella nostra parrocchia.
Il mio pensiero va a Domenico
Scaccia, da tutti chiamato lu 'zzi Minicu saristanu.
Nacque ad Alia il 18 Luglio 1893, sposato con Giuseppa Cortese da cui
ebbe quattro figli, di cui tre femmine e un maschio. Fin da
giovanissima età fece il sacrista insieme al padre, Antonino, dapprima
nella chiesa di San Giuseppe, successivamente alla Matrice dove lavorò
per circa 50 anni.
Quali erano le sue mansioni?
Non tutti le conoscono, anche perché da diversi anni la nostra chiesa è
priva di questa figura, I suoi compiti riguardavano la pulizia e il
decoro, la sorveglianza della chiesa sia di giorno che di notte. Era
presente alle cerimonie liturgiche più importanti, indossando veste
talare e cotta, collaborando con il sacerdote durante tutte le funzioni
liturgiche. Era incaricato anche del suono delle campane e della carica
dell'orologio.
Più volte, quand'ero ragazzo,
andavo con lui sul campanile per gustarmi in diretta il suono delle
campane e per ricaricare l'antico orologio con la manovella.
Ogni notte dormiva in chiesa
nel suo alloggio ricavato in uno sgabuzzino dietro il fonte
battesimale, entrando in chiesa a destra. Qui aveva sistemato un
lettino con accanto il suo inseparabile fucile o fucuni - come lui era
solito chiamarlo - per proteggere la Chiesa da male intenzionati. Nel
suo giaciglio trascorreva le notti fino alle 4 del mattino, quando,
dopo aver suonato 'u patri nostru, raggiungeva la propria casa.
Aveva un aspetto severo, ma era
solito ridere sotto i baffi. Un uomo dall'animo buono. Era lo
spauracchio per i chierichetti e i ragazzi di Azione cattolica: se
qualcuno si comportava male in chiesa durante le funzioni o il
catechismo, subito si sentiva la frase: guarda ca chiamu lu 'zzi
Minicu! Bastava ciò perchè tornasse tutto alla normalità.
Collaborò con diversi parroci:
da monsignor Chimenti al parroco Abate, da padre Botindari all'attuale
parroco Disclafani. Svolgeva il suo ruolo con particolare dedizione.
Era il braccio destro del clero. Suggestiva ad opera sua la "calata"
della grande tenda la notte del sabato santo, allorquando, su una sedia
normalmente traballante, tirava già la corda che teneva l'enorme telo,
dietro il quale appariva la statua del Cristo Risorto, posta in alto al
centro dell'altare maggiore. La scena, che provocava tanta emozione tra
i fedeli, lo rendeva protagonista principale della notte di Pasqua.
Finita la guerra, nel rispetto
della tradizione familiare, il figlio Nino, reduce dal fronte, diventò
un diretto collaboratore del padre per, successivamente, sostituirlo.
Lu zzi Minicu Scaccia moriva il 26 maggio 1965.
Rino
Concialdi
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pubblicato nel Periodico
parrocchiale "La Voce", nr.2/2007, pag.24
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Lu urdunaru e la sò riétina
Forse pochi di voi ricorderanno e molti altri forse non conosceranno
affatto la figura di "lu urdinaru". Lu urdinaru era chiamato così
proprio perchè il suo compito fondamentale era quello di ordinare, o
meglio, coordinare le "riétine" dei muli che, in estate dovevano
trasportare i prodotti della terra dagli appezzamenti dei ricchi
possidenti - nobili o borghesi - ai magazzini degli stess; in
inverno, invece, trasportavano le sementi.
I muli - che ovviamente non appartenevano agli "urdinara " ma ai loro
padroni - procedevano in fila indiana legati uno dietro l'altro con una
grossa corda, da qui il nome "riétina". Ogni "riétina" era composta da
circa 9 muli di cui otto erano adibiti al trasporto dei frutti della
terra - grano, orzo, fave, ecc..- , che venivano posti in grosse
"visazze" e "visazzotte" e queste a loro volta, sulla schiena dei muli;
il nono mulo, invece, detto "caporétina", trasportava "lu urdinaru".
Il mestiere dell' "turdinaru" era molto duro: si soleva dire che "s
'avia 'a susiri di stidda in stidda", infatti si metteva in cammino
appena "affacciava la puddara" - il piccolo carro - e si ritirava alla
"stidda di l'Avi Maria". In verità non dormiva quasi mai . A sera,
fatti rientrare i muli nella stalla, doveva pensare prima al loro
pasto, poi al suo. Cominciava, quindi, a sistemare la paglia nelle
mangiatoie e finalmente poteva assaporare il suo tanto atteso piatto di
pasta, non senza un sorso di buon vino.
A questo punto, illuminato da una candela ad "arsolio" - petrolio - , e
seduto sul suo morbido letto ..., che altro non era se non "la
ghiuttena" - una panca fatta di pietra ricoperta di pelle di pecora -,
prima di concedersi il meritato riposo, doveva riparare le "visazze" e
le "visazzotte " che, essendo fatte di "lona" - canapa -, potevano
anche strapparsi. Per fare questa rammendatura, utilizzava "a
zzaccurafa" - un ago molto lungo e grosso - e lo spago.
Finalmente era l'ora del sonno, muli permettendo!
Infatti, quelle docili bestioline avevano la simpatica abitudine di
cominciare a "trippare", a litigare e a scalciare, finchè "l' urdinaru"
era costretto ad alzarsi per "arrifriscare" loro la paglia, cioè dare
una mescolata alla paglia aggiungendone di nuova.
Una volta al mese, " l' urdinaru" aveva la "vicenna" , un giorno in cui
gli era concesso di tornare a casa, anche per cambiare i propri, ormai,
sudici abiti.
La sua retribuzione era "lu partutu" che consisteva in un tot di olio,
frumento, pane, formaggio, vino e anche un pò di denaro.
"Li urdinara" più ambiziosi "armàvano" i muli con "cianciani" ,
"lanigghi" e "fruntala ", ossia con campanelle. pon-pon di lana
variopinta e con cordelle colorate che servivano per adornarne la
fronte. Le spese per questi abbellimenti erano tutte a carico dell'
"urdinaru " e qualora non le avesse sostenute sarebbe stato giudicato
"udinaru tintu ".
La gente poteva percepire da lontano l'arrivo delle "riétine" a causa
del rumore delle campanelle e poteva anche distinguere il suono di una
"riétina" da quello di un' altra: lo squillante tintinnio delle
"riétine" del Cavaliere Guccione - che ne possedeva otto o più - , era
facilmente distinguibile da quello più pacato della "riétina" di donna
Nina Guccione.
A questo punto avrete certo capito quanto fosse sacrificato il
nostro urdinaru , era però rassegnato e la durezza del lavoro
nell'atmosfera bucolica dei nostri monti, non poteva che trasformarsi
in poesia:
"Guarda chi vita fa lu urdinaru,
'ca notti e jornu camina a lu
scuru,
metti a pigghiari capizzi di li
mura,
e la so vita è sempri china di
dulura".
Laura Seragusa
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pubblicato nel Periodico parrocchiale "La VOCE" di Alia, nr.1/96, pag. 6
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Teresa
Arrigo
La signorina Teresa
Arrigo, eccezionale maestra di vita.
Curava la
formazione dei fanciulli non soltanto sotto l'aspetto religioso, ma
anche preoccupandosi della loro educazione civica e della loro
preparazione scolastica.
Non
so quale titolo di studi avesse; so di certo che avendo una bella casa
con giardino, la metteva a disposizione dei bambini della Parrocchia i
quali vi si riunivano settimanalmente durante il periodo scolastico.
Certamente questa Bella Persona possedeva una grande propensione alla
maternità ed una notevole spinta al sociale. Fiamme Bianche, Fiamme
Verdi, Fiamme Rosse ed Aspiranti, erano chiamati i gruppi di Azione
Cattolica curati dalla signorina Teresa Arrigo (nella foto, tra i fiori
del suo giardino), collaborata da tante assistenti.
Con particolare affetto,
ricordo, la signorina Anna Andollina, che, con il suo sorriso luminoso,
regalava a noi bambini quella dolcezza carente spesso nelle famiglie,
dove, le mamme erano troppo stanche per la numerosa prole da tirare su,
per i lavori di casa e di campagna che non davano tregua. Quelli erano
gli anni `40 - '50 quando Alia contava circa diecimila abitanti, e
tanti erano i bambini.
La
signorina Teresa curava la formazione dei maschietti dai cinque ai
quattordici anni, non soltanto sotto l'aspetto religioso. Infatti, la
sua casa, più volte la settimana, diventava una piccola accademia dove
disegnare, colorare, mandare a memoria i quaderni del catechismo,
leggere ed esporre brani biblici, cantare e recitare. Queste erano le
attività principali. Vi si riunivano figli di contadini, artigiani,
impiegati, braccianti, decorosamente poveri, quasi tutti allo stesso
modo, cui veniva offerta una ricca opportunità educativa: essi si
trasmettevano vicendevolmente esperienze di gioco, di vita scolastica e
familiare. Le famiglie erano contente di vederci crescere insieme, di
sentirci esprimere con un linguaggio più ricco e soprattutto di vederci
sognare il nostro futuro con al centro la famiglia, il lavoro,
l'impegno scolastico.
Così
iniziava la storia di uomini e di donne, di famiglie, di lavoratori i
quali, forti della formazione strutturatasi all'ombra di quella chiesa
costruita sulla roccia, avrebbero espresso la propria personalità e
creatività nei più svariati settori produttivi e professionali. E' la
storia di ciascuno di noi, vicini e lontani, che con la stessa fede dei
nostri padri, costruttori del Tempio Sacro dedicato a Maria Santissima
delle Grazie, ci sentiamo come loro eredi, orgogliosi custodi del
Santuario. E' soprattutto la storia di tante persone che, operando nel
silenzio all'interno della nostra piccola comunità parrocchiale,
proprio come Teresa Arrigo, donano agli altri senza chiedere nulla in
cambio.
Filippo
Chimento
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pubblicato nel Periodico
parrocchiale "La VOCE" di Alia, nr.2/2008
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Il Siciliano di Nonna Rosa
Il
siciliano di nonna Rosa scorreva limaccioso ed esotico come il
Mississippi River, dalle cui foci l'ava proveniva, e suonava forestiero
non solo a chi, come me, era nuovo alla vita e alle frequentazioni, ma,
anche, a chi aveva, con lei, lunga dimestichezza.
Il suo "cockney", frutto di
personale elaborazione, non era più gestito nell'ampio spazio di
percezione delle campane della sua americana Saint Mary, bensì in
quello, più limitato, del suono della campanella dei Sacri Cuori, che
la chiamava alla Messa Cattolica di Patri 'Ucciuni.
Il suo era un "cocktail" di
parlate neo latine, anglosassoni e creole, centellinato con lo stesso
amore con cui delibava il vino maritale della vigna di Li Timpi. Era
l'impasto di uova, petrosino, cipolla, cacio, carne o pesce,
peperoncino, pronto, nel "lemmo", per essere trasformato in polpette,
nel quale, affondavo tre ditini congiunti, a mo' di gancio, per
riempirmi la bocca, lasciando trasecolata la gatta rosciana di nonna.
Il suo farraginoso e composito
eloquio aveva un forte potere evocativo. Una folla di persone, senza
tempo, veniva fuori dalle sue parole, prendendo corpo e muovendosi, a
guisa di elisie anime: il padre, Giò Purpera, padrone di pescherecci a
Tusa e, boss, in Louisiana, la sempre invocata, madre, Maddalena Greco,
il fratello maggiore, Vicienzu, le due sorelle, Francis e Sara, spose
dei loro primi cugini Cefalù; Margherita, sorella del cuore, in
corrispondenza epistolare con nonna, in una lingua transnazionale, ma
di chiara origine occidentale, dall' ossimoro di una calligrafia "a
peri di jaddina", dacché il figlio Giò, di soli sedici anni, era
fuggito per l'America, riparando dalla zia, nell'ancestrale New Roads;
il fratello più piccolo, Charly, coetaneo e compagno di giuochi di papà
e di zio, tirato su, si può dire, da nonna, assieme ai figli, sino a
pochi momenti prima del traumatico distacco della sorella, della
figlia, della cugina, della nipote, dal già consistente numero di
membri della patriarcale famiglia dei Purpera, per seguire, novella
Creusa, il marito, in un ritorno, se si vuole, paradossale e
controcorrente, se non fosse avvenuto il quale, però, bene o male, non
saremmo qui a scrivere.
La sua lingua, barocca, come la
sua cucina, ma piena di principi attivi, mi ha sostenuto nel periodo
della fanciullezza e della lunga e inquieta adolescenza, e nel momento,
per me critico, del freddo transito dal dì alla notte dei pomeriggi
invernali, quando, avvicinandomi al braciere, in cerca di calore, lei,
dolcemente mi preveniva nel sinestetico, rituale, atto di "arriminari
lu luci", e mi mostrava come la "tassùra" facesse appiccicare la cenere
alla paletta.
L'involontario riaffiorare di
parole come "dense-Milk", "cciànza" - chance -, "burcetta ",
"giannetta", di locuzioni come " 'Un essiri grieviu", "Chi nick e
nack", "Si vesti comu 'na nunna", di topònimi, come "Niùrùd" - New
Roads -, "Novalenza" - New Orleans -, "Pittinèu" , "Pèttini Russult" -
Baton Rouge -"Bàciala"- Batchelor -, "Morganza, Roccaurci "- raccourci
-, ricorrenti nel suo discorso, mi fanno trasalire e mi riportano,
vicino a lei al calduccio del braciere, io di sessanta e nonna di
centoventi.
Il suo dialetto era una
squisita e composita "ruit salade", dagli effetti inebrianti. Era il
bel piatto di patate fritte, condito con sale e aceto, alla maniera
ariscia, ma senza pesce, o con lo zucchero di canna, alla cajun, o con
zucchero di barbabietola, all'alisa, per rimediare alla lamentata
mancanza delle patate americane.
La lingua di nonna era il suo
fumante minestrone che faceva prudere il naso a papà, che, dopo novant'
anni, della fanciullezza, a Pointe Coupee, ricorda il solo zio Charly,
per aver litigato, con lui, per una "rumariddina", sino a pochi minuti
prima di partire.
Era il suo odoroso brodo di
carne, dai cento elementi vegetali e animali; forse il più qualificato
simbolo della sua ibrida e sostanziosa lingua. E mentre digito,
tentando un atterraggio all'americana, per concludere questo breve
viaggio nella memoria affettiva, invano cerco di ricordarmi di una
"fruit salade" infantile, con cui l'allusiva e paziente ava rispondeva
alla nostra richiesta di monetine da cinque e da dieci, di cui eravamo
alla continua ricerca, in quello scorcio di tempo tra i '40 e '50. Di
essa, però, non mi sfugge l'inizio: "E papa ghive nickell - E mama
ghive nine - E nona dòn un pìcci'...", la cui esegesi sarebbe difficile
a chi non avesse la minima idea, del crogiuolo di razze e di lingue che
era la Louisiana, a cavallo tra l'8 e il 900.
Didacus
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pubblicato nel Periodico
parrocchiale "La VOCE" di Alia, nr.3/04, pag.3
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