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retaggio delle genti.com. divulgazione culturale su particolari aspetti di località e di vissuta umanità.
 
Comunità . Località: ALIA (Sicilia)
Ambito di Ricerca:Aspetti sociali, in genere:::

Personaggi aliesi di una volta_3
 
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"lu tammurinaru"

"... Brèbbiti brè, Brèbbiti brè, brèbbiti, brèbbiti, Brèbbiti brè..."

Non so fino a che punto le sillabe riportate qui sopra vi saranno chiare, ma se provate a sonorizzarle, forse non vi sembreranno più così bizzarre e vi ritroverete per caso ad imitare "lu tammurinu". Il tamburo è uno strumento antichissimo e di larghissima diffusione sia in seno alla civiltà  occidentale che nelle culture di interesse etnologico. I tamburi tradizionali sono di tipo bipelle a fusto cilindrico in cui l'elemento vibrante è la pelle superiore chiamata "battitoia" mentre l'altra, che vibra per simpatia è detta "bordoniera"; con il nome di "fascia" si indica il fusto di legno che ne forma il corpo di risonanza.

In alcuni paesi, ancora oggi, è il suono del tamburo a diffondere nell'aria quell' atmosfera frizzantina, densa di eccitazione tipico preludio della prossima festa. Il fascinoso musicista che si avvaleva di uno strumento così semplice, eppure così particolare, era detto "tammurinaru". "Lu tammurinaru" la vigilia della festa, si alzava presto e girava per le strade deI paese rullando sul suo tamburo "per una parte più e meno altrove" a seconda dell'audience a sua disposizione. Laddove, infatti, sapeva di trovare qualche buon cristiano disposto ad offrirgli da bere, si lasciava andare in una "tammuriniata"più lunga.

Quando c'era una festa di particolare importanza come per esempio la festa patronale, uscivano per le strade del paese fino a tre "tammurinara". C'erano alcuni fondamentali momenti della festa che dovevano essere assolutamente accompagnati dal rullare del tamburo: l'inizio della messa, il momento della consacrazione, la fine della messa e la processione. Durante la processione ogni "tammurinaru" camminava davanti la propria confraternita - solitamente erano quattro - : Sant'Anna, San Giuseppe, la Madonna e il Sacramento.
Ad Alia tra "li tammurinara" più famosi si ricordano i Taulli: "lu su Giuvanni, lu su Turiddu e Ninu" e ancora "lu tammurinaru" Minnella, reduce da una singolare esperienza.
Racconta, infatti, lo stesso signor Minnella di essere stato "allampato" e quindi salvato miracolosamente dalla Madonna, alla quale, in seguito, avrebbe promesso vita natural durante, il suono del suo tamburo... e ancora oggi lo si sente suonare, sebbene ormai trascini a fatica le sue membra stanche.
Ovviamente il mestiere di "lu tammurinaru" non era particolarmente redditizio, perchè legato a brevi periodi dell' anno, e quindi "li tammurinara" , solitamente, erano anche dei contadini. Il giorno della festa erano invitati a pranzo dal "tesoriere" colui il quale, cioè, si occupava di "cògghiri" per la festa. Un pranzo abbondante, ma non tanto quanto quello di "li virgineddi" che si teneva per il giorno di San Giuseppe e che era il pranzo più atteso di tutto l'anno.

"Li virgineddi" erano 13 bambini vestiti di bianco che insieme ad altri due figuranti, di circa 16 anni, nelle vesti di San Giuseppe e della Madonna, con tanto di Gesù Bambino, giravano nel giorno della festa di San Giuseppe per il paese preceduti da "lu tammurinaru". Dopo aver a lungo camminato, si ritrovavano a bussare infine, alla porta dell'organizzatore - una sorta di mecenate della festa per devozione - che puntualmente rispondeva: "nun c'è locu nun c'è lucanna va itivinni a nautra banna". Questo si ripeteva per ben tre volte. La terza, però, era quella buona che permetteva l'ingresso di "li virgineddi" e di "lu tammurinaru" in casa dell' organizzatore, dove li aspettava un pranzo davvero luculliano.

Laura Seragusa
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pubblicato in "La VOCE" di Alia, nr.3/98, pag.17


"lu craunaru"

"La gnira Maricchia" vendeva carbone presso alcuni locali del principe - quegli stessi che poi furono adibiti "a lu cinema", mentre "'ntà  la vanedda sutta la Matrici era Luici Alberti" , marito della più famosa "zà  Sara" a vendere carbone e carbonella. Un sacco di carbone da 45 chili costava circa 30-40 lire, mentre uno di carbonella da 15 chili veniva pagato 10 lire circa.

La vendita del carbone, però, era propria dei carbonai, per così dire, di "secondo livello", quelli cioè che, semplicemente, partivano dal paese con i carretti e andavano nei boschi "a' la fossa di lu crauni" .

Là potevano comprare il carbone già  distribuito in sacchi da 100 chili, alla modica cifra di 50 lire ognuno, per rivenderlo poi, quasi il doppio, in paese, dove magari si aggiungeva anche qualche buona manciata di terra - un po' di marrone, in fondo, non solo spezzava bene con il nero del carbone ma ne rinforzava anche il peso...-.

"A 'la fossa" si trovava il vero "craunaru" , di "primo livello", quello, cioè, che era addetto proprio alla preparazione del carbone - "fu zi' Ninu o lu zi' Tanu Zimbardu " , per esempio - .
Il loro lavoro cominciava con la ricerca della materia prima: la legna. Molti carbonari andavano a "granza" un bosco molto grande in provincia di Messina. Là la guardia forestale dava loro il permesso di tagliare alcuni alberi, indicando precisamente quali, e così il primo problema era risolto.

Gli alberi venivano ridotti in tronchetti "zucchi" da 60 - 70 centimetri o anche da un metro; quindi venivano accatastati l'uno perpendicolarmente all'altro, in modo da formare alla fine una sorta di piramide, che poteva raggiungere anche i due metri, detta "fossa".

Alla base di questa si lasciava una sorta di finestrella, creata da un tronchetto, che si poteva togliere o inserire a seconda della necessità , e da qui si dava fuoco con l'aiuto di un po' di "ramagghia".

A questo punto si " 'ntuppava lu purtusu cu lu zuccu stissu ", si faceva la "'ncritata " una colata.di creta e rami che serviva "a nun fàrici pigghiari aria". Due erano, infatti da evitare assolutamente: uno che la legna "sbampassi" e diventasse subito cenere e l'altro che il fuoco si spegnesse. Per questi motivi "a ggiru a ggiru" c'erano altri buchi dai quali si controllava lo stato della legna e dai quali si poteva introdurre la "ramagghia" per "arricivari" - non fare spegnere - il fuoco.

Il carbone si creava grazie a questo lento consumarsi in sè di fuoco e legna, un processo lungo e delicato che poteva durare da una a due settimane - a seconda della quantità  della legna - e che doveva essere sorvegliato notte e giorno.

Al termine della cottura si "sfossava", ovvero: si tirava giù il carbone a poco a poco, con l'aiuto "di li rastredda", e lo si spianava "a lu largu" per farlo raffreddare, bagnandolo di tanto in tanto con un pò d'acqua. Appena pronto si metteva nei sacchi di "marvuni" - corda - e quindi si poteva vendere.
Dalla "scuzzulata" del carbone si otteneva anche una "minuzzagghia" che veniva venduta come carbonella. Questa, comunque. poteva essere preparata a parte: 'u craunaru" faceva una buca nella terra dove metteva rami. rametti, "alastri e ruvetta" e quindi, dava fuoco. Sul primo strato aggiungeva altri rametti che "mazziava" con l'aiuto di un bastone in modo da farli "accupari iddi stissi".

A forza di "mazziare", la carbonella già cotta finiva in profondità , mentre altra legna veniva aggiunta finchè la fossa non era piena. A cottura ultimata "lu craunaru" tirava la carbonella dalla fossa, la "vutava e sbutava e la sbrizziava" con l'acqua per farla raffreddare."Li craunara", nel bosco. vivevano in una "pagghialora" e d'inverno si riparavano "cu na 'ncirata".

Il loro mestiere era pieno di sacrifici, ma potevano vantare di guadagnare pIÙ dei contadini. Tanto per dissipare qualche dubbio malsano sappiate che questi "craunara" non avevano niente a che vedere con gli omonimi "carbonai" dei nostri "moti", nè tanto meno con la nostra ricca e gustosa " pasta alla carbonara", dato che la loro, di pasta, prevedeva solo aglio, olio e, se c'era, 'na saliatedda di formaggiu".

Laura Seragusa
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pubblicato in "La VOCE" di Alia, nr.3/2000, pag.16




"Jachinu l'uorvu"

"Oh, io scrivo, scrivo e la mia mente galoppa lungo il sentiero di tanti altri ricordi, mi richiama altre immagini, personaggi, situazioni che popolarono il mio tempo. Ecco, per esempio, un personaggio che mi si affaccia alla mente: Jachinu (Gioacchino) «l'uorvu», una figura mite, silenziosa, che passava per le strade del paese quasi inosservato. Un uomo alto, robusto, un viso largo che metteva in mostra i baffoni ben curati, come ben curato era il modo di vestire, e sempre profumato.

Era cieco, credo dalla nascita: i suoi occhi, quando li apriva, erano grossi, di un bianco celeste che fissavano il vuoto come se volessero uscire dall' orbita, come per liberarsi dalla coltre di buio che li circondava. Occhi spenti, inespressivi che trasformavano il suo volto sino a farne una maschera impressionante. Egli girava per le strade servendosi di un grosso bastone e per maggior sicurezza procedeva rasentando i muri delle case, toccandoli con una mano la quale in tal modo faceva da bussola, da strumento di orientamento.

Viveva con una sorella, la «zia Pidda», una donna mite sempre disposta a donare un sorriso che io ricordo piuttosto malinconico, ma incline per la sua benevolenza a farsi amare da tutti. I suoi modi gentili, il modo di porgere educato, non privo di una certa finezza erano la testimonianza della sua origine sociale di tutto rispetto; del resto anche il fratello, nonostante la sua cecità  aveva un portamento che, pur nella sua incertezza, nella sua insicurezza, mostrava un certo stile che imponeva riguardo.

Sì, quando Jachinu passava per le strade lasciava una scia di profumo delicato. Era il profumo che emanava dalle saponette che teneva nelle tasche della sua giacca. Perchè Jachinu l'uorvu, con discrezione e solo limitatamente ad alcune famiglie, soprattutto fra i numerosi parenti, vendeva saponette a domicilio. Non che lo facesse spinto da un bisogno economico, perchè egli era, anzi, un benestante, ma quello era il suo hobby, il modo di sentirsi vivo, partecipe della vita e, forse, anche di sentirsi utile alla società .

A scadenze fisse egli si portava, come poteva, al domicilio dei suoi clienti, metteva una mano in tasca ed estraeva una saponetta che egli prima di consegnarla, con gesto raffinato, delicato faceva scivolare lentamente sotto il suo naso, come per assicurarsi che quella fosse la saponetta adatta per la cliente, o come se con quel suo gesto volesse garantire la bontà  del prodotto.

A scadenza fissata dal suo programma veniva pure a casa mia: arrivato alla «cantunera» chiamava e chiamava a voce alta il nome di mia nonna Emilia, e allora la nonna o qualche altro membro della famiglia scendeva lungo la strada ripida e quando gli era vicino gli toccava una mano e lo conduceva dove egli chiedeva di andare.

Ebbi anch'io occasione re da guida, da accompagnatore a Jachinu l'uorvu e mi ricordo la sua mano, pulita, liscia, rosea che si toccava con piacere. Un particolare che denotava la sua particolare sensibilità  nel riconoscere la persona che lo avvicinava, era quello di prenderti la mano facendola scorrere lentamente, come una carezza sul palmo della sua, e subito ti diceva chi eri, senza mai sbagliarsi.Sono le risorse infinite della natura che qualche volta si rivela perfida quando ti condanna ad una mutilazione che menoma la tua capacità  di vivere normalmente, di essere completo, ma ti offre, di contro, altre risorse che suppliscono alla mutilazione inflitta.

Io l'accompagnavo a casa mia dove c'erano la Mamma e mia sorella Mary ad attenderlo. E sempre col solito rito, prima di consegnare la saponetta la odorava. Finita la sua missione, salutava e 1'accompagnatore lo riportava nel punto in cui lo aveva prima ricevuto. da dove egli col bastone in una mano e con l'altra mano che faceva scorrere lungo i muri esterni delle case, riprendeva il suo cammino, con una calma e una sicurezza come se egli ci vedesse.

Così scorreva la vita di Jachinu l'uorvu, con le sole emozioni che gli derivavano da questo contatto con la gente e la sensazione di sentirsi utile attraverso il profumo delle sue saponette.

Ma perchè ho richiamato in vita in queste pagine di ricordi, di rivisitazione del passato, questi personaggi?

Non so quale rappresentazione essi avranno nello spirito, nella mente dei lettori, quali immagini si affacceranno e quale senso avranno per essi che vivono così diversamente, in un'epoca così sofisticata. A me essi appaiono tutti, pur nella diversità , nella varietà  della loro rappresentazione in quel contesto di vita, come componenti di una medesima famiglia; tutti e ciascuno di loro si sommano ad un' epoca, esprimono i colori di un ambiente, l'articolazione di una società . Per me è stato come guardare una sequenza di immagini attraverso una pellicola che mostra il divenire della vita. Essi servono a identificare una porzione della storia di questo nostro paese. Perchè è così che si costruisce la storia vera degli uomini, pezzo per pezzo, immagine per immagine, momenti scarni, inqualificabili apparentemente, ma eloquenti nel loro significato umano.

L'altra, «la Storia» è fatta dall'insieme degli uomini, da tutto un popolo accostato agli avvenimenti che, guarda caso sono rappresentati da guerre, rivoluzioni, eccidi, dove però non è possibile scorgere la vera natura dell' animo dell'uomo, subissato com'è da tutto ciò di cui non ha il controllo, la dimensione vera, autentica della sua partecipazione. lo ho voluto strappare il velo del passato per mostrare ciò di cui altrimenti si perderebbe la memoria storica, la sua incisività  nel processo di crescita della nostra società ."

Liborio Guccione

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pubblicato in "Giorni vissuti come fossero anni"



"Cicco"

"Cicco era un essere, la cui mente era rimasta, come dire... confusa, sin da quando era piccolo: non connetteva, insomma. Per cui le sue azioni, come il suo dire, erano sconnessi. Non era però nocivo, anzi era un uomo pacifico, sebbene molto diffidente; magro, rinsecchito, curvo, e quando camminava si dinoccolava, come se il suo corpo stesse incerto, insicuro su quelle sue gambe ossute che sembravano dei trampoli. Nessuno si curava di lui, la gente non lo considerava: per essa era un numero, un «coso». Niente altro. Mai un saluto, un sorriso di umana comprensione. E perchè poi? Egli non se ne sarebbe neppure accorto. Del resto, ognuno aveva il suo bel daffare per conciliare la propria vita col tempo che scorreva. Tutti vivevano piegati su se stessi, senza altra ambizione che quella di rosicchiare la dura porzione, spettante a ciascuno, della propria esistenza.

Cicco era una piega un po' più amara della loro vita, ma lo consideravano forse un privilegiato perchè almeno non aveva coscienza di quel suo stato: egli viveva senza sapere neppure che era nato, nè aveva coscienza della morte. Così, la felicità  e l'infelicità  nella sua vita non erano problemi che avessero per lui alcuna consistenza. Del resto, a pensarci bene, anche gli altri non si ponevano quel problema, ma solo quello di vivere. In definitiva, l'uomo può solo sognare e sperare!

Ma Cicco non aveva neppure sogni, nè speranze: era solo un essere umano, nella misura che gli esseri umani lo considerassero parte di essi. Egli, sebbene avesse un fratello e altri parenti, viveva solo nella casa paterna, situata in una strada che si affacciava proprio sul cozzo del paese. Ho già  detto che era diffidente. per cui non con sentiva a nessuno di entrare nella sua dimora. Aveva le sue abitudini, il «suo» modello di vita, diciamo quindi un «suo ordine» o forse forse viveva secondo la legge dei rflessi condizionati, secondo le teorie di Pavlov.

Come ho detto, a nessuno era consentito di entrare nella sua casa, tranne a una sua nipote, Bernardina, alla quale era demandato il compito di accudirlo; sia pure fino a un certo punto. Sì perchè neppure Bernardina era del tutto libera di circolare per la casa: egli la seguiva passo passo, sospettoso, dubbioso e sempre con borbottìo. Cicco al mattino, attendeva là davanti alla porta di casa, la nipote che gli portava la prima colazione; così faceva pure nelle ore del pranzo e della cena; quest' ultima consumata. che ancora era giorno, perchè Cicco, poi, andava a dormire.

Andava a letto presto, appena si spegneva l'ultimo tocco dell' Ave Maria. La mattina si alzava prima che facesse alba: calcava sulla testa un berretto di panno o di tela, formato rotondo, come abbiamo imparato a vederne nei ritratti che -raffigurano Garibaldi: berretto tondo e ricamato in testa e il poncho sopra la camicia rossa.

Cicco si affacciava davanti alla porta e sbirciava a destra e a manca, dando la sensazione di volersi accertare che non ci fosse nessuno per la strada; quindi, avvolto nello scialle, usciva di corsa, dirigendosi fuori del paese, verso il Calvario in aperta campagna. Che cosa ci andava a fare a quell' ora al Calvario? Era quella l'ora della toilette: insomma Cicco andava a «li cumuna», luogo da lui detto per regolare il suo intestino. Raramente Cicco girava per il paese: nei mesi invernali viveva chiuso dentro la sua casa, d'estate, seduto davanti alla porta, tenendo un bastone in mano, le gambe attorcigliate, chiacchierando da solo.

Cosa si raccontasse era difficile capirlo, anche perchè le sue parole erano intraducibili, inintellegibili: erano parole sconnesse, suoni senza senso, un borbottìo, insomma. E poi, egli, appena qualcuno gli si avvicinava cessava subito quella specie di soliloquio, sino a quando la persona non si fosse ben bene allontanata.

La sera fatidica dell'illuminazione del paese, Cicco era irrequieto: si affacciava continuamente davanti alla porta, borbottando e gesticolando all'indirizzo di tutta quella gente che in cima alla strada si era radunata in attesa dell' accensione della luce, di cui egli era completamente ignaro.

Cicco non si dava pace, non riusciva a capire perché i suoi vicini e anche altra gente venuta da altre zone del paese se ne stessero ammucchiati là a guardare in aria e a chiacchierare come se aspettassero la processione del venerdì santo, che lui era abituato a vedere tutti gli anni quando il corteo sacro passava dalla sua strada, per andare al Calvario.

Non era abituato dunque a vedere tanta gente accalcarsi tutta insieme sulla sua strada e, soprattutto, lo irritava tutto quel chiacchiericcio. Tanto che spesso si portava le mani agli orecchi e scuoteva la testa, come se volesse difendersi dal confuso vocìo della gente. Ancor più era irritato perchè era quasi l'Ave Maria, l'ora in cui egli soleva andare a letto. Si affacciava, guardava, borbottava e poi. rientrava in casa; ma rimaneva pochi istanti e subito ritornava ad affacciarsi sulla porta, ancora a guardare, a gesticolare e a borbottare.

Era, appunto, affacciato alla mezza-porta quando la lampada che avevano installato proprio alla «cantunera», distante pochi metri dalla sua casa, si accese improvvisamente, imprevedibilmente. Cicco fu come accecato dalla luce: si ritrasse sorpreso e impaurito, ma tornò subito timidamente a riguardarla. Restò come rapito a fissare quella luce che egli non aveva mai visto; il suo viso si fece tirato,spaventato. Chissà  che effetto deve avergli fatto. Non sappiamo il trauma che deve avere subito Cicco udendo quel fragore di battimani scatenato dalla gente. Egli rimase a guardare ora la luce, ora la gente, con gli occhi sbarrati, fisso come fosse una statua. Poi, improvvisamente cadde di colpo all'indietro e rimase immobile, disteso nell'ingresso, proprio a ridosso della porta.

Nessuno di quella gente che stava seguendo l'avvenimento si accorse di Cicco e di quanto gli era accaduto. Tutti continuarono a commentare l'evento che stavano appena vivendo. Poi a poco a poco, ciascuno tornò alla propria casa, ignaro della sorte toccata a Cicco, proprio a pochi passi da loro.

Bernardina la mattina appresso quando, come di consueto, si recò dallo zio per portargli la prima colazione, non scorgendolo davanti alla porta, come al solito, ad attenderla, e osservando che la porta era aperta, si meravigliò: la spinse cautamente e chiamò, ma non udì risposta alcuna. Allora fece per entrare, ma sempre con una certa ansia e preoccupazione, perchè era imprevedibile quell'uomo; e sebbene non avesse mai fatto male a nessuno, la nipote era un po' paurosa a varcare la soglia della casa.

Ma toccava a lei scoprire come mai lo zio non era stato ad aspettarla. Lo chiamò ancora, poi timidamente avanzò di qualche passo e se lo trovò davanti, steso sul pavimento, proprio dietro la porta, immobile con gli occhi sbarrati. La povera giovane lanciò un urlo che dall'alto di quel monte, nel silenzio che avvolgeva ancora il paese fu certamente udito da tutti gli abitanti. Fuggì via presa dalla paura. L'urlo, naturalmente fece affacciare i vicini che vedendo scappare la giovane Bernardina, le corsero incontro tentando di fermarla, di calmare il suo pianto, e tutti ad una sola voce a domandarle perchè urlasse e piangesse.

Ma Bernardina era strozzata dai singulti, dal terrore e non riusciva ad articolare parola. Riuscì solo ad alzare un braccio, indicando la casa di Cicco. Alcuni rimasero a confortare Bernardina, a calmarla, altri invece corsero verso la casa di Cicco per scoprire che cosa mai fosse accaduto. Lo trovarono anche loro disteso per terra, stecchito con il viso rivolto verso la strada, verso la cantunera dove c'era quel braccio di ferro freddo, che appeso all'estremità  reggeva quella minuscola lampada, ormai spenta, come una cosa morta.

Sorpresi e sconcertati, fu avanzato il sospetto che qualcuno avesse aggredito e ucciso Cicco. Ma poi, perché, si domandavano. Egli era innocuo, era buono, non aveva un soldo, anzi non possedeva nulla che potesse fare gola a qualche malintenzionato. No, convennero tutti: è morto di crepacuore! Ma a nessuno venne in mente che la causa vera di quella morte fosse stata quella minuscola lampadina accesa nell' ora in cui Cicco solitamente già  dormiva.

Cicco era morto perchè non aveva capito (e come poteva?) che era arrivato anche per lui, per quel suo paese il progresso. Egli, dunque, fu vittima della scienza, che non si creda sia solo sinonimo di benessere... Come a Hiroshima migliaia di giapponesi, alcuni decenni più tardi, rimarranno inceneriti per merito di un altro immenso passo avanti della scienza: l'energia nucleare! Dalla quale gli uomini, con quella finezza d'ingegno, con quella sadica raffinatezza che li ha sempre distinti in tutte le epoche, avevano tradotto in ordigno distruttivo, con il quale la civiltà  umana poteva vantarsi di avere raggiunto il punto più alto della sua capacità  di sterminio della sua stessa specie! Da quel giorno il genere umano ha vissuto, vive e vivrà  per i secoli a venire, ahimè, sul filo dell' equilibrio della distruttiva energia nucleare. Un'energia offerta dalla natura per rendere migliore la vita dell'uomo, tradotta, invece, in orrore.

In ogni epoca, allorquando l'uomo ha rivolto le sue forze creative a danno suo, si è sempre giustificato dicendo: è il prezzo del progresso, della «civiltà». In nome di essa si crea e si distrugge; essa illumina e acceca, sì che nell'uomo si genera confusione. Tutto della civiltà , nel bene e nel male lo smarrisce, lo rimpicciolisce alla stessa maniera che lo ingigantisce, lo lancia in avanti e lo precipita indietro, nel tempo della barbarie; sino a spezzare in lui l'equilibrio della ragione, sino a non fargli più distinguere dove cominci la civiltà  che lo innalza e dove finisce l'inciviltà  che lo subissa.
Se poniamo a confronto le gigantesche proporzioni delle conquiste scientifiche dell'uomo con quanto ne deriva dai suoi comportamenti scellerati, si è assaliti dal dubbio che possa essere il medesimo uomo o che non si annidi in lui il saggio e il pazzo. Sennò come può il saggio essere distruttore delle sue saggezze? O altrimenti ci resta il dubbio che nella sua coscienza conviva un medesimo contraddittorio sentimento di odio-amore, cui non riesce a sottrarsi o non riesce a farlo divenire solo amore. E questa contraddizione sopravvive nonostante egli si professi credente, non importa di quale religione, perchè qualunque e comunque essa sia, è sempre espressione d'amore. Allora, non c'è dubbio: nell'uomo convivono il pazzo e il saggio."

Liborio Guccione

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pubblicato in "Giorni vissuti come fossero anni"


"la 'zza Vastiana"

"Non che lei fosse giovane, ma aveva uno spirito giovanile, allegro e, soprattutto non ci costringeva a rimanere per ore seduti, silenziosi, mummificati. La chiamavamo «zia», ma non eravamo parenti; del resto in paese per tutti era la «zia». Era un personaggio popolare e assai benvoluto. Era vedova di guerra, ma lei non si considerava tale perchè viveva sempre con la speranza che da un giorno all' altro avrebbe fatto ritorno il marito, dato per disperso nella guerra 1915-1918. Era talmente convinta che tale evento si sarebbe verificato, che trascorse tutta la sua vita, giorno dietro giorno, nell' attesa del marito. La guerra era finita da molti anni e lo Stato lo considerava morto a tutti gli effetti, tanto che aveva riconosciuto alla vedova il diritto alla pensione.

La «zia» Vastiana viveva con tre figli, Giuseppina, Gioacchino e Tanu. Era una donna piuttosto stramba e alquanto stravagante, ma d'animo buono e generoso; era una estemporanea della vita.

Erano tempi magri quelli, anzi direi di stenti, ma la «gnira» Vastiana non subì mai la delusione della vera miseria: avanzava tra difficoltà , ma avanzava con una intraprendenza che rasentava la sfacciataggine. Se non aveva soldi (ed era un caso non raro) per fare la spesa, riusciva lo stesso a tornare a casa con le braccia cariche di cibarie. Come faceva? Si indebitava, impegnandosi a pagare appena avesse ricevuto la pensione, che diamine! E si badi che si trattava di una pensione miserrima, perchè si sa che lo Stato valuta assai bene i suoi sudditi quando li arruola per fare la guerra, ma assai poco quando essi hanno la sventura di lasciarci le penne.

Dicevo, era così misera quella pensione che non riusciva a coprire i debiti che andava facendo in attesa di riscuoterla. E tuttavia lei sapeva girare e rigirare la sua lingua che diventava persuasiva, riuscendo a trovare fiducia da mastru Totò «u capusquadra». Questo nomignolo era dovuto al fatto che egli era stato molti anni in America dove, pare, avesse comandato una squadra di operai in una azienda. Egli, ritornato dall'America, aveva messo in opera una bella bottega di generi alimentari, con criteri moderni per quei tempi.

La bottega si trovava nel quartiere di S. Anna e la «gnira» Vastiana era una cliente affezionata e acquistava tutto da mastru Totò meno la pasta, sebbene fosse la rinomata pasta di Termini Imerese.

Ma lei preferiva quella di Billina, una famiglia di artigiani la cui bottega si trovava «supra lu bastiuni» in cima alla strada delle carceri. «Li ziti e li cavatuna» erano i preferiti, i «maccarruni» li faceva in casa lei. L'unico neo di Billina era che non le concedeva credito per più di dieci chili di pasta. Ma la «gnira» Vastiana riusciva a sciorinare tante di quelle garanzie da vincere il diffidente Billina.

Qualche volta a favore dei suoi argomenti faceva intervenire mastru Luciu, il postino, perchè offrisse le sue garanzie, come qualmente alla posta erano in attesa dell' arrivo della sua pensione.

Insomma, la gnira Vastiana non fece mai mancare il necessario alla sua famiglia: la miseria, gli stenti non la piegarono mai; fu sempre all'altezza della situazione. E se vi capitava di passare davanti alla sua casa, la «gnira» Vastiana si affacciava, vi salutava con la sua voce squillante e non potevate fare a meno di fermarvi a fare due chiacchiere che, manco a dirlo, avevano per argomento sempre l'agognato ritorno del marito. E intanto, tra un discorso e l'altro, finiva per invitarvi a stare a pranzo o a cena, anche quando non sapeva lei stessa cosa avrebbe messo in tavola. Era una donna generosa e ottimista.

Era tanta la sua speranza nel ritorno del marito che qualche volta si inventava di avere ricevuto lettere, telegrammi dal governo che le annunciavano il ritorno da lì a poco del marito. Un giorno uscì di casa, urlando che il marito era stato visto al «marcato» con una valigia sulle spalle. Corse con lo scialle in testa, alla volta del «marcato», all'estremità  del paese, seguita da tanta gente che in buona misura non ci credeva, ma la seguiva lo stesso facendo finta di crederci.

Ma la «gnira» Vastiana anche quel giorno, come già  altre volte, tornò indietro sconsolata, amareggiata, ma non doma. Prima o poi, confidava, sarebbe arrivato quel suo marito dal Piave dove, in verità , aveva lasciato la vita per la Patria. Ma se ne sarà  accorto che moriva per la Patria? Non lo sapremo mai!

«Gnira» Vastiana, visse e fece vivere tutto il paese sempre nell'attesa del marito, e questa certezza fu la sua consolazione. E si sa che la consolazione è un po' come una seconda vita."


Liborio Guccione
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pubblicato in "Giorni vissuti come fossero anni"


"Ninu 'u curdaru"

"C'è un episodio che mi si affaccia alla mente a proposito delle violenze che venivano esercitate all'interno della famiglia in quei lontani tempi. Ho accennato in un capitolo precedente, ma vi ho fatto ricorso incidentalmente, a un personaggio: Ninu «u curdaru». Ne parlo perchè il caso è assai emblematico: al tempo quelle vicende sollevarono molto scalpore e trovarono la partecipazione corale degli aliesi.

Ninu «u curdaru», lo abbiamo visto nella sua bottega, vicino «a la brivatura», tirare le corde per confezionare i «rutuna», tingere incerate, lo abbiamo visto fare selle, «vardeddi» e «sidduna» e mille altri attrezzi utili ai contadini. I suoi lavori erano da tutti apprezzati, per l'ingegnosità , la fantasia; ma Ninu era anche benvoluto dalla gente per il suo carattere gioviale, perchè era socievole, era uno spirito allegro, burlone perfino. Abile commerciante, ci sapeva fare e la sua era una bottega di tutto rispetto. Nino si vedeva bene che era nato per il commercio: furbo, scaltro, ma anche intelligente.

Viveva con la madre, donna Crucifissa, e due sorelle, Rosina e Pina, e dopo la morte del padre egli era divenuto il capo famiglia. Un giorno egli decise di prender moglie e, naturalmente, di portarla a vivere (come capitava spesso, del resto, in quei tempi) in casa della madre; una pia donna, ma severa e, soprattutto, con un forte spirito di comando che non cedeva a nessuno. Niente di male a portare la propria moglie a vivere in casa con la madre e le sorelle: una consuetudine, specie quando in famiglia c'era un solo uomo; ma spesso era anche una necessità economica. Ed era accettata ormai da qualsiasi sposa la totale e indiscussa obbedienza alla madre dello sposo: si sapeva che a comandare era sempre la suocera, l'ultima parola spettava alla «grand mère».

Non si era ribellata mai nessuna: le spose subivano, masticavano amaro, magari, ma erano sempre remissive, per amore di pace e del marito. Ma donna Crucifissa era soverchiosa nella sua autorità ; non le bastava il potere, l'obbedienza: voleva la sottomissione, l'umiliazione dell'altrui personalità. E la moglie di Ninu sopportò l'autorità della suocera, sino alla rinuncia di se stessa. Ma c'erano anche le sorelle del marito che volevano la loro porzione di autorità.
Poi nacque un figlio e la giovane sposa sperò che la venuta al mondo di quella creatura potesse restituirle quel valore di persona che le era stato negato sino allora. Ma la suocera volle esercitare autorità  anche su quella creatura, negando l'autentica funzione alla madre. Ebbene, se la sposa aveva taciuto sempre per amore del marito e del quieto vivere, la madre si rifiutava di rinunciare alla sua prerogativa voluta dalla natura. Nacquero le prime liti che man mano, ogni giorno di più diventarono irrefrenabili, e già  le voci si sentivano da fuori, dalla strada quando litigavano, e la gente ormai aveva capito che in quella casa di Ninu c'era l'inferno e che persino i rapporti tra marito e moglie erano cambiati, non erano più zucchero e miele. E poi - come ho già  detto - l'autorità  di donna Crucifissa veniva esercitata su tutti, compreso il figlio.

Questi, nelle divergenze tra la moglie e la madre, dopo vari tentativi di frenare le rimostranze della moglie, dopo averle raccomandato prudenza, comprensione, sottomissione, alla fine si schierò a favore della madre, dando apertamente torto alla moglie che in tal modo venne a trovarsi isolata, emarginata. La vita a quel punto divenne impossibile per la giovane sposa alla quale a poco a poco fu tolto ogni contatto con il figlio. Alle aperte scenate divenute ormai quotidiane e di dominio pubblico, si giunse poi alla decisione della sposa di abbandonare la casa del marito.
Fuggì portandosi il figlio. E questo inasprì vieppiù la già  grave situazione. Non mancarono, naturalmente, interventi di pacificatori, anche autorevoli, ma ogni tentativo di pacificazione fu inutile; soprattutto perchè la vecchia donna Crocifissa si rivelò irremovibile. Ma il problema grosso era quella innocente creatura, nata dall' amore e mortificata dall' egoismo di una vecchia prepotente. Ci furono scenate che commossero l'intero popolo di Lalia, quando con raggiri fu sottratto il figlio alla madre, e ci furono liti e sofferenze che fecero male a tutti; ma soprattutto misero a nudo le debolezze di Nino che non seppe o non volle trovare il giusto metodo per salvare la tranquillità  sua e della sua vera famiglia.

La lite si trasferì poi in Tribunale e durò non so quanto tempo: la giustizia riconobbe le ragioni della madre. Donna Crocifissa fu sconfitta, ma il vero sconfitto fu Nino che, dopotutto voleva bene a sua moglie e, naturalmente a suo figlio e per i quali certamente aveva sofferto e soffriva.

Trascorsero molti anni nel disperato isolamento di Nino, da un lato, e della moglie e del figlio dall' altro. Ninu, dopo la morte della madre, cessò 1'attività  di «curdaru» e si trasferì a Palermo con le sue sorelle, dando inizio ad una nuova attività  commerciale. Dopo molti anni, che ormai il figlio era diventato un giovanotto, Nino sentì il bisogno di riconciliarsi con la moglie e di riappropriarsi dell' amore del figlio. Forse egli si rese conto che non era più recuperabile ciò che aveva perduto in tutti quegli anni, che l'ingiustizia fatta patire alla moglie e al figlio era insanabile, ma non volle morire con la pena nel cuore.

La vita ha anche di queste pendenze, ha anche di queste pieghe amare che spesso disarmano la coscienza dell'uomo, annullandone la forza morale e civile, disperdendone i valori e mortificandone lo spirito; qualche volta irrimediabilmente. Sì è vero, è difficile essere giusti in questa vita, ma non ne abbiamo altra che ci consenta di confrontarci con la nostra disponibilità  a vivere nel giusto, nè possiamo incaricare nessuno che al posto nostro viva per noi nel giusto. Ed è qui, in questa vita che dobbiamo dimostrare la nostra disponibilità . E dobbiamo cercare dentro di noi, nella nostra coscienza, avendo sempre presente che la migliore maniera di meritare giustizia per se stessi è quella di rendere giustizia agli altri. In definitiva il valore della vita è dato dall'uso che ne facciamo."


Liborio Guccione

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pubblicato in "Giorni vissuti come fossero anni"


“lu cubbaitaru”

Se siete golosi, questo articolo colpirà sicuramente le vostre “papille gustative"; se non lo siete vi permetterà comunque di conoscere uno dei mestieri più “dolci" che il popolo aliese ricordi: “lu cubbaitaru"

La persona di cui vi parlerò infatti si occupava di creare vere delizie di mandorle e zucchero, controindicate sicuramente per i soggetti con una fragile dentatura, e vero attentato anche per i denti più sani. Ma se è vero che ”li picciutteddi arrusìcanu" anche gli altri, in certe circostanze, si danno da fare come meglio possono...

Molti di voi conosceranno, di sicuro, il detto ”fari la nota di lu cubbaitaru" , che significa dire di ”una spesa eccessiva", se consideriamo che il proverbio risale ai tempi in cui un pezzo di "cubbaita" costava una lira o poco più. Questo ci potrebbe far sorridere, ma non dimentichiamo che questa spesa era, comunque, un ”capriccio" e non un bene necessario.

Nonostante i tempi magri, ”lu cubbaitaru" pare che vendesse comunque bene la sua merce; del resto come si sarebbe potuto resistere alle sue golose tentazioni? Torroni di mandorle o noci o, a volte, anche di ”giuggiulena" lavorati con zucchero e miele ”la cubbaita" appunto, ”li miennuli agghiacciati"- mandorle ricoperte di una patina di zucchero - , ”gelatu di campagna", particolare nella sua specie di forma rettangolare e di vari colori... tre: bianco, rosa e verde.

Tutti questi dolciumi, dai colori e profumi attraenti, venivano posti su una ”bancata" situata sotto un grande lenzuolo che fungeva da tetto - una versione new-age delle odierne pagode...- , e che veniva predisposta in occasione delle feste principali del paese, quando cioè ”si cunzava la fera". “Lu cubbaitaru", quindi, coadiuvato da moglie e figli si preparava alla vendita dei suoi prodotti andando nei vari paesi dove si sarebbero attivate le fiere.

Un lavoro in parte itinerante, quindi. ”Masciu Turiddu Muntagninu", per esempio, era di Mussumeli, ma veniva a lavorare anche ad Alia, un lavoro inoltre, strettamente connesso a specifici periodi dell'anno sia perché, in occasione di specifiche feste si producevano particolari dolci, come ”lu picurieddu di zuccaru" per Pasqua, ma anche perché il lavoro c'era solo in occasione della festa. Così nei restanti mesi dell'anno ”li cubbaitara" si dedicavano ad altre occupazioni, alla coltivazione della terra alcuni, alla gestione della ristorazione di piccole pensioni, altri.

Bambini, ragazzi, adulti di tutte le età aspettavano con ansia " la festa" anche solo per il piacere di spendere poche e faticate lire in un dolce succulento, spesa che per molti si rivelava nel vero senso della parola: ”scrusciu di carta senza cubbaita."

Per chi volesse sperimentare le proprie arti culinarie ecco la ricetta della ”cubbaita"

Ingredienti: l Kg. di mandorle, 350 gr. di zucchero, qualche cucchiaio di miele.
Prima fase: sbollentare le mandorle .- già sgusciate ovviamente -, quindi togliere la pellicola che le ricopre e tenere fuori dalla portata dei bambini se non volete ritrovarvi senza mandorle.
Seconda fase: introdurre le mandorle in una casseruola e quindi portare sul fuoco; farle scottare leggermente e quindi aggiungere lo zucchero; mescolare dolcemente il composto fino a quando lo zucchero si scioglierà ed assumerà un colore dorato, quindi aggiungere il miele e terminare la cottura.
Terza fase: versare il composto su una "balatina di 'mmarmu" precedentemente bagnata o unta - mi raccomando è un accessorio fondamentale, se non lo avete procuratevelo – !
Quarta fase: lasciare raffreddare, quindi con l'aiuto di un buon coltello procedere alla scomposizione in piccole o grandi listarelle.
Ultima fase: servire, privilegiando i bambini la cui acquolina in bocca sarà salita alle stelle! Buon Appetito!!!

Laura Seragusa
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pubblicato in "La VOCE" di Alia, nr.4/1999, pag.15





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Edizione RodAlia - 05/04/2010
 
     
 
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